11 December 1990

Situazione in Polonia

Questa relazione si propone di fornire un quadro politico generale della situazione politica in Polonia alla luce della caduta del regime comunista nel 1989. Dopo una breve introduzione storica, darò una schematica descrizione del contesto interno ed estero del regime comunista all'interno del quale maturava la dinamica dei conflitti che avrebbe portato alla rivoluzione pacifica del 1989. Per una discussione più dettagliata delle politiche economiche si rimanda alla relazione sull'argomento presentata in questa stessa sessione. Concluderò con una trattazione delle possibili alternative per il futuro e delle implicazioni per l'Occidente. Questa relazione è stata presentata a Getecna oggi 11 novembre 1990.

Lo sfondo storico e culturale

L'elemento più importante nel retaggio storico polacco è probabilmente l'influenza pluri-secolare della Chiesa cattolica, che dall'undicesimo secolo occupa una posizione politica, oltre che culturale, senza rivali. Neanche il partito comunista, nei quarant'anni di dominio politico del paese, ha potuto ottenere una penetrazione nella società di livello paragonabile. Accanto al cattolicesimo, altro fattore storico della Polonia moderna è una certa tradizione di democrazia, anche se solo a livello embrionale, che si è sviluppata a partire dal tredicesimo secolo. In quel tempo, si formava il primo parlamento polacco, che peraltro, a differenza di quanto accadeva in Inghilterra, vedeva prevalere l'aristocrazia sulla borghesia. Il potere aristocratico impedisce la formazione di un regime parlamentare costituzionale ma anche il sorgere di una monarchia assoluta, ed infatti il re polacco veniva eletto dal parlamento in quella che per questo motivo, curiosamente, era chiamata la Repubblica di Polonia. Questa esperienza è oggi spesso richiamata alla memoria come la radice politica nazionale alla quale si vuole rifare la Polonia post-comunista.

L'impero polacco cresceva con vicissitudini alterne da quel periodo fino alla metà del seicento, ma diveniva poi sempre più inefficiente e si avviava al declino politico. In quei secoli, si sviluppava un'ostilità più o meno permanente contro la Russia, l'Ucraina e la Lituania a Est, ma anche con la Prussia e l'Austria ad Ovest ed a Sud. Il progressivo declino culminava, alla fine del settecento, con la scomparsa della Polonia come entità statale a seguito di tre successive partizioni a spese di Austria, Russia e Prussia.

In tutto questo periodo si sviluppava, forse più che in tutti gli altri paesi dell'Europa orientale, un forte legame culturale con l'Occidente del rinascimento e dell'umanesimo, particolarmente con la Francia ma anche con l'Italia. Anche grazie a ciò, l'integrità culturale del paese sopravvive al tentativo di russificazione nella parte orientale e di germanizzazione in quella orientale; il modus vivendi migliore i polacchi lo trovano con gli Austriaci, più tolleranti delle realtà indigene della loro fetta di Polonia.

La Polonia riesce a riguadagnare l'indipendenza approfittando della contemporanea sconfitta delle sue tre potenze occupanti nella Prima Guerra Mondiale. Il neonato stato polacco tenta addirittura una improbabile rivincita contro la neonata Unione Sovietica, approfittando della debolezza del nuovo regime di Mosca subito dopo la fine della Guerra, mentre imperversava ancora la guerra civile contro i Bianchi zaristi. Le forze armate polacche erano però sconfitte ed il paese rischiava quasi di essere riannesso all'URSS quando le armate sovietiche arrivavano fino a Varsavia.

Nel periodo tra le due guerre, la Polonia si trovava schiacciata ed impotente tra Unione Sovietica e Germania nazista, cercando invano garanzie di sicurezza dalle democrazie occidentali. Decidendo, al contrario della Cecoslovacchia, di combattere l'aggressione hitleriana, il governo di Varsavia porta Francia ed Inghilterra a dichiarare guerra alla Germania e fa così del paese la miccia della Seconda Guerra Mondiale.

Il paese nel "blocco sovietico"

La condizione politica della Polonia del dopoguerra è stata influenzata in modo determinante, così come quella degli altri paesi dell'Europa orientale, dal rapporto con l'Unione Sovietica. In quell'ambito, ha rivestito un'importanza politica cruciale il modo perverso in cui quei rapporti si erano sviluppati subito prima e durante la guerra. Perverso perché l'URSS staliniana non aveva mai voluto considerare la Polonia come un alleato, e persino i comunisti polacchi esiliati a Mosca, come del resto quelli di tanti altri paesi, cadevano sotto la scure delle purghe fratricide. 

Nel 1939 si stringeva quella che i polacchi hanno sempre considerato la vergogna del Patto Molotov-Ribbentrop, nonostante tutto, le armate polacche sopravvissute alla disfatta contro la Germania cercavano di riorganizzare le forze in URSS per poter proseguire la guerra, ma Stalin, convinto della non affidabilità di un corpo ufficiali nazionalista e certamente non comunista, procedeva alla loro sistematica eliminazione nelle foreste di Katyn, cercando poi di accollarne la responsabilità ai tedeschi. 

Altro episodio, non meno grave dal punto di vista polacco, fu il freddo cinismo con il quale l'Armata Rossa assistette all' annientamento della resistenza (non-comunista) di Varsavia da parte dei tedeschi alla fine del 1944. Per finire, i polacchi si sono anche visti imporre l'installazione forzata del governo provvisorio (comunista) di Lublino dopo la liberazione. Stalin approfittava dell'ambiguità contenuta nel testo dei Patti di Jalta per non indire libere elezioni ma porre il mondo davanti al fatto compiuto del regime comunista che si insediava al seguito dell'Armata Rossa. Non sorprende che il risultato di tutto ciò sia stato il rafforzamento dell'odio storico dei Polacchi contro i Russi, che sarà solo formalmente malcelato durante il regime comunista.

Dopo la presa del potere, il regime comunista procedeva alla statalizzazione dell'economia ed all'industrializzazione pesante forzata sul modello sovietico. Questo processo non è peraltro mai diventato completo. La collettivizzazione è stata particolarmente ridotta in agricoltura: mai più del 10% del terreno agricolo è stato di proprietà dello stato.

Questa tendenza subiva un brusco arresto nel 1956, quando nel corso del processo di destalinizzazione si diffondeva una rivolta popolare un po' in tutto il paese, e specialmente a Poznan. Questa veniva repressa dal regime, a differenza dell'Ungheria senza l'intervento sovietico, probabilmente perché considerata da Khrushchev una questione interna dei polacchi: nessuno aveva infatti messo in discussione il collocamento geopolitico del paese all'interno del Patto di Varsavia, come aveva invece fatto Nagy in Ungheria. Come in Ungheria, dopo i moti del 1956 saliva al potere un'élite comunista, guidata da Stanislaw Gomulka, che acquisiva una qualche rispettabilità in quanto poteva vantare un passato anti-staliniano.

Negli anni che seguivano, Gomulka poneva fine allo stalinismo ma non proponeva rimedi efficaci alle strozzature dell'economia pianificata, che deteriorava progressivamente. La crisi arrivava quando un aumento dei prezzi scatenava una protesta dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica nel 1970, brutalmente repressa dalla polizia con ingente spargimento di sangue. La dimostrazione di Danzica, anche se schiacciata, comunque costringeva Gomulka alle dimissioni. Gli subentrava Gierek, che negli anni settanta cercava la chiave della economica nell'apertura verso l'Occidente. Qui i comunisti polacchi ricercavano i capitali per ovviare alle manchevolezze del sistema pianificato senza doverlo cambiare. L'Occidente ricco di un forte eccesso di valuta si dimostrava incautamente prodigo, e forniva crediti senza porre condizioni.

Il risultato era un crescente indebitamento cui non corrispondeva un aumento della produttività, e quindi della capacità di esportazione. Gli investimenti si dimostravano inevitabilmente sterili perché non abbinati a riforme efficaci, mentre si lasciavano aumentare i consumi interni (che servivano a mantenere un minimo di supporto per il regime) anche quando si trattava di beni importati dall'Occidente a fronte di una bilancia commerciale sempre più passiva.

Il conseguente bisogno crescente di valuta portava ad una allentamento dei controlli, pionieristica nei paesi del socialismo reale, anche in materia valutaria. Ai Polacchi il regime concedeva di detenere liberamente valuta convertibile; di accedere ai negozi speciali di "esportazione interna" (PEWEX) dove si acquistavano beni di lusso, generalmente importati, solo per valuta; e persino di aprire conti correnti in valuta nelle banche dello stato, senza che a nessuno venga chiesto dove e come tale valuta fosse stata procurata. 

A parte le importanti rimesse ai parenti degli emigrati polacchi, specialmente dagli Stati Uniti, era conoscenza comune che questa valuta proveniva dall'enorme quantità di contrabbando che si era sviluppata in Polonia, frutto dell'esportazione clandestina di beni acquistati a prezzo politico per Zloty, e venduti poi a clienti occidentali per valuta. Spesso, questi beni non erano neanche di produzione polacca, ma venivano procacciati, quasi sempre illegalmente, in altri paesi dove potevano essere acquistati senza esborso di valuta pregiata. Era per esempio facile trovare nel mercato nero polacco caviale, pellicce, e persino oro di produzione sovietica.

Non a caso ho parlato di allentamento dei controlli, e non di liberalizzazione: si era infatti sviluppato non tanto un mercato valutario, quanto un'incontrollata anarchia, di cui era anche difficile stabilire le proporzioni. Inoltre, l'anarchia valutaria favoriva una fiorentissima economia sommersa, in cui aveva un ruolo importante il mercato nero dei beni sottratti dai dipendenti alle aziende collettive e di stato, o dai militari all'esercito. Ma l'indebitamento estero dello stato continuava a crescere, e diventava il più alto in Europa orientale. 

Alla fine del decennio Varsavia incontra difficoltà nel servizio di questo debito, per non parlare del ripagamento, anche perché nel frattempo si erano chiusi i rubinetti dell'Occidente, dove salivano i tassi di interesse. La situazione economica diventava sempre più politicamente insostenibile per il governo di Gierek.

La miccia per le trasformazioni degli anni ottanta era innescata ancora una volta dagli operai dei cantieri di Danzica. I loro scioperi nell'estate del 1980 erano ancora una volta causati dal progressivo deteriorarsi dello standard di vita, dopo le illusioni di benessere degli anni settanta. Il regime questa volta non reprime la manifestazione con la stessa brutalità di dieci anni prima, i sindacati ufficiali compromessi col partito non riuscivano a guadagnarsi un ruolo, e nei cantieri poteva nascere il sindacato libero di Solidarnosc. Dopo la sigla di precari accordi nell'Agosto, seguivano nuovi scioperi, e Gierek cadeva esattamente come Gomulka prima di lui. Seguiva un breve periodo di sbandamento del partito di cui approfitta Solidarnosc per consolidare la propria posizione non più solo sindacale ma anche sempre più chiaramente politica, con oltre dieci milioni di membri che aderivano in pochi mesi, più di quanti non ne avesse mai avuti il partito in trentacinque anni al potere. 

Questo successo portava ad una rapida politicizzazione di Solidarnosc, che da sindacato si trasformava in movimento politico e minacciava letteralmente di travolgere l'ordine socialista. Dopo che vari segnali facevano pensare ad un imminente intervento militare sovietico, nel Dicembre del 1981 il nuovo segretario generale del partito, generale Woiciech Jaruzelski, dichiarava lo Stato di Guerra, sospendeva Solidarnosc e fermava brutalmente il processo di democratizzazione in corso.

In questo periodo, cresceva esponenzialmente il ruolo della Chiesa nella politica della Polonia, anche grazie al fatto che a Roma sedeva dal 1978 un papa polacco. La Chiesa cattolica era sempre stata l'unico polo politico d'opposizione tollerato dal regime, e per questo suo ruolo paradossalmente privilegiato attirava molti più consensi di quanti non fossero i veri credenti. D'altra parte, il clero era stato in passato costretto a moderare il proprio intervento politico per sopravvivere allo stalinismo. 

