28 December 2020
Recensione libro: Caduti dal Muro (2009) di Paolo Ciampi e Tito Barbini, *****
01 November 1994
La Nuova Dimensione della Sicurezza in Europa Orientale
Versione originale preparata per il CeMiSS, Novembre 1994
Introduzione
Dopo la fine della Guerra Fredda, la sicurezza dei paesi dell'Europa centrale ed orientale (PECO) e di quelli nati dalla dissoluzione dell'URSS (Nuovi Stati Indipendenti, NSI), è divenuta una conditio sine qua non per la sicurezza dell'Europa intera. Questa interdipendenza in materia di sicurezza non è interamente nuova. Già durante la Guerra Fredda l'Occidente aveva dovuto riconoscere che la propria sicurezza era dipendente da quella dall'altra metà del continente—così come veniva percepita da Mosca. Tutto ciò risultava in non poca ipocrisia: per esempio, l'URSS otteneva la prima "distensione" e l'inaugurazione della CSCE subito dopo aver invaso la Cecoslovacchia nel 1968. Ma durante la Guerra Fredda l'interdipendenza in materia di sicurezza si traduceva in una rigida separazione delle responsabilità geopolitiche, per cui l'Occidente era obbligato ad astenersi dall'interferire nella zona di influenza sovietica, e vice vesa. Oggi, invece, interdipendenza vuol dire farsi parte attiva nella risoluzione delle controversie rimaste pendenti dopo la fine del bipolarismo: a questo l'Occidente è chiamato dalle parti in causa.
Oggi non c'è più l'ostilità di ieri tra Est ed Ovest, ma l'Europa non è affatto "unita e libera" così come George Bush, tra gli altri, l'aveva precipitosamente proclamata già nel 1990. La regione dei PECO continua ad essere frammentata e, lungi dall'essere libera, vede molte sue parti in guerra (o quasi). Paradossalmente, dopo che l'occupazione sovietica e con essa ogni minaccia militare significativa sono scomparse dall'Europa, in Europa orientale la sicurezza non si è rafforzata.
In Europa occidentale, la scomparsa dei massicci spiegamenti sovietici nell'area del Patto di Varsavia (e degli ancora più preoccupanti dispositivi di mobilitazione e di rinforzo), non hanno prodotto tutti i risultati sperati. La minaccia di invasione da Est è sparita, ma la percezione generale di sicurezza non è migliorata. L'Europa, dopo 45 anni, ha rivisto la guerra, e se pure questa è al momento circoscritta (ex-Jugoslavia, Caucaso), il pericolo di una sua conflagrazione è reale, anche se imprevedibile e non facilmente definibile. La conseguenza di questa imprevedibilità e non quantificabilità è che diviene impossibile, nelle democrazie occidentali, mobilizzare l' opinione pubblica affinché sia disposta ad accettare i sacrifici necessari a far fronte alle nuove esigenze di sicurezza. In questo contesto, una continuata analisi delle variabili della sicurezza occidentale legate agli sviluppi dell'ex-mondo comunista è particolarmente auspicabile, sia per sensibilizzare un'opinione pubblica ingiustificatamente apatica e distratta, sia per essere attrezzati a reagire se e quando non sarà più possibile procrastinare.
Nell'ambito geografico dell'Europa post-comunista, le aree di maggiore rischio sono quelle dell'ex-URSS e dei Balcani, mentre la regione mediterranea aggiunge un'ulteriore fonte di incertezza, specialmente per i paesi, come l'Italia, che vi sono contigui. Mentre delle ultime due regioni si occupano altri capitoli in questo studio, alle questioni inerenti alla prima sono dedicate le pagine che seguono. Non ci occuperemo invece dei paesi della cosiddetta area di "Visegrad" (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) sia perché non si registrano in quest'area fonti di pericoli, per quanto remoti, all'Occidente; sia perché è probabile che le relazioni politiche tra questi paesi e le istituzioni dell'Europa occidentale si svilupperanno rapidamente nel prossimo futuro, ed è prevedibile una sempre maggiore integrazione dei primi nelle seconde.
Discorso diverso per i paesi ex-sovietici, più instabili internamente, più minacciati esternamente e, soprattutto, a cui non si aprono altrettante prospettive di integrazione (al di là di una reintegrazione con la Russia): né economica (con l'Uniione Europea); né politico-militare (con la NATO). Su questi paesi, ed sulla politica della Russia verso di loro, si incentra l'analisi che segue. In primo luogo, si analizzerà il ruolo della CSI in quanto tale. Quindi il delicato rapporto, multilaterale e bilaterale, della Russia verso i paesi che vi fanno parte. Infine, si esaminerà la situazione in Ucraina, che dopo la Russia è sicuramente il paese più rilevante per i destini di tutta la regione ex-sovietica.
Il Ruolo della CSI
Proposta per la prima volta a Minsk il giorno 8 Dicembre 1991, e formalmente creata ad Alma Ata il 20 Dicembre, la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) nasceva ancora prima che l'URSS avesse formalmente cessato di esistere (25 Dicembre, con le dimissioni di Gorbaciov). La sua creazione rifletteva l'esigenza che, nonostante l'euforia dell'indipendenza che si era diffusa tra le repubbliche ex-sovietiche durante l'anno precedente, esse avevano troppo in comune per separarsi così rapidamente e completamente come avrebbero voluto i più facinorosi tra i gruppi nazionalisti (o sedicenti tali) che un po' ovunque risorgevano da sette decenni di repressione.
Lo scopo immediato della CSI era di coordinare le tre maggiori repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia) nella loro transizione all'era post-sovietica. A tre anni di distanza da quella decisione, la CSI si è espansa fino ad includere quasi tutte le repubbliche dell'URSS (tranne le tre baltiche)i, e rimane un importante strumento verso il raggiungimento del suo scopo originario, anche se a condizioni che non sempre sono quelle sperate dai suoi stati membri—per motivi che appariranno chiari nel corso della presente trattazione.
Da quel momento, sono stati conclusi svariati accordi specifici (nel settore della sicurezza, dell'economia, sul piano politico) ed una Carta della CSI è stata firmata nel 1993. Nell'Aprile del 1994 i membri della CSI hanno concordato formalmente un' unione economica, ma i tempi ed i modi della sua realizzazione rimangono poco chiari, ed è improbabile che essa possa concretizzarsi rapidamente e senza problemi. Per esempio, un programma di unione monetaria tra Russia e Bielorussia ha dovuto essere sospeso a causa di una serie di problemi che erano stati inizialmente sottovalutati: il differenziale inflazionistico troppo elevato tra i due paesi; la difficoltà di individuare un tasso di cambio accetabile alle due parti; la riluttanza delle autorità di Minsk sono a cedere porzioni di sovranità, come la facoltà di battere moneta, alla Russia).
Vari organi consultivi sono stati creati nella CSI (il Consiglio dei Capi di Stato, quello dei capi di governo, dei ministri degli esteri e della difesa, dei capi di stato maggiore). Anche se spesso elusi da accordi bilaterali tra la Russia ed i singoli paesi, questi organi rimangono formalmente in carica e svolgono una notevole mole di lavoro
Relazioni politiche ed economiche
La CSI è ben lungi dal divenire una vera alleanza tra stati, come almeno alcuni dei suoi membri devono aver sperato nel divenire indipendenti nel 1991. La Russia continua ad usare la CSI come cornice formale per le relazioni multilaterali, ma sempre più fa uso di accordi bilaterali, che ovviamente non possono essere equilibrati. Questo sistema ricorda piuttosto da vicino i trattati che l'URSS stipulava con i paesi satelliti allo scopo di meglio controllare le attività multilaterali del Patto di Varsavia e del COMECON. Ciononostante, la CSI continua ad essere utilizzata (anche se a volte come poco più di una foglia di fico) per rendere la disparità che sottende questa rete di accordi bilaterali più accettabile da parte del mondo esterno, e principalmente dall'Occidente.
A quest'ultimo scopo, la Russia ha cercato con una certa insistenza, ma finora senza successo, di ottenere il riconoscimento della CSI come organizzazione regionale in base al capitolo VIII della Carta dell'ONU. Questo tentativo continua in ambito alla CSCE, e la CSI presenterà un proprio contributo scritto al prossimo vertice di Budapest del Dicembre 1994. L'Occidente ha finora opposto resistenza a questo riconoscimento, ma è possibile che, se continuerà la tendenza in atto, la comunità internazionale dovrà prendere atto dell'esistenza della CSI, salvo poi, al più, porre pressione (soprattutto sulla Russia) affinché siano rispettati i dettati del diritto internazionale nei rapporti tra gli stati membri.
