23 February 2003

4° g - 23 FEB: Da L'Avana a Trinidad, casa di Hemingway

Lasciamo L’Avana e ci dirigiamo verso oriente. Ci fermiamo dopo pochi chilometri a San Francisco per visitare un’icona immancabile della cultura a Cuba: la casa-museo dove visse e lavorò Ernest Hemingway. Al cancello le guardie ci contano, naturalmente noi stranieri paghiamo in dollari quello che i cubani pagano in pesos, e cioè ventisei volte di meno…Non si può entrare, se non in occasioni speciali, ma solo guardare dal di fuori i suoi mobili, libri, trofei di caccia, la vecchia barca. Qualche foto è disponibile qui.

Imbocchiamo quindi una imponente autostrada, il fondo stradale è un po’ irregolare, e la segnaletica stradale alquanto sporadica (in compenso abbondano i megacartelloni con slogan politici) ma tutto sommato è una bella strada, che ci allontana dalla costa e di invita verso il cuore collinare dell’isola. La “Autopista Nacional” in realtà non è ancora proprio nazionale, infatti corre solo per circa metà dell’isola, e soprattutto colpisce che un’autostrada sia quasi completamente senza … auto! Passano anche molti chilometri, e si incontrano solo, ogni tanto, camion ricolmi di autostoppisti.

A parte questi sporadici incontri, sembra di viaggiare sul set del film “Il Giorno Dopo”, quando i pochi sopravvissuti brancolano nello scenario devastato dalla guerra nucleare. Verso l’ora di pranzo passiamo davanti ad un ristorantino “in pesos” dove gruppetti di avventori consumano il pranzo. Vorremmo fermarci ma Diego insiste che questo locale non sarebbe adatto per noi e ci conduce in un altro localino pochi chilometri più avanti, alquanto pretenziosetto, che vorrebbe farci pagare tre dollari a testa per dei panini rinsecchiti con un’ostia sottilissima di prosciutto cotto dentro. Naturalmente non c’è un cubano a vista d’occhio. Probabilmente Diego qui prende la sua brava percentuale... non abbiamo scelta, contrattiamo un dollaro a panino di sconto e chiariamo al compunto autista che questa è l’ultima volta che ci facciamo abbindolare così, pena la sua mancia di fine viaggio! Funzionerà, non ci porterà mai più in trappole come questa…

Nel pomeriggio arriviamo alla famigerata Baia dei Porci, dove nel 1961 un manipolo di esuli mise in atto un goffo tentativo di rovesciare la Rivoluzione. La cosa per cinquant'anni fornisce materiale propagandistico al regime, che ha anche attrezzato un museo sull'episodio, ma oggi è chiuso. Ci consoliamo con un'aragosta a cinque dollari, che riesce a scacciare quei fetidi panini al prosciutto cotto dallo stomaco!

E’ notte quando arriviamo a Trinidad e ci presentiamo alla casa particular di Antonia, ma lei ci sta aspettando. Il pesante portone di legno si spalanca per rivelare un elegante salotto borghese, i mobili d’epoca coloniale scuri, le fotografie degli antenati ed una, di Antonia da ragazza, che ne rivela una personalità dolce ma sicura. Antonia ci invita dentro, è gentile, lo sguardo è affettuoso ma affaticato. Arzigogolati lampadari di cristallo pendono dal soffitto, potrebbe essere una casa spagnola, o forse italiana, magari meridionale.

Modestia, disinteresse, altruismo.

Quattro camere arredate semplicemente, danno su un piccolo patio con alcune poltroncine a dondolo e due tavolini con un paio di sedie, qualche pianta qua e là. I piccoli bagni sono poveri ma dignitosi, anche se mi ci vuole un po’ per …scoprire l’acqua calda, dato che il rubinetto per la medesima si trova in un angolo in alto della doccia.

Il tempo di sistemarci nelle stanze e Antonia ci ha preparato una succulenta cena a base di pollo e di pesce, irrorata come sempre da buona birra cubana: Cristal, più delicata e leggera, o Bucanero, più corposa (del gruppo belga Interbrew!!). La tavola viene apparecchiata in un attimo, subito prima che ci vengano serviti i piatti, ed altrettanto rapidamente viene sparecchiata appena abbiamo finito. Antonia ci dice di non parlare con nessuno in giro di questa cena, lei non ha la licenza “gastronomica”, potrebbe avere noie

Dopo cena usciamo per strada, e ci avviamo sul selciato irregolare verso la piazza centale di Trinidad, accanto alla quale, in cima ad una imponente scalinata, c’è la Casa de la Musica. In un piazzale antistante si scatena la vita serale della città. Giovani cubani si mischiano ai turisti sulla pista da ballo, ma non intorno ad essa. Infattti i tavoli davanti al bar sono quasi tutti occupati dai turisti, qualcuno è vuoto, ma non ci sono cubani, le consumazioni si pagano in dollari e solo quelli (o, più spesso, quelle) che ricevono un invito da stranieri prendono posto sulle sedie di metallo verniciate di bianco, che risaltano sul selciato nero. Gli altri, e le altre, restano in piedi ai margini del piazzale, a guardare. Mi siedo ad un tavolo con alcuni compagni di viaggio, sorseggiamo un mojito, a noi non piace ballare ma il solo guardare