Quando fu imposto lo Stato di Guerra, il Primate Glemp invitava i Polacchi ad ottemperare alle disposizioni governative, allo scopo di evitare la guerra civile. Negli anni che seguivano, la Chiesa diveniva sempre più attiva come punto di riferimento dell'opposizione, e forniva un indubbio sostegno a Solidarnosc, anche se la cooperazione tra le due strutture era a volte molto difficile, perché Solidarnosc funzionava in base a principi democratici mentre la Chiesa rimaneva una struttura rigidamente gerarchica ed autoritaria.

In un'intervista con La Repubblica nel 1990 egli indica la sua graduale conversione al liberalismo nel corso degli anni ottanta, parallelamente al graduale fallimento di tutte le misure di compromesso sistemico. Al momento della salita al potere di Gorbaciov, alla metà degli anni ottanta, la Polonia è già, con l'Ungheria, il paese del blocco più avanzato sul terreno delle riforme economiche e delle libertà interne, compresa una libertà di viaggiare e di emigrazione limitata solamente dalla mancanza di valuta e dai limiti imposti dai paesi occidentali alla concessione di visti d'ingresso.

Ma crisi terminale del sistema è solo rimandata: comincia nella primavera del 1988, quando una nuova ondata di scioperi viene indetta per reclamare aumenti salariali di fronte all'inflazione galoppante. Negoziati prolungati portano all'accettazione da parte del governo di una "Tavola Rotonda" con Solidarnosc nel Gennaio 1989. 

Le discussioni cominciavano in Febbraio e duravano circa un mese, e culminavano con l'accordo ad indire elezioni che, anche se solo parzialmente libere, avrebbero portato alla creazione del primo governo a guida non comunista nell'Europa orientale del dopoguerra.

Recenti sviluppi politici

Politica Interna

Il problema di Jaruzelski, all'inizio del 1989, era come assicurare la transizione verso un'inevitabile maggiore rappresentatività nel sistema politico, senza provocare una guerra civile o un intervento sovietico, che a quel tempo non poteva ancora essere categoricamente escluso. A Mosca si cominciava a parlare di abbandono della "Dottrina Brezhnev" della sovranità limitata, ma delle decisioni definitive, se erano già state prese, non si era ancora presa piena coscienza all'estero.

A seguito degli accordi della "Tavola Rotonda", si aveva la piena ri-legalizzazione di Solidarnosc, cui si accompagnava un'amnistia politica incondizionata. Le prime elezioni semi-libere seguivano nella tarda primavera del 1989. In queste, il Partito Operaio Unificato Polacco (POUP) si era preventivamente assicurato il controllo del 65% della camera bassa (con più poteri legislativi) del Sejm (Parlamento). In una schiacciante dimostrazione di forza politica, i candidati appoggiati da Solidarnosc ottenevano il rimanente 35% e 99 dei 100 seggi disponibili nella camera alta (Senato) che non prevedeva quote pre-assegnate al POUP, ed il restante seggio andava ad un candidato indipendente (vedi tabella). Persino tra i candidati del POUP che erano in corsa senza opposizione la sconfitta era palese: solo il 2% otteneva il necessario 50% dei voti al primo scrutinio. 

Tutto ciò produceva un'umiliazione che equivaleva ad un colpo di grazia per il partito. Piuttosto bassa l'affluenza alle urne, forse testimonianza di un'apatia politica, o di timori reconditi, che neanche l'evidenza della fine del comunismo riuscivano ad eradicare: 62% dell'elettorato votava nel primo turno e poco più del 25% nel secondo, mentre il 42% prendeva parte alle elezioni amministrative del maggio 1990 che più o meno hanno confermato i risultati del 1989, compreso il fiasco per i due partiti "socialdemocratici". Alla prossima prova Solidarnosc probabilmente non sarà più più unita e gli ex-comunisti potrebbero anche scomparire completamente dalla scena parlamentare.

Dopo le elezioni parlamentari, ed a seguito di una febbrile trattativa, Jaruzelski veniva eletto presidente nel Luglio 1989 per sei anni (vedremo però che si dimetterà nel 1990) dopo essersi dimesso da segretario del POUP per diventare il presidente di tutti i polacchi. Jaruzelski si presenta oggi, al momento della sua definitiva uscita dalla scena politica, come un patriota che ha salvato la Polonia dalla guerra civile e dall'invasione straniera. Indubbiamente, il Cremlino di Brezhnev non avrebbe tollerato il pluralismo che di fatto Solidarnosc rappresentava nel 1981, e non lo avrebbero tollerato neanche Andropov o Chernenko. Ma è anche indubbio che tale pluralismo non era neanche in cima alla lista delle priorità di Jaruzelski.

Nell'estate si assisteva all'ultimo goffo tentativo del Partito di proporre un Primo Ministro nella persona del Generale Kiszczak, figura impopolare che aveva avuto un ruolo visibile nella repressione del post-1981. Solidarnosc rifiutava di entrare in un governo di coalizione a guida comunista, evidentemente per evitare di divenire corresponsabile degli inevitabili sacrifici e degli eventuali fallimenti senza essere realmente in grado di decidere la politica estera ed economica da adottare. Ma senza Solidarnosc, pur con la maggioranza assoluta artificiosamente assicurata, il POUP non poteva formare un governo che avesse un minimo di probabilità di affrontare i problemi del paese.

Sul finire dell'estate, quindi, il Presidente Jaruzelski è costretto a dare l'incarico per formare il nuovo governo a Tadeusz Mazowiecki, un intellettuale cattolico appoggiato da Solidarnosc. Figura molto vicina alla gerarchia della Chiesa, Mazowiecki era stato internato nel Dicembre 1981. In breve si poteva avere cosí un governo rappresentativo, il primo a guida non-comunista dell'Europa orientale post-bellica, nel quale venivano offerto al POUP il dicastero della difesa, forse più che altro per non dover mandare esponenti dichiaratamente anti-comunisti alle riunioni del Patto di Varsavia. Significativamente, il primo viaggio all'estero di Mazowiecki non era a Mosca, come da rito formale precedente, ma a Roma, per consultazioni tutt'altro che formali con il Papa polacco.

Nel Gennaio 1990 il POUP si trasforma nel Partito Social Democratico nel disperato tentativo di riacquistare un po' di credibilità e di presentabilità politica dissociandosi dal proprio passato. Ma anche questo gesto disperato ed un po' patetico fallisce miseramente e probabilmente senza appello, cosí come accaduto agli ex-comunisti ungheresi, tedeschi orientali e, pochi mesi dopo cecoslovacchi.

Alla departitizzazione del governo corrispondeva l'inizio di una capillare opera di depoliticizzazione dell'esercito e della polizia. Prima tutti gli ufficiali erano membri del partito; adesso, al contrario, non solo tale appartenenza è equivalente ad un marchio d'infamia, ma vi sono forti pressioni per vietare l'appartenenza degli ufficiali a qualunque partito. Lo stesso vale per la polizia di stato. La polizia politica, i famigerati Zomo che in Occidente siamo stati abituati a vedere per anni con il manganello in mano nei filmati sulle dimostrazioni anticomuniste, è stata sciolta; tuttavia, la struttura dei vecchi servizi segreti (Sluzba Bezpieczenstwa, o SB), o almeno frammenti di essa, rimane potente e capace di azioni intimidatorie al di là del controllo del capo del governo (ma forse con la connivenza del Ministro degli Interni comunista).1

La liberalizzazione politica interna in Polonia è oggi pressoché totale, cosí come non si registrano più violazioni dei diritti umani. Logica conseguenza di tutto ciò l'ammissione come osservatore al Consiglio d'Europa nel novembre 1990, a Roma. É certa l'ammissione a pieno titolo nel prossimo futuro, probabilmente non appena si saranno celebrate le prossime elezioni, completamente libere, per il Sejm.

Politica Estera

Si è detto come il rapporto con l'URSS avesse costituito il fulcro delle relazioni esterne della Polonia del dopoguerra. Come per tutti gli altri paesi della regione, con Gorbaciov si è avuta una graduale svolta in questi rapporti, che si sono indirizzati verso un canale sempre più paritetico e pragmatico. Naturalmente, questa svolta è stata condizione necessaria, se pur non sufficiente, alla svolta interna descritta sopra.

Un primo aspetto fondamentale del cambiamento nelle relazioni polacco-sovietiche, che lo ha contraddistinto da quello avvenuto in altri paesi ex-satelliti, è stato costituito dal succedersi di chiarimenti degli "spazi vuoti" della storia delle relazioni tra i due paesi. Come sempre nei paesi socialisti, la revisione storiografica è stata carica di significati politici. Si è trattato più che altro di una serie di successive ammissioni da parte sovietica di fatti già da tempo ben noti in occidente, ed anche in Polonia, ma non ancora disseppelliti dagli archivi staliniani a Mosca. In primo luogo si è parlato dell'uccisione dei capi del partito comunista polacco a Mosca negli anni trenta perché giudicati troppo nazionalisti da Stalin. Ha fatto seguito l'ammissione dell'acquiescenza sovietica nell'aggressione hitleriana del 1939 tramite il Patto Ribbentrop-Molotov. Quindi c'è stato, ma solo nel 1989, il sospiratissimo chiarimento della responsabilità sovietica nel massacro di Katyn del 1941.

Nonostante l'inevitabile astio provocato da queste rivelazioni, e forse in parte proprio grazie ad esse, continuano però in Polonia, più di quanto non avvenga in altri paesi dell'ex-blocco, gli interessi in comune con Mosca. In primo luogo, sia Mosca che Varsavia hanno condiviso un rapporto contraddittorio verso la Germania federale. Al timore del revanscismo tedesco per quanto concerneva i territori persi dalla Germania a favore di Polonia ed Unione Sovietica dopo la guerra si contrapponeva il desiderio di attingere ai proficui scambi economici (ed aiuti tecnologici e finanziari) che solo Bonn poteva offrire. Anche dopo la firma dell'Atto Finale di Helsinki nel 1975, nel quale l'allora Germania Occidentale si impegnava a non cercare di modificare i confini del momento con la forza, la questione rimaneva aperta. La Polonia perciò ha insistito nel 1990 per partecipare ai negoziati "Due più Quattro", tra le due Germanie e le quattro potenze vincitrici, che hanno stabilito i modi ed i tempi della riunificazione, per quello che concerneva la questione dei confini.

Solo nel novembre del 1990 il problema è stato risolto in modo prevedibilmente definitivo con l'unificazione tedesca e la conseguente firma di trattati con Polonia ed Unione Sovietica a questo riguardo che sanciscono la definitività dei confini tra i paesi interessati, e primo fra tutti quello dell'Oder-Neisse tra Polonia e Germania. É stato questo il motivo per cui, a differenza di Ungheria e Cecoslovacchia, i Polacchi non hanno richiesto la partenza delle truppe sovietiche dal proprio territorio e l'uscita dal Patto di Varsavia, anche se è probabile che ciò avverrà presto alla luce della definitiva risoluzione della questione dei confini.

Nei prossimi anni, la stabilizzazione delle relazioni con la Germania sarà di importanza cruciale per lo sviluppo economico del paese e per il suo aggancio politico all'Europa occidentale ed economico agli Stati Uniti, che anche in virtù della grande colonia polacca sono stati indicati dal governo come una priorità per il futuro prossimo; essa dovrà procedere parallelamente allo sviluppo di nuove relazioni anche con l'URSS. Il generale consenso che esiste tra tutte le principali forze politiche a questo riguardo fa pensare che questa difficile opera di bilanciamento sia alla portata di Mazowiecki e dei suoi successori.