Lo squilibrio nei rapporti tra Russia e NSI viene dunque mascherato, non senza una dose di pretestuosa e disincantata ingenuità, dietro la facciata della CSI, ma prima degli scontri dell'Ottobre 1993 alcuni parlamentari russi si erano spinti fino a dichiarare candidamente che Mosca avrebbe dovuto dichiarare il proprio equivalente della "dottrina Monroe" americana.ii Al tempo questa linea non fu fatta propria né dal governo né dal presidente Jeltsin; tuttavia, dopo le elezioni del dicembre 1993, ed il rafforzamento delle forze nazionaliste e di destra, Jeltsin è stato costretto a tenere maggior conto di queste posizioni, e le ha anche parzialmente incorporate nei propri discorsi e nella propria politica.
Ovviamente questo predominio russo non è universalmente ben accolto tra i NSI, ma le alternative, per loro, sono difficili da individuare. Alcuni tentativi in questa direzione non hanno sortito l'effetto sperato: per esempio, gli stati dell'Asia centrale hanno cercato di sviluppare un foro alternativo di cooperazione ed integrazione regionale tra di loro (l'Unione dell'Asia Centrale) ma non sono riusciti a concretizzare molti dei loro propositi. Parimenti, alcune repubbliche europee (Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia, Azerbaijan) hanno cercato uno sbocco nel Consiglio di Cooperazione del Mar Nero (sponsorizzato dalla Turchia) e varie ipotesi sono state ventilate di incrementare i contatti con i PECO, soprattutto i paesi baltici e quelli dell'"area di Visegrad". Ma i NSI rimangono strutturalmente dipendenti dalla Russia, e la costruzione di contatti orizzontali richiederebbe molto tempo ed enormi quantità di risorse economiche e tecnologiche, di entrambe le quali non vi è certo abbondanza nella CSI.
Le condizioni economiche nella CSI sono precarie e, in generale, in fase di ulteriore peggioramento. Il consenso degli economisti è che, come si suol dire, le cose debbano "ancora peggiorare prima di poter migliorare". Pil e produzione industriale sono stati colpiti maggiormente dalla crisi post-comunista, mentre la produzione agricola ha sofferto meno (anche se la contabilità in questo caso è meno attendibile) e ben poche stime sui servizi sono disponibili. Lo stato disastrato delle valute della maggior parte dei paesi (al punto che il Rublo russo, le cui difficoltà nella seconda metà del 1994 nei confronti delle valute convertibili sono note, viene considerata valuta pregiata nella CSI) non può che peggiorare le cose. Questa debolezza economica e strutturale ha portato i NSI ad essere piuttosto acquiescenti nei confronti delle prevaricazioni della Russia, anche quando questo ha voluto dire una plateale strumentalizzazione dell'organizzazione dei rapporti in ambito CSI per palesi scopi di interesse nazionale russo.iii
Questa acquiescenza, tuttavia, non è servita ai NSI ad ottenere sostanziali aiuti economici dalla Russia. Per esempio, Mosca continua a mantenere una linea economica piuttosto inflessibile nei confronti dei NSI per quanto concerne il debito valutario e commerciale di questi ultimi. Mosca richiede valuta pregiata, se non addirittura quote azionarie in industrie produttive, come pagamento per gli idrocarburi che fornisce, il cui prezzo è peraltro quasi sempre calcolato in base alle quotazioni del mercato internazionale. Soltanto la politicamente pavida Bielorussia ha ricevuto prestiti significativi (oltre 150 miliardi di rubli, in ulteriore crescita) senza dover per questo ipotecare beni produttivi.
In conclusione, i legami economici nella CSI sono il male minore per i NSI. La loro dipendenza strutturale dalla vecchia infrastruttura sovietica e dai vecchi legami commerciali, e la mancanza di alternative internazionali realistiche, fanno sì che il rinnovo dei legami con la Russia sia il solo modo di sperare nella propria sopravvivenza. Questo pone i NSI in posizione di demandeur, e perciò subordinata. La Russia, da parte sua, è determinata a far pagare questi legami in termini sia politici, sia economici.
Le Forze militari della CSI
Già nel dicembre del 1991 la CSI aveva creato le cosiddette "Forze Armate Comunitarie", poi ratificate nel Trattato di Tashkent del Maggio 1992, che, tra l'altro, divideva tra i paesi della CSI la quota sovietica delle armi convenzionali prevista dal trattato CFE. Il Maresciallo dell'Aviazione Evgeny Shaposhnikov era nominato Comandante in Capo delle Forze Comunitarie. Ma queste ultime erano destinate a rimanere lettera morta. Shaposhnikov fu successivamente trasferito (Giugno 1993) al posto di Segretario del Consiglio di Sicurezza della Russia, e questo pose fine alle pretese della CSI di creare in vero e proprio comando comune: col trasferimento di Shaposhnikov, la Russia aveva da una parte sottolineato che la prima priorità era il rafforzamento delle strutture di difesa nazionali, e dall'altro ribadito che l'autorità di comando della CSI sarebbe stata subordinata a quella di Mosca.
Abbandonati a sé stessi, tutti gli stati della CSI devono affrontare una serio dilemma economico e un'ardua sfida tecnologica per cercare di finanziare e mantenere in efficienza le proprie forze armate. Il percorso sarà in salita e per tutti i NSI (con la possibile eccezione dell'Ucraina, che, date le sue dimensioni economiche e l'avanzato livello industriale raggiunto in era sovietica, ha maggiori margini di manovra) raggiungere il traguardo di forze armate indipendenti effettivamente operative (e non solo, come oggi, in gran parte solo nominali) sarà un'impresa pressoché disperata. Anche in quest'area, è prevedibile che essi dovranno far ricorso, in misura variabile, all'aiuto russo.
Sul piano tecnologico (manutenzione, parti di ricambio, ammodernamento), Mosca troverà probabilmente conveniente estendere ai NSI l'aiuto militare che essi, in alcuni casi loro malgrado, chiederanno. E questo sia perché esso costituirà un impiego redditizio del proprio complesso militare industriale; sia perché è prevedibile che attraverso gli aiuti militari la Russia acquisisca una notevole leva politica nei confronti dei governi dei NSI ricettori. Nel medio periodo, tutto ciò contribuirebbe, di fatto, a ricreare un grande sistema politico-militare, controllato da Mosca, nell'area comprendente più o meno quella dell'ex-URSS—i paesi baltici ne potrebbero restare con tutta probabilità i soli esclusi.
Nell'Aprile del 1994, due anni dopo Tashkent ed un anno dopo lo spostamento di Shaposhnikov al Consiglio di Sicurezza russo, il ministro della difesa russo Pavel Graciov ha perfino esplicitamente riproposto la creazione delle forze armate della CSI, che, nelle attuali condizioni di squilibrio politico militare a favore della Russia, sarebbero ovviamente dominate da quest'ultima. Questa proposta non è stata fatta propria né dal ministero degli esteri né dal presidente, evidentemente attenti a non offrire pretesti a chi in Occidente rimane sospettoso delle intenzioni imperiali di Mosca.
Tuttavia, Kozyrev ha colto l'occasione di un discorso agli ambasciatori della Russia nei NSI e nei paesi baltici che, "la Russia non si dovrebbe ritirare da quelle regioni che sono state nella sua sfera di interesse per secoli" e (riferendosi alle accuse rivolte alla Russia di non voler ritirare le proprie forze dagli spiegamenti ex-sovietici nell'ex-URSS) "non deve aver paura di usare le parole «presenza militare»".iv Le ultime parole sono ovviamente riferite a chi, in Occidente, ripete che l'indipendenza dei NSI, ivi compresa la loro sovranità territoriale, rimane un cardine della politica dei paesi occidentali verso la Russia.