Alcune ragazze mulatte, molto appariscenti, in piedi vicino i tavoli, chiacchierano fra di loro ed aspettano un invito, ma non si fanno avanti; qualcuno ci dice che hanno paura di essere prese per jineteras ed avere noie con la polizia. Molto meno inibiti i ragazzi. Un paio di loro, pelle nerissima, maglietta e pantaloni lunghi bianchissimi, muscolatura scolpita, si avvicinano a Eleonora ed Elisa, due ragazze italiane che se ne stanno sedute sugli scalini, sguardo perso nel vuoto, come ipnotizzate dai ballerini che le piroettano davanti. Le invitano a ballare, loro si guardano, esitano, poi accettano e si lanciano… Huberto e Wladimir, i due cubani, fanno quello che possono per insegnarle le fondamenta di son e salsa.

Le mostrano come si fa, le girano e rigirano, le lanciano e le riprendono, le frullano, ma c’è qualcosa che non va, non tanto con le due volenterose pulzelle, che ce la mettono tutta e si difendono come possono, ma il problema è sistemico, è congenito a noi europei, ci manca una marcia, una spinta in più per poter stare al passo dei cubani che ballano. Io decido di lasciar perdere, di non provarci proprio a ballare; già non mi è mai molto piaciuto ballare, lo facevo al liceo quando andavo in discoteca a rimorchiare (o meglio a tentare di…) ma l’ho sempre considerato come un lavoro, un male necessario per conoscere le ragazze. Certo qui sarebbe l’occasione buona per imparare qualcosa, mi sento un po’ in colpa per non provarci neanche. Ma poi mi convinco che sia meglio stare a guardare…

L’opera della Rivoluzione si alimenta dell’unione e della partecipazione del popolo (Fidel)

Mi vengono in mente certi programmi della televisione italiana, pubblica e privata, che per accaparrarsi frammenti percentuali di pubblico (ma si dice “audience”) gareggiano ad esibire le coscielunghe nostrane, magari fintobionde, condite da seni straripanti, il tutto per cercare di accalappiare al proprio canale lo zapping di qualche telespettatore in più. E così via libera a coscielunghe e tettone persino nei programmi di informazione, persino quando si parla della guerra. Il Ministro della Repubblica annoia, ma bisogna pur invitarlo, però se accanto gli siede l’attricetta scollacciata con le coscione accavallate il pubblico aumenta. Rifletto e mi convinco che la più accattivante delle nostre giovani coscielunghe televisive non reggerebbe il confronto con una qualsiasi delle ragazze cubane che stanno ballando qui questa sera. Non reggerebbero non solo, e non tanto, dal punto di vista puramente estetico, della figura, ma soprattutto dal punto di vista dinamico, del movimento, della sensualità, e quindi in definitiva dell’attrazione. Anzi non reggerebbero il confronto con le cubane, punto, anche se queste non ballano affatto!

Perché le cubane in realtà non hanno di bisogno di ballare per far emergere l’incolmabile divario tra la loro sinuosità e la legnosità, tra il loro fluido ritmo ed il farraginoso tentennamento. Le cubane non hanno bisogno di ballare perché praticamente è come se ballassero sempre. Basta guardarle scendere le scalinate della Casa de la Trova, o magari semplicemente la scaletta di un autobus, e già ondeggiano, vibrano, irradiano sensualità. Quando poi si scatenano su una pista da ballo è come se mettessero il turbo, se accendessero il post-bruciatore, praticamente non toccano quasi più la terra, decollano. Impossibile affiancarci a loro, la lotta è impari, crudele, senza storia. Non c’è niente da fare, meglio lasciar perdere. Dico questo, da uomo, delle ballerine, ma le mie compagne di viaggio mi confermano che la stessa cosa si potrebbe dire, mutatis mutandis, dei ballerini! Forse è meglio non ballare proprio, a Cuba, più decoroso lasciar far loro ed accontentarsi di guardarli!

A mezzanotte la Casa de la Musica chiude i battenti, un signore ci spiega che domani è lunedì, noi siamo in vacanza ma i cubani vanno a lavorare dunque basta musica! Ce ne andiamo a fare quattro passi con Eleonora, Elisabetta, Huberto e Vladimiro (nome palesemente poco cubano, appioppatogli da genitori ideologizzati in onore di Lenin, quando c’era l’Unione Sovieta amica!). Mi presento, mi chiamo Marco e Vladimiro soddisfatto: “Bel nome! Un vero nome cubano!”. Obietto che veramente Marco è un nome romano, ed io sono appunto romano, ma lui insiste: “Ma no, è cubano, ci sono moltissimi ragazzi che si chiamano Marcos qui a Cuba!”. Gli dico che Marco è un nome cubano quanto lo è Vladimiro, e lui si fa una bella risata…

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