Altra questione è quella della minoranza polacca in Lituania, che è oggetto di discriminazioni cosí come quella russa. Lamentele a questo riguardo sono state fatte proprie dal nuovo governo, che non è inibito, come lo poteva essere il precedente, dal considerare la politica di Vilnius come un affare interno sovietico. Si deve ricordare che la capitale lituana Vilnius (Wilno in polacco) è lituana solo dal 1939, a seguito della spartizione della Polonia conseguente agli accordi Molotov-Ribbentrop. L'università della città era stata fondata dai polacchi, e nonostante ciò non c'è oggi una cattedra di lingua polacca; Varsavia non è stata autorizzata (nonostante l'assenso di Mosca) ad aprire un consolato nella città ed è persino vietato celebrare la Messa in polacco nella cattedrale di San Stanislao.2 Esiste quindi una comunanza di interessi tra Russi e Polacchi che potrebbe essere rinvigorita da una eventuale indipendenza lituana, che potrebbe indebolire la posizione delle minoranze russa e polacca, che peraltro sono numericamente le più piccole dei paesi baltici (oltre l'80% degli abitanti della Lituania è lituano).

Nell'immediato periodo dopo la liberalizzazione, nella politica estera polacca sussiste un forte pericolo di rigurgiti nazionalistici, principalmente anti-russo e anti-tedesco, ma anche diretto contro le minoranze bielorusse ucraine e lituane. A queste si aggiungono preoccupanti risvolti anti-semitici anche a causa dell'olocausto e dell'emigrazione dopo l'ondata anti-semitica fomentata in seno al POUP nel 1968 ci sono pochissimi ebrei in Polonia (la recente polemica con la Chiesa cattolica sul convento delle Carmelitane ad Auschwitz era sostenuta da ebrei stranieri). La recente campagna presidenziale ha messo in evidenza con graffiti e slogan diretti contro ebrei e minoranze etniche.

Tutti questi aspetti del nazionalismo polacco, a lungo repressi, si sono, alla fine del 1990, almeno temporaneamente assopiti. Ma, seppure in forma diversa, potrebbero risorgere; per esempio, c'è astio in Polonia per il trattamento non sempre signorile riservato agli emigranti polacchi in Germania, ricambiato dall'astio tedesco per un'ondata di stranieri, spesso entrati illegalmente, in un momento in cui la nuova Germania deve pensare a sistemare civilmente 17 milioni di stranieri in patria. Parimenti, la questione dei polacchi in Lituania è stata convenientemente messa da parte nel momento in cui Varsavia era concentrata ad ottenere il definitivo riconoscimento dell'Oder-Neisse, ma potrebbe cambiare se Vilnius dovesse far ricorso alla mobilitazione di energie nazionalistiche per ottenere l'indipendenza.

Nonostante il nazionalismo, si riscontra in Polonia una maggiore sensibilità per il potenziale di una continuata collaborazione con gli altri paesi neo-democratici della regione e particolarmente con la Cecoslovacchia e l'Ungheria. Finora questo atteggiamento non è stato però corrisposto, in quanto tutti gli altri paesi dell'ex-comunità socialista sono preoccupati quasi esclusivamente di rescindere i legami con Mosca ed allacciarli con l'Occidente.

Politica economica

Per una trattazione più dettagliata delle riforme economiche in Polonia si rimanda alla relazione a questo preposta in questo stesso convegno. Ci si limita qui ad alcune considerazioni di particolare valenza anche politica. La situazione economica al momento del cambio di governo nel 1989 poteva essere senza esagerazione definita come disperata. L'inflazione nel 1989 era di oltre il 700%, il PIL era in crescita negativa, il debito estero, di cui non si poteva più neanche pagare gli interessi, era salito ad oltre 43 miliardi di dollari, di gran lunga il più grande in Europa orientale (anche se, pro capite, inferiore a quello dell'Ungheria). Non c'era praticamente stata alcuna forma di competizione tra i produttori nazionali, quindi nessun incentivo ad innovare e la cosa era degenerata ancora da quando la crisi economica aveva quasi obbligato ad eliminare le importazioni dall'Occidente.

Riforme economiche

Più decisamente che in tutti gli altri paesi est-europei in via di democratizzazione, in Polonia è stata adottata all'inizio del 1990 una terapia d'urto, concordata con alcuni autorevoli economisti stranieri, che ha cominciato ad essere messa in pratica nonostante l'impopolarità di alcuni suoi aspetti essenziali. Un ulteriore problema per Mazowiecki è stato che non ci sono stati precedenti storici su cui basarsi, per cui si può asserire che il suo governo sta coraggiosamente affrontando acque pericolose senza carta nautica. Alla drastica svalutazione della moneta è corrisposta la liberalizzazione dei cambi (passo importante verso la convertibilità) che ha spinto lo Zloty in basso fino a fargli raggiungere il valore reale d'acquisto, per cui è scomparso quasi di colpo il fiorente mercato nero della valuta, soppiantato da uffici di cambio autorizzati in tutte le città; oggi c'è praticamente in Polonia una convertibilità piena.

Tutto ciò ha prodotto un notevole salto di "inflazione correttiva" all'inizio del 1990, ma questo è stato un fenomeno una tantum, poi il livello dei prezzi si è assestato, anche grazie a un'indicizzazione dei salari molto ridotta (generalmente dal 20 al 30% dell'inflazione, con penalità fiscali per le aziende che li aumentassero di più). L'aumento prezzi è stato peraltro compensato dalla maggiore disponibilità di beni di consumo e da file più corte; per questo tipo di vantaggi è difficile avere una misurazione esatta della caduta del potere d'acquisto cosí come è tradizionalmente definito, ma a chi conosce quanto pesasse sulla vita dei Polacchi non il costo dei beni quanto la fatica di trovarli il salto qualitativo appare notevole.

Contemporaneamente, si è avuta sia l'eliminazione di quasi tutte le sovvenzioni statali alle aziende in perdita, sia l'apertura al commercio estero, entrambe le misure allo scopo di stimolare la concorrenza e quindi premiare la produttività delle imprese migliori. Infine, si è avuta l'apertura della Borsa di Varsavia nel novembre 1990, la seconda in Europa orientale dopo quella di Budapest che si era aperta in Agosto, ancora con strutture rozze, solo qualche PC per organizzare il lavoro di un piccolo, ma il seme è stato gettato su terreno fertile.

Più del 90% dell'industria polacca era stata statalizzata dai comunisti, e Mazowiecki, nel privatizzare, deve ora cercare la classica quadratura del cerchio. Il governo si oppone alla proprietà dei lavoratori per motivi di efficienza, anche alla luce del cattivo esempio della Jugoslavia. Si è offerto invece un compromesso in alcune industrie dove è stata offerta agli operai una partecipazione minoritaria. 

Per le stesse industrie i passi da compiere sono di portata enorme: l'efficienza degli input era pessima, particolarmente per quanto concerne l'energia, causa questa non solo di bolletta energetica gravosissima (soprattutto dopo la cessazione delle vendite a prezzo agevolato da parte dell'URSS) ma anche di inquinamento. Il settore servizi era sottosviluppato, occupando solo il 35% della forza lavoro e solo ora si cerca di renderlo adeguato ad una moderna economia post-industriale quale la Polonia aspira a diventare.

La filosofia che sottende tutto ciò è che non si può superare un precipizio in due salti, bisogna farlo in un salto solo. Si sapeva che i disagi immediati sarebbero stati notevoli, nella forma di inflazione e di disoccupazione, ma all'inizio sono stati accettati dalla popolazione in quanto proposti da un Primo Ministro appoggiato da Solidarnosc, poi è cominciato il malcontento. Il governo Mazowiecki è stato finora in grado di far sopportare sacrifici facendosi forte dell'entusiasmo politico suscitato dalla rivoluzione, senza il quale difficilmente i Polacchi sarebbero stati cosí accondiscendenti. Ma presto il carattere populista dell'organizzazione è emerso, e si è concretizzato nella sfida vincente di Walesa per la presidenza.

Rapporti economici con l'estero

Si è detto della liberalizzazione dei commerci; grazie ad essa, beni di consumo esteri sono oggi largamente disponibili sul mercato, sebbene a prezzi molto elevati. Questo sta creando le condizioni per un maggiore intervento delle imprese occidentali sulla piazza polacca, oggi finalmente diventato potenziale mercato pagante in valuta.

Alla liberalizzazione commerciale si è accompagnata quella degli investimenti, con l'apertura a capitali stranieri, cui sono state vendute persino colossali imprese statali di importanza strategica, quali i cantieri navali di Danzica. Politicamente, questo tipo di iniziative

Grazie alla buona volontà dimostrata dalla Polonia, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno attestato l'incapacità della Polonia di pagare, e tutti i prestiti commerciali in scadenza fino alla primavera del 1991 sono stati rifinanziati.

Politica Militare

Per quarant'anni la Polonia era stata sostanzialmente una via di transito per il mantenimento della roccaforte sovietica sui confini della NATO in Germania Est. Ci sono sempre state poche truppe sovietiche stazionate permanentemente in Polonia, circa due divisioni negli anni ottanta, nulla se paragonate alle venti nella piccola RDT. Ma questa cifra nasconde l'importanza strategica della Polonia per le comunicazioni con il potenziale fronte. Dopo il 1980, quando l'affidabilità di Varsavia vacillava sotto l'incalzare di Solidarnosc, i sovietici avevano anche predisposto comunicazioni militari dirette via mare tra l'URSS e la Germania.

Oggi il Patto di Varsavia è in fase di scioglimento, almeno nella forma che siamo stati abituati a riconoscere per quarant'anni. Nella regione c'è indubbio sostegno per l'idea che il Patto e la NATO debbano essere sostituiti da una nuova organizzazione di sicurezza pan-europea, che dovrebbe scaturire presumibilmente dal processo di Helsinki II avviato dal Summit di Parigi del novembre 1990. 

In ogni caso, la Polonia, insieme all'Ungheria, già dalla fine del 1989 aveva iniziato a stabilire contatti diretti con la NATO in materia di controllo degli armamenti, non nascondendo l'interesse ad una più stretta collaborazione bilaterale con questa organizzazione quando le condizioni politiche generali del continente lo renderanno opportuno. Nel breve termine, la Polonia ha proposto di riformare il Patto a cominciare dalla struttura di comando, assegnando più poteri ai comandanti dell'alleanza in quanto tali, eliminando l'attuale subordinazione alla gerarchia militare sovietica.

Sul piano interno, l'ultimo governo comunista aveva già iniziato alcune riduzioni e riorganizzazioni nel 1989, che continuano oggi. Non è stato ridotto il livello nominale delle divisioni, ma è stato ulteriormente ridotto il loro già relativamente basso livello di mobilitazione in tempo di pace. Infine, autorevoli esponenti militari hanno scritto sulla desiderabilità di una ristrutturazione che prescinda dalle unità pesanti predisposte per lo scenario passato di conflitto con la NATO a favore di unità più agili, armate più leggermente e logisticamente autosufficienti.3 

Tutto questo si è tradotto in una riduzione di circa 100.000 unità negli effettivi delle forze armate. Riduzioni consistenti anche nei mezzi corazzati e nell'artiglieria, con centinaia di pezzi obsoleti distrutti, e nell'aviazione. Modernizzazioni invece in marina, con l'acquisizione di nuovi mezzi da sbarco, e nelle forze aeree, con l'entrata in servizio dei primi MiG-29.

La spesa militare è stata tagliata di circa la metà, in termini reali, nel 1989 rispetto all'anno precedente. É poi rimasta stabile nel 1990, anche se è difficile fare paragoni con il passato in quanto l'elevato livello e l'aleatorietà dell'inflazione non consentono di valutare con precisione il variare effettivo dell'onere della spesa militare sull'economia.

Prospettive

La democratizzazione politica in Polonia, anche se ancora da perfezionare, è ormai un fatto acquisito e non reversibile a meno di sconvolgimenti cataclismatici non solo nel paese, ma nel continente europeo nel suo insieme. L'unica minaccia residua è quella di una ricaduta autoritaria in caso di prolungata crisi economica e tentazioni di escamotage nazionalistico. Anche se improbabile, questa eventualità non è impossibile.