Alla fine del 1994, le forze armate russe rimangono presenti sul territorio di svariati NSI: due reggimenti aerei in Bielorussia, la 14a armata in Moldova (20.000 effettivi), 12.000 uomini in Tadjikistan, e 28.000 in Turkmenistan, come componente delle "forze armate congiunte" russo-turkmene.v Inoltre, le forze di tutti i paesi della CSI, soprattutto, ma non solo, in Asia Centrale, sono in buona parte "russificate": durante l'era sovietica i gradi più alti erano in gran parte appannaggio di ufficiali russi che poi sono per lo più rimasti al loro posto dopo la scomparsa dell'URSS.
Il Controllo delle Forze Nucleari Sovietiche
La CSI non ha avuto alcun ruolo nel controllo delle forze nucleari ex-sovietiche. I paesi membri si accordarono subito (fine 1991) sul ritiro delle forze nucleari tattiche dai NSI che le ospitavano e sul loro trasferimento in Russia. Il trasferimento fu completato nella primavera del 1992. Per quanto concerne le forze strategiche, al presidente russo, già dalla fine del 1991, veniva riconosciuta l'autorità di controllo "positivo" (cioè di ordinare un lancio), ma a condizione che egli ricevesse l'assenso dei capi di stato di Ucraina, Bielorussia e Kazahstan—i tre paesi che ospitano tali armi strategiche sul proprio territorio—e che "consultasse" tutti gli altri capi di stato o di governo della CSI. Questo, sulla carta, si deve applicare a tutte le armi nucleari ex-sovietiche, e quindi anche a quelle in territorio russo, e non solo a quelle nelle tre repubbliche citate.
Il valore dell'impegno russo a ottenere l'assenso dei tre stati sopra citati è tuttavia poco più che nominale. In realtà, l'accordo CSI dà ai tre stati che ospitano armi strategiche l'autorità teorica di un controllo "negativo" (cioè di influenzare, e persino di porre un veto) sulle decisioni di uso nucleare del presidente russo, ma la loro capacità pratica di farlo è fortemente limitata nel migliore dei casi (Ucraina) e praticamente nulla per Bielorussia e Kazahstan. Nonostante questi paesi abbiano palesato ripetutamente (e alquanto confusamente, specialmente da parte di Kiev) varie pretese di controllo nucleare, nessuno di essi ha mai acquisito una capacità di uso nucleare unilaterale.
Per quanto concerne l'impegno russo a consultare gli altri NSI, questo si deve considerare poco più che un cortese tributo alla loro formale sovranità all'interno della CSI. Non sono mai state concordate specifiche procedure di consultazione nucleare nella CSI, e non sono mai state costruite strutture di comando, controllo e comunicazione tra le varie autorità nazionali a questo scopo.
Il ruolo della Russia nella CSI
Dall'analisi di cui sopra emerge la facile conclusione che, alla fine del 1994, e con l'acquiescenza della maggior parte dei NSI, la CSI esista soprattutto come strumento per lo spiegamento della potenza—politica, economica e militare—russa. Mosca sta palesemente cercando di ricreare una sfera di influenza che dovrebbe, mutatis mutandis, rimpiazzare il defunto impero sovietico—in una continuità di proiezione di potenza che risale, ovviamente, all'era zarista. La necessità di agire in questo senso costituisce uno dei pochi punti di consenso nazionale in Russia oggi: un recente sondaggio (Maggio 1994) ha indicato che per il 78% dei Russi è "disdicevole" che l'URSS non esista più simile sondaggio nel Giugno 1992 era risultato in una percentuale del 54%. Questo ampio consenso comprende non soltanto la coalizione tra comunisti e nazionalisti, ma molte fasce moderate.vi Culturalmente, ancor più che politicamente, è difficile per i Russi accettare il fatto che la Russia oggi non è più un impero ma uno stato-nazione (anche se vastissimo e fortemente diversificato).
L'Occidente, grazie ai mezzi di informazione che oggi, a differenza di quanto accadeva durante le epoche sovietica e zarista, sono disponibili, può in parte influenzare questo dibattito. Ma se la Russia sarà internazionalmente integrata o isolata dipenderà prima di tutto dalla stessa Russia. Il che vuol dire che sarà di decisiva importanza la lotta che sta nuovamente avendo luogo, ancora una volta, come durante lo zarismo, tra Occidentalisti e nazionalisti pan-Slavisti. Se dovessero prevalere i primi, la Russia si avvierebbe verso scelte orientate all'Europa che sarebbero di beneficio a tutto il continente. Altrimenti, una riaffermazione delle tradizioni autocratiche russe potrebbe facilmente dar corpo ad un sentimento di una Russia assediata, a ciò creerebbe problemi insormontabili per la sua reintegrazione in Europa, con conseguenze destabilizzanti anche per la sicurezza del continente.
Ma c'è una terza possibilità, rappresentata da quella che può essere chiamata la corrente "Eurasiatica" nella politica estera russa. Secondo questo pensiero, la Russia non può far parte dell'Occidente; siccome essa ha anche un importante ruolo in Asia, è destinata ad essere "altro" che l'Occidente, anche se non necessariamente ostile ad esso.vii Questa impostazione denota un netto cambiamento dall'orientamento decisamente pro-Occidentale dell'immediato periodo post-sovietico, quello che era stato da più parti definito il "periodo romantico" delle relazioni tra Occidente e Russia.viii
La corrente che abbiamo definito eurasiatica è una novità nella tradizione della politica estera russa, che si è in passato divisa, grosso modo, tra pan-Slavisti e Occidentalisti. Quest'ultimo gruppo aveva prevalso nell'impostazione della politica estera nell'immediato periodo post-sovietico, ma oggi è in ritirata. I pan-slavisti, che vedono la Russia come intrinsecamente superiore all'Occidente, si stanno rafforzando, ma non hanno ancora riaffermato una chiara supremazia; anzi, se l'uscita di Solzhenitsyn a Mosca nell'Ottobre-Novembre 1994 (dove è stato accolto assai tiepidamente dal pur conservatore Parlamento russo) è indicativa della loro forza relativa, è improbabile che ci riusciranno mai.
Gli "Eurasiatici" si collocano fra i due gruppi tradizionali, e prendono alcuni elementi da ciascuno. Essi non cercano un rinnovato confronto con l'Occidente, ma sono decisi a riaffermare gli interessi russi almeno nelle regioni più vicine geograficamente e storicamente. Gli Eurasiatici credono che questa politica di difesa degli interessi nazionali sia compatibile con il mantenimento di buone relazioni con l'Occidente. Per dirla con Sergey Karaganov, vice-direttore dell'Istituto per l'Europa dell'Accademia delle Scienze, membro del Consiglio Presidenziale sulla Politica Estera e la Sicurezza, la Russia ha un "ruolo insostituibile e una missione ingrata" da portare a termine nell'ex-URSS.ix
Una presa di posizione molto simile è quella di Evgeny Primakov, un ex-direttore dell'IMEMO (anche questo un Istituto dell'Accademia delle Scienze) oggi divenuto Direttore del Servizio di Informazioni per l'Estero, che sostiene che l'indipendenza per i NSI non ha portato né riforme, né democrazia. Al contrario, ha favorito gli isolazionisti che si oppongono a che la Russia e la CSI assuma un ruolo attivo e costruttivo nella comunità internazionale. Il lettore del rapporto è portato a indurre che, dal punto di vista di Primakov, anche qualcosa meno che la piena indipendenza andrebbe altrettanto bene per i NSI, magari con la Russia "democratica" che mostra loro la via verso le riforme e la democrazia.x
Un alleato naturale per questo modo di vedere il futuro della politica estera russa nella CSI può essere trovato nell'estrema destra nazionalistica e nelle forze armate—i due gruppi sono in parte sovrapposti. Nelle elezioni del Dicembre 1993, l'estrema destra dei Liberali Democratici di Zhirinovskiy ricevette dai quadri delle forze armate una percentuale di voti sensibilmente maggiore di quella ottenuta a livello nazionale.xi Anche i Comunisti trovano conveniente appoggiare le richieste dei Liberali Democratici in politica estera—questa può essere interpretata come una buona applicazione della classica regola tattica leninista de "un passo avanti, due passi indietro" per far cadere il presidente Jeltsin. Nonostante il rovescio dell'Ottobre 1993, questa improbabile alleanza è divenuta via via più spavalda nei mesi successivi alle elezioni di dicembre.