La riforma economica procede coerentemente ed a ritmo forzato, più che altrove nella regione e invero come da manuale di economia. Walesa sarà però probabilmente costretto ad abbandonare l'attuale populismo, diventare più pragmatico ed usare tutto il suo carisma per far accettare i necessari sacrifici ai polacchi. Nonostante ciò, c'è da temere che, alla luce dei problemi ancora all'orizzonte, forse il carisma di Walesa non basterà. C'è da augurarsi che egli continui a seguire la strada imboccata da Mazowiecki. 

Se lo farà, due sono le alternative più probabili: o i Polacchi lo seguiranno, o ci potrebbe essere una nuova crisi politica ed istituzionale, in quanto non ci sono altri che possano riuscire più di lui a spendere capitale politico per il successo della transizione all'economia di mercato. D'altro canto, ci sarà un serio pericolo per il processo di riforma nel suo insieme se egli cercherà di correggere l'attuale recessione artificialmente per attenuarne l'impatto sociale, creando cosí pressioni inflazionistiche e minando il successo dell'operazione di riconversione nel suo insieme.

La credibilità del governo, e quindi la sua capacità di fare accettare sacrifici, potrebbe essere messa in dubbio se non ci saranno miglioramenti tangibili nel corso del 1991. La sconfitta di Mazowiecki alle elezioni presidenziali dimostra come i Polacchi abbiano una scorta di pazienza molto ridotta, nonostante il Primo Ministro stesse operando una rapida ed esemplare transizione all'economia di mercato, che tutti vogliono e per fare la quale era stato eletto. Il comportamento elettorale non è stato forse molto razionale, ma ciò non sorprende dopo quattro decenni di promesse non mantenute, e questo atteggiamento non cambierà solo perché è cambiato il regime.

Conclusioni ed implicazioni per l'Occidente

La riforma politica in Polonia è praticamente ultimata, e le prossime elezioni libere saranno l'ultimo tassello per completare il quadro democratico del paese. Il paese è avviato sulla strada di una rapida e coerente riforma economica verso il mercato. Ma i tempi necessari a ciò non sono ben determinati ed il successo non è assicurato.

Gli aiuti finanziari occidentali di cui la Polonia fa pressante richiesta possono fare molto in quanto, più che negli altri paesi della regione, le condizioni per un loro utilizzo efficace sono state in buona parte create. Gli aiuti economici dall'Occidente sono però ancora pochi. Le banche private non sono disposte a rischiare a causa della precarietà del corso economico e della situazione finanziaria del paese, e qui può essere utile l'intervento politico dei governi.

É inoltre nell'interesse dell'Occidente incoraggiare la cooperazione intra-regionale in Europa orientale per meglio utilizzare le potenziali complementarità della regione est europea con l'Occidente. In questo campo, la Polonia si è dimostrata più sensibile di altri paesi limitrofi, ma è comunque opportuno continuare a far pressione in questo senso. In particolare, bisogna far capire che il risorgere del nazionalismo, a cui potrebbero essere tentati di far ricorso futuri governi polacchi in difficoltà economiche, non gioverebbe né alla causa della democrazia, né a quella della pace in Europa, cui noi Occidentali teniamo aprioristicamente.

L'accettazione nel Consiglio d'Europa sarà un riconoscimento importante del successo del movimento democratico polacco nello scorso decennio, ma proprio per questo non deve essere formalizzata fino a che non saranno indette elezioni veramente libere; d'altro canto non deve neanche essere ritardata oltre tale scadenza. Più avanti nel tempo, e comunque dopo il 1993, l'associazione alla Comunità sarà un passo obbligato, se le attuali tendenze dovessero confermarsi, verso l'adesione piena, probabilmente verso la fine del decennio.

BIBLIOGRAFIA

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Cespi: La Polonia dalla Tavola Rotonda al Governo Mazowiecki, Note & Ricerche, Roma, febbraio 1990.

Gati, Charles: "East-Central Europe: The Morning After", in Foreign Affairs, Vol. 69, No.5, Winter 1990/1991.

Geremek, Bronislaw: "Post-Communism and Democracy in Poland", in The Washington Quarterly, Vol. 13, No.3, Summer 1990.

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International Institute for Strategic Studies: Strategic Survey, 1989-1990, annuario sulla situazione strategica internazionale.

Labedz, Leopold: Poland under Jaruzelski (New York: Charles Scribner's Sons, 1983).

Sachs, Jeffrey and David Lipton: "Poland's Economic Reform", in Foreign Affairs, Vol. 69, No. 3, Summer 1990.

Szayna, Thomas S.: Polish Foreign Policy under a Non-Communist Government: Prospects and Problems (Santa Monica, CA: Rand Corporation, 1990).

The Economist: Foreign Report, settimanale.


NOTE

1Jachowicz, Jerzy: "Short Report on the Ministry of Internal Affairs", in Gazeta Wyborcza, 23 Marzo 1990, tradotto dal polacco dal Soviet Studies Research Center, Royal Military Academy, Sandhurst.

2Kowan, Tadeusz: "Wilno, c'est-a-dire Nulle Part?", in Le Monde, 23 Aprile 1990.

3Koziej, Stanislaw: In the New Conditions: Strategic Defence, settembre 1990, tradotto dal polacco dal Soviet Studies Research Center della Royal Military Academy, Sandhurst, Regno Unito.

13 November 1990

La situazione in Ungheria

Questa relazione si pone lo scopo di fornire un quadro politico generale entro al quale si collocano i rivoluzionari sviluppi che hanno avuto luogo in Ungheria negli ultimi due anni. Dopo una breve introduzione storico-culturale, si presenterà un'analisi delle condizioni di politica interna ed estera che hanno reso possibile tali cambiamenti. Seguiranno brevi cenni sulle riforme economiche, per una più approfondita analisi delle quali si rinvia il lettore alla relazione sull'argomento presentata in questa stessa sessione. Concluderò con una presentazione delle possibili alternative per il futuro e delle implicazioni delle stesse per l'Occidente. In appendice, una breve descrizione della cosiddetta "Pentagonale", importante foro di sviluppo delle relazioni tra Italia ed Ungheria.

Lo sfondo storico e culturale

L'Ungheria ha mantenuto un forte legame culturale con l'Occidente sin da quando, più di mille anni fa, le rozze tribù magiare scelsero di rinunciare al loro retaggio storico-culturale originario dell'Asia e guardarono invece all'Europa. Importante aspetto della loro civilizzazione ed europeizzazione fu la conversione alla cristianità con Santo Stefano (peraltro un brutale despota che faceva accecare chi non si voleva convertire e versare piombo fuso nelle loro orecchie). La più importante conseguenza di ciò fu il consolidarsi di una permanente e viscerale ostilità culturale contro gli orientali in generale, ed in particolare prima contro i Tartari e poi contro i Turchi, che se la guadagnarono anche grazie a ben 150 anni di opprimente occupazione, dal 1526 al 1686. In questo periodo i Magiari furono spinti in gran numero verso la Transilvania, dove erano meno perseguitati dagli Ottomani, e molti si trattennero lí anche dopo la loro dipartita. Infine, come vedremo, l'anti-orientalismo ungherese si è rivolto contro i Russi.

Ai Turchi subentrano gli austriaci con i quali i nobili ungheresi trovarono, se pur a fasi alterne, una certa intesa. Vienna permise una sostanziale rinascita culturale magiara verso la fine del settecento, quando tornò anche in uso la lingua ungherese a livello ufficiale. Ai moti paneuropei del 1848 corrispondeva in Ungheria una rivolta indipendentista, che aveva fatto vacillare il controllo austriaco ed era stata domata nel 1849 solo grazie all'invasione delle truppe dello Zar Nicola Primo, chiamato da Franceso Giuseppe. Non infrequenti saranno in futuro, specialmente dopo la nuova invasione russa quasi cento anni dopo, i richiami nazionalistici ai "fatti del '49".

Tornata indipendente dopo la Prima Guerra Mondiale, l'Ungheria non riusciva però ad evitare di gravitare nella sfera di influenza tedesca, ed Hitler trovava nel nazionalismo del dittatore fascista Horty una base su cui fondare l'alleanza di Budapest con l'Asse, dietro promessa di recuperare, a scapito di Romania, Jugoslavia e Cecoslovacchia, l'integrità territoriale perduta con il trattato di pace del 1919. Gli ungheresi sono stati un fedele, se pur militarmente poco rilevante, alleato dell'Asse sul fronte russo.

L'ostilità verso tutto ciò che è orientale, e l'orientamento verso occidente, trovano dunque fondamento nell'esperienza storica dei Magiari, popolo asiatico che ha rifiutato l'Asia e che ha cercato invano, almeno fino ad ora, un collegamento dignitoso con l'Occidente. Il fatto di essere stato da questi frustrato, rifiutato e abbandonato o, peggio, trascinato in disastrose avventure belliche, non sembra aver intaccato l'orientamento culturale fondamentale degli Ungheresi. Il richiamo ai valori occidentali della Riforma, del Rinascimento e dell'Umanesimo, dell'Illuminismo e della Rivoluzione Francese sono sopravvissuti, pressoché intatti, a quarantacinque anni di occupazione sovietica ed indottrinamento marxista.

Il paese nel "blocco sovietico"

Tralasciando qui di discutere della presa e del consolidamento del potere comunista nell'immediato dopoguerra, si nota che, dopo lo scossone del 1956, in Ungheria si è assistito, più che in altri paesi dell'Est Europa, ad una lenta ma costante liberalizzazione interna. Dopo alcuni anni in cui era stato inviso alla popolazione come collaborazionista degli invasori sovietici, il regime di Janos Kadar, un Quisling che però aveva tra le sue "credenziali" di essere stato torturato ed imprigionato dagli stalinisti nei primi anni cinquanta, si era così meritato una certa dose di legittimità interna. Questa raggiungeva il suo apice negli anni settanta, quando gli ungheresi godevano delle maggiori libertà personali e forse del migliore standard di vita che era dato di vedere nel blocco sovietico.

L'Ungheria è stata senza dubbio l'apripista delle riforme economiche e politiche in Europa orientale. Il Nuovo Meccanismo Economico (NEM) nel 1968 è stato il prototipo, e forse l'esempio migliore, del parziale revisionismo (se pur non chiamato tale) che si sia potuto sviluppare in era brezhneviana. La parzialità delle riforme, e le loro conseguenti inadeguatezze e contraddizioni, facevano però sì che già dalla fine degli anni settanta il NEM si rivelasse inadeguato ad ovviare ai mali dell'economia.

Nonostante la stagnazione nella riforma economica durante gli ultimi anni di Kadar, tuttavia, l'Ungheria rimaneva politicamente e socialmente la più aperta società della regione. Le prime elezioni con candidature multiple e non-comuniste avevano luogo già nel 1985 (e la relativa legge elettorale è del 1983, quando al Cremlino c'era ancora Andropov). Il Parlamento che da questa scaturiva non aveva ancora poteri reali nei confronti del partito, ma i suoi membri diventavano sempre più attivi, soprattutto dopo il voto del settembre 1987 col quale sancivano, allora novità assoluta in Europa orientale, l'adozione della tassa sul reddito e dell'imposta sul valore aggiunto a partire dal Gennaio 1988.

In politica estera, invece, Budapest ha continuato a seguire una linea pro-sovietica strettamente ortodossa fino a ben dopo l'avvento di Gorbaciov, e precisamente fino al ricambio generazionale al vertice del 1988 di cui si dice di seguito. Fino ad allora, alle aperture interne non era corrisposta una ricerca di indipendenza di politica estera, così come aveva invece fatto in quegli anni la Romania. La spiegazione di ciò è duplice: da una parte Kadar non poteva certo permettersi di scuotere il regime la cui ragion d'essere era proprio l'ubbidienza a Mosca; dall'altra, egli pensava, correttamente, che agli Ungheresi interessasse di più veder migliorare il proprio standard di vita, arricchito magari da una maggiore libertà di viaggi all'estero, che non una nuova improbabile sfida alla "Dottrina Brezhnev". Col tempo, a queste spiegazioni se ne aggiungeva una terza: alla luce delle crescenti difficoltà economiche, il regime di Kadar, che non voleva o non poteva sottoporre i propri cittadini alle privazioni che Ceaucescu imponeva ai Romeni, aveva bisogno dei commerci sussidiati con Mosca per mantenere un minimo di coesione ed ordine sociale.


Recenti sviluppi politici

Politica Interna

Durante la recente visita del nuovo Premier Antall negli Stati Uniti il Presidente americano Bush ha significativamente ed appropriatamente dichiarato che l'"Ungheria non è più una 'democrazia emergente', ma una democrazia".1 Il processo di emergenza della nuova democrazia è durato esattamente due anni. Il punto di partenza dell'accelerazione decisiva alle riforme interne ungheresi si è avuto infatti con la rimozione di Kadar dalla segreteria generale del Partito Operaio Socialista Unificato (POSU) nel Maggio 1988. In poche settimane, i riformisti, guidati da Imre Pozsgay, criticavano il suo successore, Karoly Grosz, di eccessiva lentezza nel rinnovamento. Ne scaturiva una profonda frattura nel partito, che ne avrebbe in seguito causato la scissione e ne demoralizzava subito ed irreparabilmente la base. 

Che la svolta sarebbe stata rapida e di lunga portata appariva chiaro con la simbolica riabilitazione di Imre Nagy (il Premier della Rivoluzione del 1956 deposto e giustiziato dai sovietici) nel Giugno 1989, con nuovo funerale ufficiale che restituiva dignità, se pur postuma al precursore politico degli eventi odierni, sepolto per 31 anni un una fossa anonima. (Per amara ironia della storia, il vecchio Janos Kadar, ormai completamente esautorato, moriva in quello stesso giorno.) Oggi la festa nazionale ungherese non è più l'anniversario della Rivoluzione socialista, ma, in Ottobre, quello della rivoluzione di Nagy del 1956!

Alla crisi interna del partito seguiva logicamente un attacco generalizzato alla legittimità del potere comunista nello stato. Questo, che era sempre stato solo formalmente legittimo, mai politicamente, ne risultava fatalmente indebolito. La memoria storica della sua presa del potere dietro ai carri armati sovietici nel 1945 e dei fatti del 1956 era potentemente risvegliata dalla glasnost informativa divenuta ormai incontenibile. Il partito "guida" doveva quindi presto accettare una "tavola rotonda" con l'opposizione, divisa sì, anzi frammentata, ma capillarmente dilagante nella società ormai priva di remore nel manifestare, nel nome di Gorbaciov, la propria domanda di pluralismo.

L'imminenza e l'inevitabilità della perdita del monopolio del potere, a sua volta, producevano un'ulteriore aggravamento della crisi di coscienza del partito, che portava alla decisione di rinnegare il passato e cambiare anche nome il 7 Ottobre 1989. Cancellando la parola "operaio", ad indicare la fine ufficiale della dittatura del proletariato, il nuovo Partito Socialista Unificato (PSU) si illudeva di riconquistare l'erosa fiducia proprio della classe che aveva così a lungo sostenuto di rappresentare. Solo circa 50.000 dei 700.000 membri però si re-iscrivevano, e tra loro la maggior parte erano apparatchiki compromessi con il precedente regime. Rimane a tutt'oggi una fazione di nostalgici irriducibili che mantiene un nuovo partito con il nome originale di POSU, ma è politicamente irrilevante.

Parallelamente, cambiava nome anche lo stato che al POSU era legato, e la Repubblica Ungherese, così, non accampava più pretesa di essere "Popolare". Uno stato che dopo quarantacinque anni di dittatura è costretto a restituire il potere al popolo sovrano deve eliminare ogni esplicito riferimento a quello stesso popolo dalla propria denominazione ufficiale. Se si vuole, è George Orwell alla rovescia!

Le prime elezioni libere si sono avute nel 1989, cominciando a livello regionale nella primavera, e portavano ad una inequivocabile sconfitta dei comunisti. Si preparava così la strada alle libere elezioni politiche del 1990: il meccanismo elettorale sviluppato sulla scia di quello del 1983, già all'avanguardia per i paesi socialisti perché dava un minimo di scelta tra i candidati. Dopo innumerabili compromessi, il meccanismo adottato era complicatissimo, indice della poca esperienza democratica di chi lo ha elaborato e fonte di inevitabile confusione nell'elettorato. Qui di seguito si fornisce una tabella con una sistesi dei risultati di quelle elezioni.


Risultati elettorali politici in Ungheria, 1990

Tipo di legislatura: Camera unica di 386 seggi, di cui 8 attribuiti dopo il voto su designazione delle minoranze nazionali.

Sistema elettorale: Un complicato sistema di liste di partito su base distrettuale, regionale e nazionale (202 deputati in tutto); sistema alla francese per i rimanenti 176.

Partiti                                        Numero dei seggi 


Forum democratico ungherese                         164

Alleanza dei democratici liberi                      92

Partito indipendente dei piccoli proprietari         44

Partito socialista ungherese (ex operaio)            33

Alleanza dei giovani democratici                     21

Partito popolare democratico cristiano               21

Alleanza agraria                                      1

Indipendenti                                          6

Singoli candidati che rappresentano due partiti       4

TOTALE                                              386


Al di là dei risultati elettorali, l'elemento forse più preoccupante che emergeva nel corso della campagna elettorale era il crescente nazionalismo, soprattutto in chiave anti-rumena e anti-sovietica, ma anche con toni anti-semiti.2 Come vedremo anche successivamente negli altri paesi della regione che saranno analizzati nel progetto Europa 20, quello del nazionalismo è un problema generalizzato in Europa orientale, e potenzialmente destabilizzante, cui in Occidente si deve prestare massima attenzione.

Anche se la situazione politica nel paese, alla fine del 1990, è tutt'altro che stabilizzata, si può asserire con una certa fiducia ormai che il processo di trasformazione democratica in Ungheria è stato sorprendentemente ordinato ed indolore. A differenza di quanto è accaduto negli altri paesi che hanno compiuto in questi anni processi paralleli, non ci sono stati infatti scontri cruenti, né politici, né fisici nelle piazze. I comunisti si sono fatti da parte con delicatezza, semplicemente votando la fine del proprio monopolio di potere.

Non è emersa inoltre in Ungheria una figura carismatica e tascinatrice come Walesa in Polonia o Havel in Cecoslovacchia. Il Premier Antall era relativamente sconosciuto prima delle elezioni. Forse questo porterà ad una più rapida istituzionalizzazione della democrazia ungherese, la cui solidità è già svincolata dalla dipendenza da una singola persona. D'altra parte, la mancanza di un capo carismatico la rende sicuramente meno capace di far accettare gli indispensabili sacrifici alla popolazione.

Aspetto positivo della trasformazione ungherese è stato il massimo grado di liberalizzazione dell'informazione e della comunicazione che si è registrato sin dai primi momenti del processo di democratizzazione, più rapidamente e pacificamente che negli altri paesi della regione. Basti qui ricordare l'apertura dei primi uffici in Europa orientale di Radio Europa Libera, la fonte di informazioni per decenni boicottata dai comunisti, a Budapest nel 1989.


Politica Estera

Sarebbe impossibile sopravvalutare il contributo dell'Ungheria alla fine della guerra fredda. É stata un'azione coraggiosa della politica estera ungherese, e cioè l'apertura delle frontiere con l'Austria ai tedeschi orientali del Settembre 1989, la mossa decisiva che ha innescato il meccanismo dello smantellamento della "Cortina di Ferro", fisica oltre che politica, e conseguentemente dell'unificazione tedesca. Non è un caso che, alla vigilia dell'unificazione tedesca, nell'estate del 1990, il Cancelliere Kohl abbia fornito ampie garanzie di aiuti all'Ungheria che stava per perdere gli importanti accessi, protetti da vecchi accordi con la Berlino comunista, al mercato tedesco orientale. La gratitudine raramente ha un ruolo in politica estera, ma ci sono oggi le premesse oggettive perché la Germania favorisca l'ammortizzamento degli scossoni provocati dall'unificazione all'Ungheria, almeno a livello commerciale.

Fu quello il primo atto di politica estera realmente autonomo di Budapest, peraltro ancora a regime comunista, anche se ha significato la rottura di precisi impegni legali con la Germania di Honecker. Paradossalmente, si nota che questo primo atto autonomo dall'URSS ha goduto, da subito, del pieno appoggio di Mosca, che lo ha approvato quando, poche ore prima, ne è stata informata.

In campo militare, si nota che l'Ungheria è il paese dell'Europa orientale che ha dato più peso alle questioni di sicurezza nel processo di trasformazione democratica, mentre gli altri hanno dato importanza pressoché esclusiva a quelle politiche ed economiche. Il problema della sicurezza è stato affrontato soprattutto con l'Italia, anche cercando soluzioni bilaterali, per esempio nella Pentagonale (vedi l'Appendice a questa relazione).

L'alleanza forzata con l'URSS è stato il fattore condizionante di tutta la politica estera ungherese del dopoguerra. Adesso questo legame è in fase di scioglimento, ed il rapporto di subordinazione militare bilaterale (ancora più condizionante dell'appartenenza al Patto di Varsavia) lo è con esso. L'uscita delle truppe sovietiche dall'Ungheria (il cosiddetto Gruppo di Forze Meridionale) avverrà entro la metà del 1991. I primi ritiri sovietici dall'Europa orientale sono già avvenuti proprio in Ungheria.3

L'unico problema che rimane nella definizione del completo ritiro sovietico è economico: i sovietici reclamano un compenso per quelli che sostengono essere stati i loro "investimenti" nelle strutture che ora si apprestano a consegnare all'Ungheria. Gli ungheresi, al contrario, sostengono di aver diritto a riparazioni sovietiche per i danni causati, al territorio ed alle stesse summenzionate strutture, dall'incuria delle truppe sovietiche. Il problema però è sorprendentemente marginale rispetto al fatto straordinario che oggi non si parla più del se i sovietici si debbano ritirare, ma quando e a che condizioni, e Mosca non sembra avere molta leva negoziale a questo riguardo.

L'intenzione di abbandonare formalmente il Patto di Varsavia è stata annunciata, se pure in toni garbatamente diplomatici, da Budapest, e la neutralità militare è dalla metà del 1990 l'obbiettivo dichiarato del governo. In ambienti ufficiali, e molto di più in quelli non ufficiali, si parla persino apertamente di un'eventuale associazione alla NATO. Gli ungheresi probabilmente sottovalutano la delicatezza politica del problema, per gli Occidentali e per i gorbacioviani in URSS, dove tale adesione sarebbe vista in chiave antisovietica (e giustamente, perché tale sarebbe).

In linea generale, questo nuovo orientamento di sicurezza ungherese è accettato in URSS. Paradossalmente, si riscontrano più perplessità in Occidente, dove è più forte da una parte la paura di destabilizzazione della regione in caso di brusche alterazioni agli equilibri geopolitici, e dall'altra quella di una pressione troppo forte e troppo immediata sulla NATO, sull'Unione Europea Occidentale e, come si dirà in seguito, anche sulla Comunità Europea. (Vedi sezione conclusiva di questa relazione.)

Al momento, il problema più scottante della politica estera ungherese sono però i Magiari in Transilvania, che sono già emigrati in Ungheria in più di 40.000 negli ultimi tre anni. La persecuzione di un prete ungherese di Timisoara è stata la scintilla che ha fatto scoppiare l'incendio in cui ha perso il potere, e la vita, il Conducator Nicolae Ceausescu. Bodapest dichiara di non rivendicare alcun aggiustamento delle frontiere con la Romania, ma solo il rispetto dei diritti umani delle etnie ungheresi in Romania. Le relazioni con Bucarest sono oggi meno caustiche dopo il cambio di quel regime, ma il problema rimane, e si definirà solo, forse, con la stabilizzazione della democrazia e del rispetto dei diritti umani in generale in Romania. L'Ungheria faceva seguito alle sue ripetute proteste in merito al trattamento dei Transilvani in seno alle Nazioni Unite firmando, primo fra gli stati del Patto di Varsavia, la Convenzione di Ginevra sui Profughi  del 1951.