In ogni caso, quale delle tre scuole (Occidentalista, pan-Slavista o Euroasiatica) prevalga (ed anche se non prevalesse nessuna, e la Russia continuasse a barcamenarsi, per così dire, in mezzo al guado) l'influenza della Russia nel cosiddetto "vicino estero" continuerà a crescere. Infatti, sia gli Occidentalisti, sia i pan-Slavisti sostengono che "Russia" voglia dire essenzialmente il vecchio impero russo, magari con qualche rinuncia riguardo a vecchie provincie zariste ad ovest (Polonia) e a nord (Finlandia, paesi baltici).
La differenza è che, contrariamente a quanto accadeva con gli stati confinanti con la Germania di Weimar, la maggior parte dei NSI interessati, magari non per libera scelta ma per mancanza di alternative, avvallano l'ascesa della Russia—quando, addirittura, non la incoraggiano. Pertanto, si può affermare che la crescita del potere della Russia nei confronti del "vicino estero" sia una variabile pressoché indipendente nel panorama geopolitico europeo.
In parte come espressione di questo cambiamento di pressioni al vertice, la manifestazione più palese del crescente peso della Russia si è venuto manifestando nelle operazioni cosiddette di "mantenimento della pace" (Peacekeeping) della Russia nella CSI. Il Ministro degli Esteri Kozyrev ha dichiarato che la Russia agisce perché le viene chiesto, e lo fa sotto l'ombrello della CSI, che egli vorrebbe essere considerata una legittima organizzazione internazionale. Legittimità che pure viene contestata, ma che non può in nessun caso pretendere di divenire legittimante: quest'ultima prerogativa spetta all'ONU e non alle organizzazione internazionali regionali, se pure tali riconosciute nell'ambito del capitolo VII della Carta.
La visione di Kozyrev è ragionevolmente credibile per quanto concerne l'intervento russo in Tadjikistan: qui, una forza veramente internazionale sta operando con una relativa base relativamente ampia di consenso delle parti. Ma questo non è il caso il altre aree dove la Russia sta conducendo operazioni di "peacekeeping" sotto l'egida della CSI, ed in particolare nel Caucaso. Queste operazioni sono un esempio concreto della mancanza di una vera partecipazione internazionale in operazioni etichettate "CSI". Questa è la principale ragione per cui è difficile per la CSI ottenere il riconoscimento di organizzazione internazionale in base al capitolo VII della Carta dell'ONU.
Una considerazione finale: a prescindere dal grado di legittimazione internazionale che riusciranno ad ottenere, le operazioni di "peacekeeping" russe nella CSI difficilmente potranno essere mantenute ad elevati livelli di impegno militare. Le forze armate russe sono piagate da forti carenze di manutenzione e di risorse di ogni tipo, ivi comprese quelle umane, dovute a diserzioni alla leva che in alcune regioni raggiungono la quasi totalità dei coscritti.xii Se finora gli interventi sono stati coronati da relativo successo, questo è anche dovuto al fatto che essi si sono sviluppati su scala relativamente ridotta; se tali interventi si dovessero moltiplicare, o se qualcuno tra essi dovesse particolarmente complicarsi, le forze ivi impegnate potrebbero incappare in imbarazzanti sconfitte.
Prospettive per il futuro
Alla fine del 1994, tutti i NSI, anche se spesso con riluttanza, e per ragioni diverse, cercano di rafforzare la propria sicurezza attraverso maggiori legami con la Russia. Anche dal punto di vista economico, Mmosca rimane un punto di riferimento obbligato. In alcuni casi, i NSI hanno esplicitamente espresso chiare aspettative a questo riguardo. In altri casi, essi sono stati obbligati a rivolgersi a Mosca dalle circostanze—la crescente pressione politica di Mosca e la mancanza di alternative.
È improbabile, tuttavia, che i NSI dimostreranno gratitudine per i benefici che eventualmente riceveranno. I leader dei NSI (in buona parte ex-dirigenti del partito comunista sovietico) comprendono bene che solo la Russia potrebbe offrire loro la sicurezza di cui hanno bisogno, ma temono che una re-integrazione formale farebbe loro perdere, potere, prestigio, lo status internazionale recentemente acquisito e, forse, anche l'identità—per i propri neonati stati e per sé stessi in persona.
Pertanto, è probabile che questi capi di stato cercheranno di mantenere, almeno sul piano nominale, l'indipendenza dei rispettivi stati. Rinunciarvi sminuirebbe il loro prestigio e ruolo personale. Allo stesso tempo, essi saranno costretti a cercare protezione e risorse a Mosca. In altre parole, essi cercheranno la quadratura del cerchio: questo non è un fatto raro in sé nella storia della politica internazionale, ma difficilmente l'obiettivo viene raggiunto. Data la debolezza negoziale con cui i NSI si misureranno nel tentativo, è improbabile che lo sarà questa volta. I NSI potranno rimanere nominalmente indipendenti (dopotutto, Ucraina e Bielorussia hanno sempre avuto un proprio seggio all'Onu) ma, se le tendenze attualmente in corso continueranno, i propri destini saranno sempre più legati a quello della Russia.
Se e fino a che punto ciò avverrà attraverso il meccanismo della CSI, è solo relativamente importante. Forse la CSI si consoliderà fino a divenire una credibile organizzazione internazionale regionale, ma questo sembra poco probabile. Più probabile è invece che diventi uno strumento attraverso il quale la Russia potrà esercitare la propria pressione politica in modo che questa risulti più presentabile al mondo esterno, ed in particolare all'Occidente.
Forse i NSI manterranno quindi la propria indipendenza, almeno sul piano nominale. Forse una CSI dominata dalla Russia si vedrà conferiti poteri sovranazionali in alcune aree ma non in altre, e la partecipazione dei NSI nelle varie materie di cooperazione nella CSI sarà difforme: ma mentre una CSI á la carte potrà sortire l'effetto sperato dalle parti contraenti nel breve termine (consentire alla Russia di riasserire la propria influenza e ai NSI di mantenere bandiera ed inno nazionale). Ma non potrà eludere a lungo la questione fondamentale se questi stati rimarranno effettivamente sovrani o se (come sembra via via più probabile) essi diverranno di nuovo parte della Grande Russia.
Qui ci riproponiamo di analizzare in maggiore dettaglio la politica estera della Russia verso quest'area geografica. È evidente che dagli sviluppi di questa dipende in buona misura il futuro della stabilità in Europa, e, di più, se l'Europa si avvia verso una nuova bipolarizzazione (Occidente e CSI, con forse un'area grigia tra i due) oppure verso una multipolarizzazione frammentaria e discontinua. L'interesse occidentale è palese, ma i pareri discordano su come i nostri interessi sarebbero meglio protetti: da una nuova divisione in blocchi, anche se non necessariamente in conflitto tra di loro? o da un'Europa frammentata, che interponga il maggior spazio possibile tra Occidente (comunque definito) e Russia?
La politica estera della Russia verso il "vicino estero"
Nuove tendenze nella politica estera russa
I paragrafi che seguono tratteranno le trasformazioni in corso nella politica estera russa e le sue implicazioni per l'Occidente. È quello che è stato a volte definito il "periodo romantico" delle relazioni post-sovietiche tra Russia e Occidente finito? È la rinnovata dinamicità russa una nuova minaccia per la sicurezza occidentale? È in corso una ricostituzione, de facto se non de jure, della vecchia URSS? Quali sono le opzioni politiche per l'Occidente?
Le trasformazioni del post-1991, è stato detto, hanno messo la Russia in una situazione di equilibrio instabile "tra Impero e democrazia".xiii Secondo questa tesi, non è ancora chiaro se la Russia post-comunista diventerà uno stato veramente democratico (con conseguenti buone relazioni con l'Occidente) o continuerà a percorrere la strada imperiale della Russia zarista e dell'URSS (producendo così nuovi attriti e conflitti internazionali).