Un altro elemento fondamentale del nuovo corso ungherese, fatto interno ma con importanti risvolti internazionali, è il progresso registrato in materia di rispetto dei diritti umani, e l'Ungheria è unico paese ex-comunista ad aver ottenuto l'ammissione a pieno titolo al Consiglio d'Europa nel Novembre 1990. Degli altri, solo la Polonia e la Cecoslovacchia hanno ottenuto l'ammissione come osservatori.

Sul piano diplomatico, si nota un tentativo ungherese di migliorare le relazioni politiche con molti dei paesi che erano stati a lungo ostracizzati dalla diplomazia kadariana. Si è così assistito al rinnovo delle relazioni diplomatiche con Israele, interrotte dal 1967 così come Mosca aveva ordinato di fare a tutti gli stai satelliti (la sola Romania non aveva ottemperato). Ma anche con la Corea del Sud e, nel 1990, con il Vaticano.

Ottime anche le relazioni con gli USA, marcate dalla visita a Budapest di Bush, primo presidente USA in Ungheria. Tuttavia, gli USA hanno deluso per i pochi aiuti estesi all'Ungheria, anche se le hanno concesso la clausola di nazione più favorita nel commercio. Promettenti le relazioni col Giappone, già fonte di notevoli e crescenti investimenti diretti e, fatto forse più importante, di tecnologie industriali ed informatiche avanzate.


Recenti sviluppi economici

Per una più dettagliata esposizione delle problematiche economiche dell'Ungheria si rinvia il lettore alla relazione economica preparata per questo stesso progetto. Mi limito qui solo a pochi cenni di importanza particolare dal punto di vista politico. In breve, e come previsto, la contingenza sta ancora peggiorando, e continuerà ancora a farlo prima che possa migliorare. Come in tutti gli altri paesi ex-socialisti, non si vede ancora la luce alla fine del tunnel della trasformazione.


Riforme economiche

Nelle riforme economiche, l'Ungheria partiva avvantaggiata rispetto agli altri paesi della regione perché la transizione al mercato è stata finora meno traumatica, sia economicamente che culturalmente. Nel settore agricolo, ad esempio, anche se c'era nell'Ungheria comunista quantitativamente meno proprietà privata che in Polonia, si era però data molta libertà di gestione ai singoli contadini già dagli anni settanta. Piccole imprese private erano già operanti in gran numero, nei settori più svarati dell'artigianato, del commercio e dei servizi, già dagli anni settanta. La riforma definitiva e senza riserve verso il mercato era partita già negli ultimi anni del governo comunista, che aveva anche introdotto la prima tassa sul reddito dal 1988 (accanto alla capitalistica imposta sul valore aggiunto). L'ultimo programma economico del POSU, nell'Autunno 1989, già prevedeva, in linea di principio, una libera economia di mercato assieme ad un sistema politico multipartitico. Oggi, il resuscitato Partito dei Piccoli Proprietari, il maggiore nel 1945, fa di nuovo parte della coalizione di governo, ed ha annunciato di voler premere per una rapida e radicale privatizzazioone della terra.4

Forse tutto ciò faciliterà la transizione, ma la situazione economica generale è al momento tragica: l'inflazione è salita ad oltre il 25% e continua a crescere, il debito estero è di oltre 20 miliardi di dollari, che per capita è il più alto in Europa orientale. La disoccupazione è difficilmente calcolabile, ma è ben oltre il 10% ed destinata ancora inevitabilmente a salire. Le esportazioni sono in crescita (60% dal 1987 al 1990) e questo si riflette nel calo del rapporto tra debito e servizio, sceso dal 60% al 47% nello stesso periodo; tutto a scapito, ovviamente, dei consumi interni, già depressi da decenni.

Molto si è detto sui meriti della conversione al civile delle considerevoli risorse che i paesi socialisti per decenni hanno dedicato alle industrie belliche. Tagli sostanziali alla spesa militare, che era stata già peraltro quasi congelata dal 1986, sono in programma in Ungheria. Ma la questione non è semplicemente di come meglio utilizzare le risorse così risparmiate nel settore civile; esistono difficili complicazioni. In primo luogo, non tutto ciò che viene tagliato dal militare si trasforma in "dividendo della pace": si verifica infatti una perdita di gettito fiscale dalle imposte che sarebbero state pagate dalle industrie belliche, solitamente priviliegiate e perciò molto efficienti; e questo soprattutto nel breve termine, prima che una nuova produzione civile possa prenderne il posto. Questa perdita è difficile da stimare, ma è stata stimata fino a oltre il 50% del "dividendo". C'è inoltre un'immediata perdita di esportazioni di armamenti, specialmente verso l'URSS, ma questa non dovrebbe ammontare a molto (le cifre esatte non si conoscono).

In secondo luogo, ci sono i costi di smontaggio, trasloco e trasformazione delle apparecchiature belliche. Quindi, il costo dell'inevitabile disoccupazione dei lavoratori di quelle industrie, stimati a oltre 50.000,5 cui si aggiungono i costi per il riadattamento, la re-istruzione, rilocazione, ecc. D'altra parte questi problemi potrebbero essere di più facile soluzione in Ungheria che non in altri paesi socialisti perché non c'è mai stato qui un settore di industria militare fortemente compartimentalizzato (come ad esempio in URSS), ma al contrario questo è stato da sempre molto sovrapposto alla produzione civile. Infine, la conversione richiederà un'attenta programmazione centralizzata, specialmente nelle maggiori industrie pesanti: un piccolo paradosso nel processo di decentralizzazione e de-pianificazione dell'economia che potrebbe però contribuire a rallentarlo!

In materia di politica economica, merita una menzione a parte il problema dell'ambiente. Si può qui giustificatamente generalizzare un problema che non è solo ungherese ma coinvolge anche tutti gli altri paesi del CMEA, senza eccezioni. In Occidente l'ecologia è un problema soprattutto economico: rispettare l'ambiente costa caro, ed è quindi difficile per i governi obbligare le industrie a farlo. Sarebbe stato logico aspettarsi che le industrie pianificate dell'Europa orientale, non motivate dalla massimizzazione dei profitti come in Occidente e sotto controllo governativo diretto, avrebbero potuto permettersi di rispettare maggiormente il benessere del popolo di cui erano proprietà.

All'Est il problema è stato invece un altro: i governi non hanno fatto nulla per spingere le industrie ad innovare, ma si sono fossilizzati nel cercare (invano) di proteggere quel poco di competitività che potevano salvare cercando miopemente vantaggi anche nel risparmio di costose attrezzature anti-inquinamento. Una parte di responsabilità è tuttavia anche dell'Occidente, che fino a tempi recenti nulla ha fatto per spingere quei paesi ad adottare misure per contenere un'inquinamento che dopotutto danneggia anche noi. Anzi, i più avanzati meccanismi di filtraggio degli scarichi industriali erano fino a pochi mesi fa nelle liste dei cosiddetti "materiali stragici", la cui esportazione ad Est era proibita dal COCOM. La coscienza della necessità di una maggiore collaborazione pan-europea in materia di rispetto ambientale si è tradotta nella creazione, a Budapest, di un centro europeo per l'ambiente, con finanziamenti  della CE e statunitensi, Negli anni a venire si vedrà se alle diagnosi ed alle intenzioni corrisponderanno anche terapie adeguate; è certo, comunque, che i tempi di riadattamento delle industrie agli attuali standard anti-inquinamento occidentali saranno tutt'altro che brevi.


Rapporti economici con l'estero

Per quarant'anni esatti (1949-1989), le relazioni economiche internazionali dell'Ungheria sono state inquadrate nell'ambito del Consiglio di Mutua Assistenza Economica (CMEA o Comecon). Basato formalmente su utopie di fratellanza socialista, il CMEA era servito ai sovietici a controllare le economie dei paesi satelliti, e a questi ultimi per proteggere le loro inefficienze dal mercato internazionale. All'inizio del processo di riforma, l'Ungheria ambiva ad una radicale ristrutturazione del CMEA, a maggiori sbocchi nei mercati occidentali, ed a un maggior accesso a capitali e tecnologie pure occidentali. In questo Budapest trovava l'accordo, pur con differenziazioni anche notevoli, di tutti gli altri paesi dell'organizzazione. Primo fra tutti l'URSS, che già dal Luglio 1989 proponeva di passare tutte le transazioni commerciali intra-CMEA su valuta convertibile a partire dal 1991.6

Doveva questo essere l'inizio di una riforma per rendere il CMEA più efficiente, ma si è invece rivelato il primo passo verso la sua scomparsa. Commerciare in valuta convertibile eliminerebbe infatti uno delle principali ragion d'essere del CMEA, e cioè la protezione goduta dai beni di scarsa qualità commerciati al suo interno. Vale qui sottolineare che questa è una ragione sì economica, ma ancor prima politica, condizione necessaria alla sopravvivenza (meglio sarebbe dire, al prolungamento dell'agonia) di economie non competitive incapaci di mantenere, e lungi dal far progredire, uno standard di vita minimo per un paese industrializzato.

Oggi non è esagerato dire che gli ungheresi non vogliono neanche sentir parlare di CMEA, ed in questo probabilmente sbagliano. Si sottovalutano infatti così le potenzialità di collaborazione con altri partner regionali di dimensioni e caratteristiche più compatibili di quanto non siano, per ora, gli occidentali. Si sottovalutano altresì le possibilità di collaborazione con l'URSS, con la quale rimarrà comunque un elevato potenziale di complementarietà.

Budapest incoraggia attivamente l'investimento diretto di capitale straniero in Ungheria. Si sono peraltro levate aspre critiche ai comunisti che nell'ultimo periodo al potere, pur di favorire l'afflusso di valuta pregiata per cercare di salvare il loro regime, agli investitori occidentali hanno venduto molto a troppo poco. Ma il problema si ripropone anche oggi: gli occidentali sono disposti a rilevare beni ungheresi solo a prezzi competitivi sul mercato mondiale, ma che in Ungheria sono considerati bassi. Potrà qui forse intervenire, almeno in parte, un'oculata politica di sovvenzionamenti da parte dei governi occidentali, che spingano i propri investitori in affari che sarebbero altrimenti poco incoraggianti: il problema è politico prima che economico.

I capitali occidentali sono anche frenati dal problema della riesportazione dei profitti, difficile da sostenere se la valuta non diventa convertibile. Ma la convertibilità può a sua volta essere sostenuta solo da un'economia efficiente: dunque, prima che gli investimenti stranieri possano ragionevolmente arrivare in quantità determinanti, le riforme devono avere un qualche effetto credibilmente duraturo.

A livello istituzionale, l'Ungheria è stata tra i primi paesi dell'Est a manifestare il desiderio di entrare in CE al più presto, con formule provvisorie di associazione parziale nel breve termine, per dare tempo all'economia di prepararsi ed alla CE di completare il disegno integrativo del 1993. Dopo i primi facili entusiasmi, Budapest mostra maggiore comprensione per la necessità di gradualità in questo processo.


Politica Militare

Un cenno meritano gli importanti sviluppi in materia di sicurezza nazionale. In Ungheria, ci sono state riduzioni unilaterali della leva da 18 a 12 mesi nel 1991, ed anche riduzioni quantitative di forze già dal 1989 (accompagnate però da miglioramenti qualitativi). Le Forze Armate ungheresi si muovono inoltre verso una struttura con una maggiore proporzione di professionisti e mirano ad attirare ufficiali di qualità offrendo salari competitivi col settore civile (sarà difficile rendere compatibile quest'ultimo requisito con consistenti tagli di bilancio militare che si auspicano).

Con l'avvento della democrazia parlamentare, anche le questioni militari sono per la prima volta diventate oggetto di dibattito pubblico. Si sono moltiplicate le proteste, per motivi ambientali, contro le attività militari del Patto di Varsavia sul territorio magiaro. Si è già avuta, a questo proposito, una riduzione della quantità e della dimensione delle manovre, ed inoltre una demilitarizzazione unilaterale di fasce di 50km lungo i confini con Austria e Jugoslavia. Le forze armate sono state de-politicizzate come le altre istituzioni dello stato, mentre prima l'80% del corpo ufficiali era membro del POSU. I militari, in generale, hanno accettato le riforme di buon grado.

Una nuova "dottrina militare" nazionale (in realtà un documento più politico che militare) è stata proclamata nel Novembre 1989. Essa è fondata sul principio della difesa del territorio nazionale (senza obblighi di intervenire al di fuori di esso all'interno del Patto). Tuttavia, a Budapest si cercano attivamente, anche se con una certa incertezza di approccio, nuove alleanze. Ci sono stati approcci bilaterali con l'Italia, per esempio quando gli ungheresi volevano addirittura trattare di questioni di sicurezza in ambito Pentagonale. L'Italia non ha accettato questo approccio, perché le questioni militari sono meglio trattate da alleanza ad alleanza, in quanto non esiste una relazione militare bilaterale tra i due paesi, e nemmeno tra i cinque della Pentagonale, ma esiste una sicurezza europea unica ed indivisibile. La cosa è stata quindi lasciata cadere, ma potrebbe essere ripresa, se pur in forme diverse, in futuro.


Prospettive

Alla fine del 1990, in Ungheria, si nota che l'euforia politica conseguente alla creazione dell'attuale sistema democratico prevale nettamente sulle preoccupazioni sul piano economico, su cui si sono fatti solo pochi ed ancora incerti passi avanti. Il pericolo è però che questa euforia possa presto, come è normale, esaurirsi: gli ungheresi prenderanno presto per scontato quello che fino a pochissimi anni fa era inimmaginabile. A quel punto, si presenteranno le dure realtà della riconversione economica e sistemica, e spariranno le ancora diffuse illusioni sull'onnipotenza del capitalismo. Per esempio, l'apertura a Budapest della prima borsa valori dell'Europa orientale nell'Agosto 1990 porterà si capitali di cui c'è disperato bisogno, ma la speculazione cui ciò si accompagnerà sarà pure foriera di costi sociali oggi sottovalutati.

Ciò che resta da vedere è se l'entusiasmo politico durerà abbastanza a lungo, e sarà abbastanza forte, da permettere alla nuova dirigenza di far accettare i sacrifici economici che caratterizzeranno il periodo di trasformazione. Se la risposta sarà positiva, l'Ungheria potrà raggiungere un livello di stabilità sociale che le permetterà un agevole sviluppo economico e civile. Altrimenti, sussiste il rischio che il paese non abbia la maturità politica per sopportare l'inevitabile lungo periodo di transizione turbolenta che gli si prospetta.

Conclusioni ed implicazioni per l'Occidente

La trasformazione in atto in Ungheria è il risultato di tre fattori: all'inizio, i primi impulsi sono stati dati dalla crescita di una nuova generazione di funzionari di partito, più giovani, pragmatici ed istruiti di quelli della generazione di Kadar; questi, come tanti altri loro colleghi nell'ex-impero sovietico, sono però stati presto travolti dagli eventi che loro stessi hanno contribuito a mettere in moto. In secondo luogo, lo sviluppo, nell'humus culturale semi-libero degli ultimi anni del kadarismo, di un'opposizione articolata, riformista di tipo pro-occidentale, ha favorito il consolidamento dei nuovi partiti politici non appena le condizioni lo hanno permesso. Infine, il fattore decisivo deve essere individuato, per l'Ungheria come per gli altri paesi, nella salita al potere di Gorbaciov: senza l'assenso e l'incoraggiamento di Mosca ai cambiamenti in atto, avremmo probabilmente assistito alla continuazione del kadarismo senza Kadar.

In campo economico, per l'Occidente, si pone il problema di evitare facili entusiasmi senza però perdere utili opportunità. L'imprenditoria occidentale dovrebbe quindi orientarsi ad andare in Ungheria solo nella misura in cui la situazione interna, soprattutto in materia di riforme economiche e burocratiche, prenderà piede da sola. Altrimenti il rischio è che l'intervento potrebbe divenire controproducente. Se troppo lento, potrebbe costare in opportunità perdute e non portare in tempo il contributo marginale, e forse cruciale, per il successo delle riforme, e l'esperimento ungherese potrebbe quindi fallire. Ma se troppo veloce, sarebbe equivalente a seminare prima che si sia arato. L'Ungheria oggi sta arando il proprio terreno, e sta a noi essere pronti a seminare. Anche a livello istituzionale, il tempismo sarà di importanza cruciale: un'affrettata corsa all'adesione alla CE sarebbe controproducente per la CE e per l'Ungheria, ma eccessivi ritardi sarebbero politicamente contraddittori e dannosi.

Questo cale anche in campo di sicurezza. L'entusiasmo ungherese per l'adesione alla NATO va raffreddato. Quella che potrebbe essere una spinosa questione diplomatica se venisse proposta oggi, potrebbe invece diventare irrilevante nei prossimi anni, col consolidamento definito della distensione, ed è quindi saggio prendere tempo.


Bibliografia

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Radio Free Europe: Report on Eastern Europe, settimanale.

Volgyes, Ivan: Hungary: a nation of Contradictions (Boulder, CO: Westview Press, 1982).

Appendice: la "Pentagonale"

La Pentagonale è stata fondata il 10 Novembre 1989, prima come "Quadrangolare" a quattro, ma presto allargata anche la Cecoslovacchia dopo la "Rivoluzione di Velluto" del novembre 1989. A partecipare è interessata anche la Romania, che però finora ne è stata tenuta fuori per motivi politici. Principale forze iniziatrice è stata l'Italia, che con il nuovo Ministro degli Esteri De Michelis sta cercando un nuovo ruolo nella Mitteleuropa senza cortina di ferro. L'accordo è anche frutto di una obiettiva necessità per un foro di cooperazione sub-regionale pragmatica al di fuori dal quadro di riferimento tradizionale delle organizzazioni della guerra fredda. Il foro pentagonale è particolarmente utile nel breve termine, in attesa di far maturare i tempi per più vicina collaborazione degli stati membri con la CE, ma non è sostitutiva di questa. Contrariamente ai desideri di alcuni paesi, tra cui l'Ungheria, la pentagonale non ha scopi integrativi.

Aspetto importante della Pentagonale è che essa riunisce per scopi di cooperazion regionale gli stati, a differenza dell' Alpen-Adria, che enfatizza la cooperazione tra le regioni, e che per questo può anche essere fonte di tendenze disgregative nei vari stati (specialmente in Jugoslavia, con la Slovenia, ma forse anche in Italia se le Leghe regionali dovessero confermanre la loro forza elettorale).

Oggetto della Pentagonale sono questioni economiche, culturali, ambientali, inerenti al problema dei trasporti. Gli Ungheresi volevano includere nell'agenda anche la sicurezza, ma l'Italia ha opposto resistenza, sostenendo che era meglio trattare di questa a Vienna, in quanto non avrebbe senso discutere di tali argomenti escludendo gli alleati NATO o i sovietici.

15 October 1990

A European nuclear force in NATO

The control of the use of nuclear weapons in Europe has long been a subject of extensive debate in NATO.1 Ultimately, however, the US has retained both absolute negative control over allied dual-key forces and virtually absolute positive control over its own forces deployed in and around Europe. This arrangement, adopted in the fifties, has arguably yielded considerable advantages to the non-nuclear members of NATO Europe. The most important of these is that it has provided at least some degree of coupling with the US central nuclear deterrent. Second, reliance on the US extended deterrent has probably prevented a proliferation of national nuclear arsenals in NATO Europe.

However, at least since the Athens and Ann Arbor speeches of 1962 by then US Secretary of Defense Robert McNamara, NATO has witnessed a gradual decrease in the emphasis that was put by the US on the use of nuclear weapons for the defense of Western Europe. This trend has progressively eroded the credibility of the extended nuclear deterrent of the US and poses fundamental challenges for the future of deterrence in Europe. This paper argues that this trend is not acceptable for NATO Europe; that it is nonetheless continuing; and that, if NATO Europeans wish to continue to rely on nuclear deterrence for the maintenance of peace in Europe--as it is argued here they should--they will have to assume greater nuclear use control responsibility. I will first analyze the requirements that would have to be fulfilled for the achievement of this goal and then propose an option for the future.

In an era of rapid political change in Eastern Europe, with the Soviet Union retreating politically and militarily and the Warsaw Treaty Organization (WTO) collapsing, one could wonder whether a nuclear deterrent continues to make sense in the first place. The fact is that the military threat to peace in Europe is not withering away with the disgregation of the Soviet bloc. As one authoritative analyst recently put it, the capability to attack would "vanish only if weapons and soldiers ceased to exist",2 which is not likely to be the case for a long time indeed. In all other conceivable scenarios, the ability of nuclear weapons to make war unusable as an instrument of policy can not be replaced. Even after all on-going and projected nuclear reductions in Europe, the Soviet Union will retain a plethora of land-, air-, and sea-based systems with which to inflict a holocaust on Western Europe. While that intention seems to be a remote one indeed in the minds of the Soviet leadership today, the capability is there, and the wholly unpredictable character of future political developments in that country warrants an insurance policy against it.

In addition, rising nationalism throughout Eastern Europe and the Soviet Union raises the possibility that, at some yet indefinite point in the future, one or more of the newly emerging national actors might decide that nuclear weapons are necessary to its security, and may well have the capability to make them. This might be the case, for instance, either with an independent but politically isolated Ukraine or with a fiercely nationalistic, undemocratic and ostracized Romania.

In sum, while the security scene in Europe is changing in ways that are certainly welcome inasmuch as they reduce Cold War vintage tensions, uncertainty and instability are increasing. It would be imprudent to assume that the on-going dramatic geopolitical reshuffle will produce a new static order that is both Western-friendly and long-lasting. In the absence of moderating hegemonic spheres of influence, these may more easily degenerate in armed conflict.

Therefore, while the US extended deterrent has been eroded, the need for war-preventing nuclear deterrence has not lessened in Western Europe, despite current military and political changes in Eastern Europe and in the USSR. However, all traditionally solid justifications for keeping US nuclear weapons in Europe (offsetting Soviet conventional superiority and nuclear forces as well as the ideologically offensive character of the Soviet state) might soon be invalidated by the enthusiasm over Gorbachevism. That the US nuclear presence in Europe will decrease is an ascertained fact. Therefore, NATO Europe urgently needs to take greater nuclear respon­sibility off US shoulders. The thesis of this article is that if NATO Europeans wish to continue to rely on a nuclear deterrent to guarantee their security, they must begin to reconsider options for increasing their own nuclear control responsibilities. This would be a far from uncontroversial process, and the proposal put forward in this paper would certainly attract much opposition. But the issues which it raises are the kinds of questions that Europeans must answer lest they throw up their hands and just hope that the end of the Cold War is also the end of all their security concerns. This paper will have served its purpose if it contributes to generate further debate on the question of the Europeans' nuclear responsibilities after the Cold War.

The option proposed here is the establishment of a NATO European Nuclear Force (NEF) within the integrated military structure of the Alliance. A small survivable force could be constituted as a separate Major NATO Command, equivalent in rank to the Supreme Allied Commander, Europe (SACEUR) and to the Supreme Allied Commander, Atlantic (SACLANT), and to be headed by a European general, who would be either French or British for the time being, but whose nationality could later be chosen on a rotational basis if greater European political unity will make it feasible to do so. This post would be assigned solely nuclear retaliatory missions. In case of confirmed Soviet nuclear attack against NATO ter­ritory, the commander would have the pre-delegated authority to fire, at his discretion.