L'alternativa non è però così chiara e definita come la si vorrebbe porre. Esiste veramente un quid-pro-quo tra democrazia e impero? Probabilmente no. Molte democrazie sono state potenze imperiali. Non ci sono ovvi motivi per ritenere che la Russia, anche se completamente democraticizzata, non dovrebbe nutrire mire espansionistiche. Anzi, con il consolidamento della democrazia (e con il concomitante sviluppo dell'economia di mercato) l'influenza internazionale della Russia presumibilmente aumenterà. Ed infatti, mentre le riforme economiche sono ancora lungi dal produrre risorse economiche fresche da mettere a disposizione di un'ambiziosa politica estera, Mosca si sta già predisponendo a giocare un ruolo da grande potenza nello scacchiere internazionale. Questo si verifica particolarmente nei confronti dei NSI della CSI, ossia le ex-repubbliche sovietiche meno i tre stati baltici—a cui, almeno per il momento, la Russia sembra aver più o meno "rinunciato" (ma per quanto tempo?) dal punto di vista geopolitico. A marcare il significato particolare che Mosca attribuisce a questa regione, è divenuto di uso comune in Russia, anche a livello ufficiale, il termine "vicino estero", che già in sé lascia trasparire una prerogativa speciale, una sorta di implicito diritto di prelazione da parte di Mosca.
In realtà, si potrebbe argomentare che la vera alternativa per la Russia non è tra democrazia e impero, ma piuttosto tra l'integrazione internazionale (ivi compresa la cooperazione con l'Occidente) ed il nazionalismo, russo o pan-slavo che sia. Le due ultime variabili possono conciliarsi con ciascuna delle prime due. Semplificando, si potrebbe dire che, durante i suoi primi due anni di esperimenti con la democrazia, la politica estera russa ha zigzagato tra integrazione internazionale e nazionalismo. Nel 1992 la Russia esplicitamente elevò al massimo livello di priorità le relazioni con l'Occidente. Il Presidente Jeltsin ed il Ministro degli Esteri Kozyrev diressero questa fase con mano ferma, superando le resistenze interne. Nel 1993, tuttavia, si sono verificati alcuni cambiamenti importanti: la Russia, economicamente prostrata e politicamente frustrata, cominciava a cercare opportunità internazionali per ereditare, almeno in parte, la statura geopolitica dell'URSS.
Il problema per la dirigenza di Mosca era come fare ciò senza antagonizzare l'Occidente, ed in particolare gli Stati Uniti, nel momento che Mosca cercava di ridare vita, almeno sul piano retorico, alla cooperazione internazionale con i vecchi alleati della Seconda Guerra mondiale—più, ovviamente, la Germania. Ma la Russia si presentava su un piano di debolezza nei confronti delle forti democrazie occidentali. Il Parlamento e l'allora vice-presidente Rutskoj sfidavano apertamente questa impostazione di Yeltsin e Kozyrev, che interpretavano troppo accondiscendente verso l'Occidente, e chiedevano, riscontrando ampi consensi, di far sì che la Russia tornasse ad essere protagonista. Nel Gennaio 1993 Jeltsin faceva in buona parte propria questa impostazione; la Russia procedeva quindi a ridimensionare l'attenzione verso Occidente e a concentrarla verso i NSI, e particolarmente quelli con forte presenza etnica russa, adducendo per questo due motivi fondamentali: il primo era la forte presenza etnica russa in molte di quelle aree (oltre 25 milioni di Russi vivono oggi all'"estero" nella CSI). Il secondo motivo era che la Russia doveva aiutare i NSI a difendere i propri confini, che essi stessi non erano evidentemente in grado di proteggere da soli: e questo sia nell'interesse dei paesi interessati, sia della Russia stessa, che vedeve così allontaanata la propria frontiera di sicurezza fino ai confini ex-sovietici.
Come si inserisce questa concezione del "vicino estero" di Mosca nella visione generale russa della sicurezza europea? In una certa misura, è possibile che si stia verificando una risurrezione della vecchia idea sovietica della "sicurezza pan-europea", tramite la quale l'URSS voleva diluire l'efficacia della NATO e contemporaneamente marginalizzare il ruolo degli USA in Europa. Recenti affermazioni del ministro della Difesa russo Graciov fanno pensare che la nuova Russia, non potendo realisticamente pensare di far parte della NATO nel prevedibile futuro e neanche potendo impedire un possibile allargamento di questa verso altri PECO, voglia cercare di indebolirla invischiandola in una rete di corresponsabilità (se non addirittura, come era apparso verso la metà del 1994, di subordinazione) con la CSCE. Se questo tentativo avesse successo, il potere relativo della Russia in Europa ne risulterebbe naturalmente rafforzato.
È probabile però che questo tentativo sia destinato a fallire come quelli precedenti. Tuttavia, dal fatto stesso che sia avvenuto, si deduce che sarebbe ingenuo per l'Occidente pensare che la politica estera di una grande potenza come la Russia (ancorché indebolita e non più ostile come prima) possa essere sempre in sintonia con le percezioni di sicurezza dei paesi occidentali. L'Occidente per questo non può aspettarsi, e quindi non dovrebbe cercare di ottenere, l'accordo della Russia su ogni questione, o crisi, con implicazioni di sicurezza che si possa aprire in Europa. Cooperare con la Russia (il che è auspicabile ed in alcuni casi indispensabile) non vuol dire necessariamente essere d'accordo su tutto (il che non è realisticamente pensabile).
In questo senso, il problema per le democrazie occidentali all'indomani della Guerra Fredda è simile a quello cui si trovarono di fronte le potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale: come reintegrare una grande potenza sconfitta nel sistema internazionale. Il problema è semmai più grave nel 1994 che nel 1919, perché la Russia non è stata sconfitta militarmente. A Versailles i vincitori scelsero una goffa via di mezzo: essi umiliarono con arroganza la Germania sconfitta, l'accusarono ingiustamente di aver scatenato il conflitto, ma non la occuparono e non ne prevennero la rinascita economica e militare—che, date quelle premesse, sarebbe stata inevitabilmente ostile. Oggi l'Occidente vede con favore (anche se fa poco per favorire) il tentativo di rinascita economica russo, ma se questo avrà successo l'Occidente dovrà affrontarne le conseguenze politiche e militari.
Sarebbe illusorio pensare che una Russia economicamente solida sarebbe politicamente acquiescente. La Russia avrà le sue legittime ambizioni, e queste dovranno essere appropriatamente collocate nel panorama internazionale. Il pericolo è che, mutatis mutandis, la Russia post-comunista possa ripetere il precedente della Germania di Weimar: economicamente e politicamente riformata, ma isolata e ostracizzata all'estero.
Interessi fondamentali e strumentalizzazione politica
Il governo di Mosca giustifica formalmente il proprio crescente coinvolgimento nell'ex-URSS in base a quattro argomentazioni fondamentali, tutte definibili in termini negativi piuttosto che positivi. Mosca sostiene di dover intervenire allo scopo di prevenire:
i) abusi nel campo dei diritti umani;
ii) la proliferazione delle armi nucleari;
iii) il diffondersi del fondamentalismo islamico;
iv) una possibile conflagrazione dei conflitti regionali.xiv
Nel perseguire questi obiettivi, sostiene Mosca, la Russia sta rendendo un prezioso servizio alla comunità internazionale, e pertanto non solo non dovrebbe essere ostacolata, ma dovrebbe invece essere ricompensata sia in termini finanziari, sia con un'adeguata legittimazione internazionale del suo operato.
In realtà, la Russia ha manipolato, strumentalizzandoli, i conflitti locali tra i NSI (gettando alternativamente acqua o benzina sul fuoco, decidendo di volta in volta a secondo dei propri interessi) allo scopo fondamentale di espandere l'influenza russa. Come minimo, data la limitata capacità russa di agire mentre il paese attraversa gravi travagli interni, questo ha però voluto negare a potenziali competitori regionali—come la Turchia, l'Iran, il Pakistan e la Cina—di acquisire influenza a loro volta. I cosiddetti interventi russi di "peacekeeping" nella CSI sono stati uno strumento verso il conseguimento di questo fine.
Ma il "peacekeeping" russo è anche, in grande misura, importante per fini interni. Sia che riesca in qualche misura a raggiungere i quattro obiettivi ufficiali elencati sopra, sia che porti ad un'almeno parziale espansione dell'influenza politica russa, sia che non riesca alla fine ad ottenere nessuno dei due obiettivi, il solo fatto che la forze armate russe siano impegnate nel "peacekeeping" comporta il rafforzamento di un'identità professionale, di un senso di appartenenza, di una raison d'etre che i militari russi avevano perso dopo la crisi del 1991. Avendo la Russia pressoché completato il ritiro dall'Europa orientale e dai paesi baltici, e trovando i soldati al loro ritorno un'economia disastrata e poche possibilità di lavoro nel settore civile, e persino difficoltà a reperire un alloggio, il problema di cosa fare con le divisioni che si smobilitano probabilmente richiederà tempo prima di poter cominciare ad essere risolto in modo definitivo.
In questo senso, la politica russa verso il "vicino estero", piuttosto che di mantenimento della pace, potrebbe essere meglio definita di mantenimento dell'orgoglio dei militari russi (e, più in generale, del complesso militare industriale). In quest'ottica, se il tentativo avrà successo, il "peacekeeping" potrà divenire una preziosa fonte di stabilità interna in Russia, perché un "establishment" militare più stabile sarebbe un interlocutore più prevedibile e probabilmente costruttivo per l'Occidente.
Viceversa, se le forze armate russe dovessero, per così dire, andare alla deriva, aumenterebbe il pericolo che tra di esse possano sorgere raggruppamenti corporativi, magari con forti caratterizzazioni politiche di tipo nazionalistico, che potrebbero indebolire il potere centrale fino a rovesciarlo. Alcuni capi carismatici potrebbero cercare di ricostruire l'orgoglio perduto nell'unico modo in cui sarebbero capaci di farlo, e cioè tramite pressioni per una politica estera più aggressiva o comunque meno accondiscendente verso l'Occidente. Una ritrovata fiducia nella propria dignità, invece, darebbe ai militari una maggiore propensione nella conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'assetto geopolitico del dopo Guerra Fredda (e cioè un sostanziale controllo democratico da parte dei civili della politica interna, relazioni cooperative con l'Occidente ed il rispetto di un'area dei PECO effettivamente indipendente).
In questa luce, i militari sono di importanza fondamentale per la politica estera russa. Il morale è mediamente basso, le diserzioni crescono e i mezzi scarseggiano, ma nel frammentato panorama politico russo, essi rimangono comunque, nonostante i problemi che li affliggono, il gruppo politico più coerente. Ciò resta vero anche se sono stati indeboliti dai tagli al bilancio, dall'abolizione dei privilegi di cui godevano durante l'era sovietica, e pure se non necessariamente uniti su ogni singolo aspetto della politica estera. Ma le forze armate sono oggi più libere di ieri politicamente.
Durante l'era sovietica, essere erano subordinate al Partito Comunista, che ne nominava i vertici e le controllava tramite la capillare rete di commissari politici. Ora, invece, le forze armate hanno acquisito una connotazione politica indipendente. Questa caratterizzazione è apparsa chiaramente, per esempio, durante la rivolta dell'Ottobre 1993, quando gli alti comandi esitarono non poco prima di concedere il proprio appoggio al presidente Jeltsin. E quando tale appoggio infine accordarono, non fu per semplice obbedienza al potere costituito (e la cosa era resa ancora più confusa dal fatto che non fosse del tutto chiaro a nessuno chi tale potere impersonasse) ma per scelta politica.
Conseguentemente, i militari sono oggi tra i pochi che possono vantare un credito politico nei confronti del presidente Jeltsin. L'appoggio a quest'ultimo rimane quindi condizionato. Egli è visto, per ora (fine 1994), come la migliore garanzia di stabilità politica interna, e quindi di sicurezza, ma questa percezione potrebbe facilmente cambiare.xv Mentrerano e il presidente ed il ministro degli esteri che gestivano la politica estera russa nei primi due anni immediatamente successivi alla caduta dell'URSS, oggi i militari sono co-decisori a tutti gli effetti.
La situazione in Ucraina
Ai fini della nostra analisi, il parametro più rilevante da analizzare nella CSI, dopo la politica estera della Russia nell'area del "vicino estero" di cui si è detto sopra, è senza dubbio il futuro dell'Ucraina. Potrà, e come, questo paese rimarrà indipendente? Diverrà l'Ucraina internamente stabile o invece sarà travolta dalle divisioni etnico-politiche e dal tracollo economico? Come si svilupperanno i rapporti bilaterali con Mosca? La risposta a questo quesito è di fondamentale importanza per gli interessi della vicina Russia e quindi per il futuro della sicurezza dell'intero continente.
Affari Interni
Dopo tre anni di indipendenza, solo i primi timidi passi sono stati compiuti nella direzione di una vera riforma economica. Kiev ha appena firmato un accordo con il fondo monetario internazionale che dovrebbe aprire la strada al finanziamento internazionale per ulteriori sforzi in questa direzione. Sono in corso di redazione leggi e decreti per la liberalizzazione dei prezzi e la riduzione dei sussidi alle industrie in perdita. Il presidente Kuchma sembra essere più sensibile alla necessità di cambiamento ora di quando non era primo ministro, almeno sul piano retorico. Tuttavia, egli ha nominato ben pochi riformatori nel governo, ed il Parlamento resta fortemente influenzato dal rinato Partito Comunista, il più grande e meglio organizzato dei gruppi parlamentari.xvi
Lo stato dell'economia continua a peggiorare:xvii il Pil è diminuito del 26% nella prima metà del 1994; la produzione industriale del 36%; quella di beni di consumo del 40%. Meno si sa di quella agricola, ma i danni in quel settore sembrano essere minori (molta produzione viene consumata sul posto e non contabilizzata, e l'Ucraina non ha sofferto di carestia alimentare) anche se solo il 2% della terra è stata privatizzata e la produttività è minima. I salari reali sono calati del 31% rispetto ad un anno fa.
La politica monetaria ha avuto una salutare correzione in senso restrittivo negli ultimi mesi dell'amministrazione Kravchuk, ed è responsabile almeno in parte della contrazione economica. D'altro canto, la stretta creditizia ha reso possibile il calo dell'inflazione (che era giunta quasi a livelli iperinflazionistici) al 6% mensile. Il neo-presidente Kuchma avrà però difficoltà a continuare tale politica, tuttavia, sia perché ulteriori sacrifici che questa imporrebbe sulla già provata popolazione, sia perché ad essere colpita più duramente è la base di supporto più importante per Kuchma: l'industria pesante, ivi compreso il complesso militare-industriale, che secondo stime correnti da solo ammonta a circa il 30% di tutto il settore industriale del paese.
Sul piano meramente politico, restano importanti divisioni tra l'est del paese (più russo, o russificato), l'ovest (più nazionalista e pro-occidentale), e la Crimea (che è un caso a sé). Ma una certa recente attenuazione degli attriti tra le parti sembra aver fatto recedere, almeno per il momento, il pericolo di una definitiva spaccatura nel paese.
Sul piano militare, la nomina, per la prima volta, di un ministro della difesa civile, viene generalmente interpretata come una tappa miliare nella costruzione di rapporti veramente democratici tra civili e militari. Lo stesso dicasi per la ristrutturazione in corso in tutta la piramide gerarchica della difesa, che pone l'Ucraina più in linea con i criteri occidentali di controllo delle forze armate da parte del potere politico democraticamente eletto.
Relazioni con la Russia
Buone relazioni tra Ucraina e Russia sono una condizione indispensabile per la stabilità nella regione dell'Europa centro-orientale e dell'Europa tutta. Pertanto, ed anche per il fatto che attraverso l'Ucraina l'Europa occidentale riceve petrolio e gas dalla Russia, il miglioramento di queste relazioni è nell'interesse dell'Occidente.
Un trattato bilaterale di amicizia e cooperazione con la Russia è attualmente in fase di negoziazione, e viene descritto da entrambe le parti come quasi completato. I nazionalisti ostaggiano questo trattato, che vedono come uno strumento di influenza russa sul paese che ricorda troppo da vicino i vecchi trattati di amicizia e cooperazione che suggellavano i rapporti "fraterni" tra gli "alleati" del Patto di Varsavia. Il presidente Kuchma, invece, sostiene che il trattato implicherebbe un esplicito e definitivo riconoscimento dell'Ucraina come un interlocutore internazionale a pieno titolo da parte della Russia, e quindi rafforzerebbe l'indipendenza e la sovranità del paese.
L'attuale miglioramento delle relazioni, particolarmente per quanto concerne le questioni della Crimea e della flotta del Mar Nero, va salutato quindi con soddisfazione. La richiesta della Crimea (formalmente "regalata" per decisione di Khrushciov dalla Russia all'Ucraina nel 1954) di riunificazione con la Russia non è stata spinta con vigore nei mesi recenti, anche perché le varie fazioni crimee si sino più che altro combattute fra di loro.
Per quanto concerne la flotta, un accordo sembra alle porte. Probabilmente, ad una una divisione delle unità, seguirà un'affitto dell'Ucraina alla Russia delle proprie navi, in cambio del cancellamento (anche se forse non totale) del debito ucraino verso Mosca e di un qualche accordo per la continuata fornitura di idrocarburi. Queste navi, però, secondo l'accordo in fieri, proteggerebbero anche le acque ucraine. La Russia dovrebbe inoltre ottenere l'accesso al porto di Sevastopol, in Crimea. Si avrebbe quindi, in effetti, una flotta nuovamente unificata.
In conclusione, anche se restano tensioni latenti e questioni irrisolte, sembra che la crisi bilaterale del 1992-1993 sia in via di attenuazione. È probabile che i rapporti continueranno a migliorare, sia per motivi economici, sia per comuni interessi militari (mantenimento della flotta nel Mar Nero) sia per la profonda comunanza culturale tra i due popoli. Inoltre, l'Ucraina, anche se con riserve, sembra essere meno critica verso le operazioni di "peacekeeping" russe nella CSI.
Ciononostante, Kuchma cercherà di mantenere l'indipendenza del paese. Da parte sua, la Russia sembra essere meno interessata di quanto avrebbe potuto sembrare qualche mese fa nella reintegrazione formale dell'Ucraina nella "Grande Russia", che sarebbe fonte di costi più che di benefici. In altre parole, Mosca sembra essere più interessata a mantenere una forte leva negoziale nei confronti di Kiev, e non a costringerla in ginocchio per poi doverla aiutare a risollevarsi! Per la Russia sarà più vantaggioso accrescere la propria influenza sull'Ucraina debole ed indipendente che essere costretta a dedicare preziose risorse al salvataggio della sua economia.
Implicazioni per l'Occidente
Anche se per motivi di Realpolitik, e non per l'altruismo ufficiale che si vorrebbe far credere, la Russia ha effettivamente contribuito a prevenire, in varia misura, il degenerare dei quattro pericoli (proliferazione, conflagrazione, fondamentalismo islamico, e abusi dei diritti umani, probabilmente in quest'ordine d'importanza) cui si accennava sopra. La questione ancora aperta è se i paesi dell'Occidente debbano o no prendere posizione nei confronti della politica russa verso il "vicino estero", e, se sì, quale debba essere questa posizione.
Ma deve la posizione Occidentale (ammesso che, come sarebbe auspicabile, ce ne fosse una che raccogliesse un consenso tra i maggiori paesi dell'Alleanza atlantica) essere basata sulle intenzioni dichiarate del governo di Mosca, oppure sul suo operato nell'area in questione?
I nostri interessi strategici e capacità di risposta portano a concludere che ogni presa di posizione in questo campo si debba basare pragmaticamente, sulle modalità e le ripercussioni della politica russa. In altre parole, il ristabilimento di un alto grado di influenza russa nella regione non è positivo o negativo in sé; dipende dalle conseguenze che esso avrebbe per la stabilità in Russia e la sicurezza europea più in generale.
In ogni caso, sarebbe velleitario pretendere di impedire alla Russia di portare avanti una sua politica regionale che non può prescindere dai propri forti interessi di tipo politico, strategico, economico. L'Occidente non ha i mezzi, e ammesso che li avesse non avrebbe la volontà politica, per contrastare la Russia nelle regioni a lei contigue, soprattutto in Asia e nel Caucaso. Ma accettare questo limite non vuol dire lasciare a Mosca carta bianca e campo libero.
A differenza di quanto accadeva con il Patto di Varsavia, quando l'Occidente non aveva contatto alcuno con i paesi satelliti, e quindi non poteva influenzarne il comportamento internazionale, oggi il Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (NACC) la Partnership for Peace della NATO offrono strumenti per intervenire direttamente presso i NSI. Questo pone l'Occidente in grado di influenzare, anche se solo in parte, il ruolo della Russia verso di essi.
A proposito del quale è necessaria un' altra considerazione, di tipo più generale. Se la Russia vedesse accettato (se non proprio autorizzato o legittimato) il proprio "intervento di pace" nel "vicino estero", essa potrebbe cambiare il proprio atteggiamento verso il peacekeeping in generale. Da chiedersi qui è se un accordo politico sull'area CSI porterebbe Mosca ad essere più cooperativa in altre aree di maggiore interesse strategico per l'Occidente. Per esempio, Mosca ha, con riluttanza, accettato il peacekeeping (ed ha rifiutato il peacemaking) in Bosnia-Erzegovina. Questa riluttanza è dovuta anche al fatto che questi interventi potrebbero stabilire un precedente sulla base del quale i Caschi Blu potrebbero in linea di principio essere un giorno spediti a portare a termine missioni analoghe nel "vicino estero", interferendo così con l'influenza russa in quei paesi. Ma se la Russia vedesse in qualche modo assicurato un suo ruolo legittimo in quest'area geografica, essa potrebbe più facilmente riconciliarsi con "precedenti" che potrebbero crearsi come conseguenza dell'intervento internazionale (con coinvolgimento ONU, CSCE o NATO che sia) altrove.
Inoltre, in futuro, la Russia potrebbe anche accettare di cooperare in queste missioni con forze provenienti da paesi al di fuori della CSI. Questa evenienza, al momento apparentemente remota, potrebbe verificarsi se: a) le forze armate russe, anche con l'apporto (difficilmente più che nominale) di altre forze CSI, non riuscissero ad acquisire e mantenere il controllo delle zone interessate alle operazioni;xviii e b) come conseguenza di a), ci dovesse essere un pericolo di conflagrazione di conflitti periferici alla stessa Russia.
Anche se con riluttanza, Mosca potrebbe preferire perdere l'esclusività del controllo sulle regioni coinvolte ma proteggere l'integrità del paese. Forze ONU, in questo caso, (e se i paesi membri di quell'Organizzazione ne rendessero di disponibili in quantità e qualità sufficienti, il che non sarebbe facile!) potrebbero essere spiegate nel "vicino estero" accanto a forze CSI. Questo spiegamento congiunto CSI-ONU potrebbe non essere importante in sé e per sé, ma per il fatto che contribuirebbe a rendere la Russia più cooperativa in missioni analoghe altrove, come in Bosnia-Erzegovina, dove gli interessi dei paesi occidentali sono, e saranno, più direttamente coinvolti.
Questa linea di pensiero, naturalmente, dà per scontato un comportamento razionale da parte di Mosca: meglio coinvolgere l'ONU (e quindi l'Occidente) che perdere il controllo del "vicino estero" e con esso, magari, della periferia russa. Tale scelta, tuttavia, non deve naturalmente essere data per scontata. Essa potrebbe essere ostacolata, per esempio, dai militari russi, che potrebbero invece sfruttare le difficoltà militari per insistere ed ottenere una maggiore quota di risorse economiche nazionali per poter compiere ogni missione richiesta nel "vicino estero" senza quelle che essi definirebbero "interferenze internazionali" nella regione.
Note: vedi testo originale
30 November 1992
Sviluppi in Russia e Yugoslavia
Comunità degli Stati Indipendenti
Nel periodo in esame si è assistito alla frammentazione dell'URSS e alla costituzione da parte di undici delle ex-repubbliche (escluse le tre baltiche e la Georgia) della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). La creazione della CSI è stata sin dall'inizio parvasa da ambiguità istituzionali: la sovrapposizione di competenze (ovvero il vuoto delle medesime) tra istituzioni della Comunità e dei singoli stati ha fatto sì che nel corso del 1992 siano rimaste in una sorta di limbo numerose e vitali questioni di carattere politico, economico e militare.
Dovendo semplificare, si nota come i problemi principali nella divisione hanno toccato in primo luogo il territorio e le minoranze etniche. Prima fra tutte si ricorda la contesa sulla Crimea tra Ucraina e Russia, ma nel sottofondo si intravvedono problemi ancora più gravi tra Russia e Kazakhstan e tra Moldova e Ucraina. La guerra tra armeni e azeri ha continuato a piagare il Caucaso meridionale, mentre in Georgia settentrionale sono esplose violentemente—anche se rimangono circoscritte—le rivendicazioni degli osseti e degli abkhazi.
In secondo luogo, le ex-repubbliche sovietiche hanno negoziato la ripartizione delle forze armate ex-sovietiche. In questo ambito si sono raggiunti accordi (la cui implementazione però richiederà tempo) sulla riassegnazione delle forze nucleari strategiche alla Russia (quelle tattiche sono state tutte trasferite in territorio russo durante la prima metà dell'anno) e sulla suddivisione delle quote di forze convenzionali cui aveva diritto l'URSS in base al trattato CFE.
Infine, numerose trattative sono state avviate sulla suddivisione delle infrastrutture ex-sovietiche, dei beni mobili e immobili e del debito estero. Alla fine del 1992, con tutte queste trattative ancora in fase di risoluzione o di implementazione, i rapporti tra gli stati della CSI rimangono caratterizzati da incertezza diffusa, anche se si prende atto che nessuna disputa connessa alla disgregazione sovietica è risultata ancora in guerra aperta tra le repubbliche.
Per il 1993, le prospettive sono quindi contraddittorie. In alcuni settori, primo fra tutti quello militare, si prefigura una risoluzione del contenzioso sulla flotta del mar Nero ed una stabilizzazione del processo di ripartizione delle altre forze armate, che saranno comunque ridotte da tutti gli attori principali. Il problema più grave sarà invece quello di controllare l'esportazione del sovrappiù verso paesi terzi, che si sta già verificando e comporta seri problemi di proliferazione, specialmente in Medio oriente.
In altri settori il panorama è meno incoraggiante: si delinea chiaramente il fallimento della riforma economica in Russia, con gravi possibili conseguenze sociali. Il pericolo di un ritorno di fiamma autoritario, acceso da quella che sta diventando una bizzarra alleanza tra militari, burocrati ex-comunisti e nazionalisti di destra, potrebbe essere reso più grave dal disorientamento politico generale, dal crollo della popolarità di Eltsin, da contenziosi nazionalistici alla periferia della federazione e dalla mancanza di credibili alternative democratiche.
Relativamente stabilizzata la situazione nelle altre repubbliche europee, mentre verso est e verso sud si nota il ristabilimento, o meglio il mantenimento, di una forte influenza russa. In Asia centrale Mosca sta trovando una inaspettata intesa politica con la Turchia. In queste repubbliche, c'è un rafforzamento al potere degli apparati ex-sovietici, tutti contraddistinti, se pur in misura variabile, dall'inalberamento della bandiera nazionalista (o persino religiosa, si noti il battesimo del presidente goergiano Shevardnadze!) al posto di quella comunista.
Balcani
Contemporaneamente al disfacimento istituzionale dell'URSS, si ratifica nel gennaio 1992, con il riconoscimento europeo a Croazia e Slovenia, lo smembramento definitivo della Jugoslavia. Risolto il conflitto sloveno già nell'estate del 1991, quello croato si bloccava nel corso della prima metà del 1992 con un sostanziale stallo militare che vedeva le forze serbe occupare circa un terzo della Croazia e le forze del corpo di interposizione ONU (UNPROFOR) attestarsi in regioni contese della Croazia orientale e meridionale.
Il riconoscimento senza condizioni, contrariamente a quanto raccomandato dallo stesso rapporto comunitario "Badinter", apriva la strada ad una complessa problematica regionale legata al rafforzamento del principio del diritto allo stato nazionale, precedente pericoloso e foriero di un'inestricabile matassa di irredentismi intrecciati. Il riconoscimento, voluto fortemente da Bonn, e contemporaneo all'inizio in dicembre di una politica monetaria tedesca generalmente percepita come in contrasto con gli accordi di Maastricht appena firmati, è stato un segnale importante anche in ambito intra-occidentale: ha segnato la prima decisa riasserzione della politica estera nazionale della Germania unificata.
In primavera si assisteva all'espansione del conflitto alla Bosnia-Erzegovina, riconosciuta dall'occidente in Aprile, con gli slavi musulmani stretti fra un'equivoca alleanza tra serbi, croati e milizie irregolari autoctone filo-serbe. Gli orrori di questo conflitto, particolarmente cruento e senza apparente solubilità, hanno fatto crescere un senso di frustrazione e di impotenza in Occidente, in contrasto con la motivazione che aveva spinto all'intervento contro l'Iraq nel 1991. Al crescente consenso sulla necessità di fare qualcosa, si abbinava infatti la realizzazione che un impegno militare sarebbe stato ben più impegnativo e pericoloso di quello in Kuwait dell'anno precedente.
Prospettive
L'Occidente ha sempre identificato la stabilità con il mantenimento dello status-quo: invece, appariva chiaro almeno dalla fine del 1990 che lo status-quo gorbacioviano non era stabilizzante ma comprimeva (ritardandola, ma allo stesso tempo rendendola più potente) una epocale esplosione dello stato e del partito.
Gorbaciov ha svolto il suo ruolo storico nel dare il primo, decisivo scossone all' elefantiaco impero sovietico, ma non voleva (e comunque non avrebbe saputo) gestire la transizione verso la democrazia ed il mercato.
Parimenti, l'Occidente appoggia oggi Eltsin nella convinzione che la sua caduta sarebbe foriera di destabilizzazione; ma Eltsin, che ha svolto il suo ruolo storico nel cancellare il regime sovietico, rivoluzionario di indubbie doti carismatiche e trascinatore di popolo, non è uno statista in grado di governare una democrazia.
Il problema oggi per i democratici sovietici (che l'Occidente vorrebbe aiutare) non è mantenere al potere Eltsin ma trovare rapidamente un credibile successore.
Di fronte a queste difficoltà di Mosca, l'atteggiamento dell'Occidente è stato politicamente e soprattutto economicamente cauto. All'appoggio entusiasta verso l'ammorbidimento gorbacioviano del comunismo prima, e al colpo di grazia infertogli da Eltsin poi, non faceva infatti riscontro il massiccio impegno economico e finanziario che era stato richiesto dall'URSS prima e dalla Russia e dalla altre repubbliche poi. Gli aiuti economici sono stati esigui, e gli investimenti hanno stentato a decollare a causa dell'elevato rischio politico del paese.
01 May 1990
Situazione in Jugoslavia
23 June 1980
Driving back through Yugoslavia and on to Italy
The road is just OK and we proceed slowly toward Yugoslavia. No problem with this border. Two socialist countries, in theory ideological siblings. In practice, Yugoslavia has long been pursuing its own version of socialism, quite open to the West and relatively more relaxed at home.
Surprisingly, the roads in Yugoslavia are worse than in Hungary or Poland. At least the ones we drive on today. Once we reach Nova Gorica, the Yugoslav half of Gorizia, I pull into a service station to fill up Giallina. Gasoline is much cheaper here that in Italy. The man at the pump speaks Italian and says he only agrees to sell us fuel because he sees Giallina has a Roman plate. He refuses to sell to Italians from Trieste and Gorizia, who just cross the border to take advantage of subsidized fuel. Border inhabitants of both Italy and Yugoslavia can go shopping in each other's country fairly easily, and while Yugoslavs go to Italy to buy what they can't find at home, Italians hop beyond the border to buy cheap subsidized staples, fuel first of all.
We reach Mestre at about 9:00pm and get a couple of rooms at the "Garibaldi" hotel. Then out for pizza. Nice to be back in Italy, I enjoy hearing Italian and soaking the warm air, though everything now seems soooo expensive! A pizza here is more expensive than a gourmet fine dining experience in Warsaw!
04 May 1980
End of an era in Yugoslavia
Except for a longish lunch break at Borzena's. As usual, we are treated to a wide array of hard to find animal proteins, tasty bread and veggies though I try to be careful with the alcohol so as not to endanger the prosecution of my reviewing later in the afternoon.
We hear some news which is very relevant to our studies: Jozif Broz Tito, the long-time ruler of Communist Yugoslavia, has died today. Things will never be the same in Yugoslavia, and are likely to change between Yugoslavia and the rest of the Socialist camp, not necessarily for the better. I wonder whether the USSR, strong of its initial success in Afghanistan, might be tempted to reassert its control in neutral, but nominally Communist, Yugoslavia.