Pre-requisites for a NEF

Several conditions would have to be met to make a NEF a workable political, military and economic proposition: (i) the Federal Republic of Germany (FRG), or a united Germany, would have to be involved but, for political reasons, at this time it would not desire--and should not be given--an independent nuclear trigger; (ii) the Nonproliferation Treaty regime should not be weakened; (iii) the cost of any nuclear control rearrangement should be acceptable to those concerned; (iv) such rearrange­ment does not need to be an alternative to the European-North American alliance or even to just the US military presence in Europe, and should therefore be acceptable to the US; (v) nuclear responsibility rearrange­ments in NATO should not be seen by the Soviets to be deliberately provoca­tive; (vi) the force should be acceptable at the domestic political level in the countries involved.

The issue of German nuclear control is a contradictory one in NATO. On the one hand, few Europeans, Eastern or Western, not to mention the two superpowers, are eager to see a German national trigger for nuclear weapons. As of 1990, few have that desire in Germany as well. But the geopolitical equilibria in Europe are changing as a result of both politi­cal transformations in Eastern Europe and continued US nuclear withdrawal from NATO Europe. The new Germany which is emerging as an economic and political superpower in Europe might one day decide to develop a national nuclear arsenal. Should they do so, they would ultimately be able to withstand foreign opposition: therefore, the task for the West is to prevent any development in this direction.3

On the other hand, it would be politically and militarily inconceiv­able to structure any nuclear deterrent in Europe without some kind of prominent German participation, since the central front remains the crucial area of the East-West military equilibrium. For this reason, most West Europeans who believe in nuclear deterrence as an element of their security have been concerned by the growing sentiment in some sectors of the German polity against the presence of US nuclear weapons in Germany. It is difficult to determine exactly to what extent this sentiment is anti-nuclear per se or is just resentment against the US ability to wage nuclear war in Germany. It is certainly a combination of the two. In any case, any measure intended to take some nuclear responsibility away from the US and into Europe--including Germany--should help contain it.

Put another way, most West Europeans and Americans fear both the prospect of a fully nuclear Germany (a traditional concern which may be raised anew by a reunified Germany) and that of a denuclearized one (a relatively new concern).4 A NEF would have to balance these two contradictory aspects.

The second problem is constituted by the Nonproliferation Treaty (NPT). With the recent accession of Spain, all non-nuclear European NATO members are parties to the NPT. The treaty has long performed an important role in stabilizing the military situation in Europe and elsewhere. It would be a mistake to weaken it, perhaps decisively, as the withdrawal of some NATO Europeans in the pursuit of a European deterrent most likely would.

Yet, the creation of the NEF would not require the withdrawal from the treaty by countries participating in the proposed new forces. Italy and the FRG, for example, introduced reservation clauses at the time of signing to the effect that their participation in a European nuclear force created as a follow-on to the current French and British national forces would not be prejudiced by the treaty.5 Hence, an integrated NEF would not be incompatible with the NPT if it is created as a successor, albeit a partial one, to the current French and British national arsenals.

While such a succession will obviously not be easy to work out politically, recent renewed political emphasis on European defence coopera­tion (and particularly Franco-German and Franco-British initiatives) are encouraging. A greater degree of joint nuclear control need not be the result of full European political unification and defence integration, but, rather, could act as a catalyst for it. A good, if limited, precedent is set by the gradual turn-over of economic sovereignty with the Single Act, which will produce a united market by 1993. After all, European unification will not be born overnight, but must go forward in steps, and there is no reason not to gradually pursue incremen­tal steps in the defence realm as well.

Threshold countries outside Europe can be expected to seize on the issue to restate the discriminatory character of the NPT, particularly in light of the upcoming 1995 debate over the extension of the treaty, but there is little reason to think they would change their nuclear policies as a result. In the past, the history of the nonproliferation regime shows that nuclear weapon decisions have consistently been taken on the basis of perceived national security interests, and not simply by following the example of other distant states. The NEF would not influence the security environment of any nuclear weapon threshold state such as Argentina, Pakistan, South Korea or South Africa. Consequently, no major change in the nuclear weapon choices of these countries as a result of its creation is to be expected.

At a time of severe budget constraints for all Western governments, the cost of a NEF would have to be low to be acceptable. Yet, since the force could be small in size and might utilize in large part the existing logistical infrastructure and weapons of NATO, this requirement should not be prohibitive.

The force should not be seen as an alternative to the overall US security tie to Western Europe. In particular, it would have to be com­patible with a continued US nuclear presence in Europe. In fact, a con­tinued US conventional and nuclear presence in Europe would be essential to the feasibility of the NEF. As will be shown below, the NEF proposed in this paper must be backed by conventional and short-range nuclear forces, under the existing NATO commands, which can be guaranteed only by a continued US contribution. In addition, the US military presence in Europe serves a political purpose which still retains the support of the over­whelming majority of Europeans. Finally, US technical cooperation and targeting coordination, while probably not essential--much as it is not essential today for the French and the British--would be advisable. Even if the strategic rationales of the new force would be different from those of US forces, a minimum of coordination would be desirable to avoid both fratricide and operations at cross purposes. Therefore, a NEF would not require, nor should it encourage, an erosion of the European-American security partnership in NATO. Indeed, one of its purposes would be to reinforce the partnership by avoiding false illusions on each side about what such a partnership can and can not provide to its participants.

A NEF would have to be structured in such a way that it is not regarded as unduly provocative by the Soviets. Several problems might arise in this regard. The USSR has traditionally been very sensitive to the idea of West European, and particularly German, nuclear use control. Several Soviet strategic analysts6 emphasize that Moscow can not but be concerned about any type of West European defence cooperation because, in their view, it would be directed mainly or even, arguably, solely against the USSR. This is all the more worrisome, from the Soviet point of view, when nuclear weapons are involved. But the argument for greater European nuclear control, presented here, would not be to increase the offensive capability of NATO against the Warsaw Pact--or whatever will be left of it. Indeed, given its small size, the warfighting value of the NEF would and should be negligible.

The Soviets could see a NEF as a disruption of the current rather stable bilateral nuclear relationship with the US. Yet, Moscow should realize that any move toward a Europeanization of the British and French national deterrents, to the extent that it would prepare the way for the eventual renunciation of their national trigger (to be achieved when a true West European political entity is created) could, in time, simplify rather than complicate the Soviet nuclear problem in Europe.

Finally, it has been pointed out that a greater West European nuclear role may pose political problems because the Soviets could not match it with an organization of their own among their Eastern European allies.7 Traditionally, the USSR has never shared nuclear use control with its allies. With the current de facto dissolution of the Pact this has become a mute question.

On the other hand, there are several reasons to believe that the Soviets might, in time, perceive some benefits in the creation of an integrated NATO-European nuclear force. It would not be the first time that the Soviets belatedly recognize that there is something to be gained from policies they have long opposed on political grounds. This has been the case with recent shifts in Soviet in arms control positions and with their official recognition that a free Eastern Europe, anathema until recently and accepted by default, actually contributes to enhance their security.

First, a long-range NEF would reduce, though not eliminate, current NATO reliance on US Short Range nuclear forces (SNF) for battlefield use, thereby reducing the incentives to hasty action in a crisis and enhancing strategic and crisis stability. The latter is a declared Soviet goal as it is for the West, and there is no reason to think it will change. As a gesture to prove its genuine interests in common security and stability, parallel to the creation of the NEF NATO could continue to reduce its reliance in SNF.

Second, a NEF, with its renewed emphasis on nuclear deterrence, would reduce pressures for costly conventional improvements in NATO. One should keep in mind that, despite the recent reduction of defense budgets and deployed in both NATO and in the Soviet Union, the latter in still pursuing vigorous technological upgrading of its conventional forces. A marked NATO shift away from conventional improvements would further reduce the likeli­hood of a continu­ing expensive investment in conventional forces on the part of the Soviets, thus freeing precious resources for their domestic economic needs. In particular, a NEF would, ceteris paribus, reduce pressure on defence-related technological improve­ments by NATO, particular­ly as pertains to conventional forces. In fact, there is current­ly a tendency to improve NATO's technological edge in the conventional sphere so as to strengthen conventional capabilities in light of the declining credibility of its nuclear deterrent. While the NEF would hardly stop the momentum of defence technology research, it would only need to slow it down to be beneficial for the Soviets. This might relieve them from a technological competition to some extent, and particularly in Emerging Technologies (ET), which would drain their R&D resources and which they would probably lose.

Third, the NEF could serve to bring the French and British arsenals into the arms control process. Along with its creation, NATO might propose to set alliance-to-alliance limits on all INF--including also air-borne and sea-based systems in and around Europe capable of hitting Soviet territory. In practice, this would mean a NATO-USSR deal, since Eastern Europeans are hardly likely to have any role in nuclear control in the WTO. If anything, current developments make one wonder whether the WTO will even continue to exist as a viable military entity. Such a NATO-WTO deal would, however, thwart a traditional Soviet objection, namely that NATO third country forces (i.e. the UK and France) unrestrained by arms control agreements, circumvent the INF treaty.

Finally, a NEF would further strengthen the integration of the FRG into NATO nuclear affairs, thus repressing potential future stimuli toward an independent German nuclear force. The latter has been a most serious Soviet concern in the nuclear field over the years. As mentioned above, while the issue is simply not topical in the FRG at this time, it might become so in the not so distant future. The resur­gence of a German political and economic superpower could make such a prospect a more concrete one in this decade. The Soviets would certainly feel particularly threatened should the Germans decide to proceed with a national nuclear option; they would be likely to exert strong pressure to prevent it, but they would probably be unable to impede its creation.

Quite aside from the strategic merits of the NEF which will be discussed in this article, two further kinds of preliminary political objections might be raised against the case for increasing European nuclear responsibility in NATO. One possible political problem with respect to the broader implications of greater European nuclear control responsibility is that it might fuel renewed global geopolitical ambitions for Western Europeans, which might be destabilizing and should be avoided.8 However, increasing European nuclear decision-making power according to a scheme such as that proposed in this study does not need to involve greater geopolitical ambitions. In fact, in no way would NATO Europe need to redefine its global political or military role in order to provide for a more autonomous nuclear deterrent. The only purpose of such greater nuclear responsibility should be to provide a nuclear deterrent against any kind of war in Europe, which the US guarantee is increasingly failing to provide.

Another political problem would be to make the proposal acceptable at the domestic political level in the various countries concerned. The domestic political acceptability would depend on many factors which are difficult to estimate, such as the perception of the Soviet threat, the status of West European integration, and the costs involved. This paper will not speculate in depth on each of these; the main purpose of this study is to suggest a possible solution to the strategic and military aspect of NATO's nuclear deterrent problem. This is the fundamental security problem in NATO Europe. Should Europeans agree on how to solve it, their governments should then fit the solution into the more general framework of European defence cooperation which is taking shape today. West European establishments are moving toward a consensus on the desirability for greater cooperation in defence matters. For the first time since its withdrawal from the NATO integrated military structure, this trend involves France as well.9

To make it politically acceptable to the European public, the NEF arrangement proposed here should be presented as the Europeanization of the existing French and British forces. NATO should point out that this would not mean their proliferation but rather their harmonization into the more general new East-West security architecture of Europe. In time, this may also mean bringing these forces into the arms control process, though at a date which might indeed be far into the future.

In addition, it should be pointed out that one of the main reasons for public uneasiness with nuclear weapons in Europe has been that they are American-controlled. In France, national control has historically con­tributed to shaping and consolidating a strong national consensus for nuclear weapons, and to a large extent the same has been true for the UK. In the rest of NATO Europe, the INF debate in the early eighties showed how popular opposition to their deployment was in large measure opposition to giving the US the ability to unleash nuclear war in Europe.


A NATO-European Nuclear Force (NEF): A Proposal

Many proposals for increased NATO European nuclear control have been discussed in the past, either officially (such as the European Defense Community and the Multilateral Force) or in the strategic literature.10 For different reasons, they all failed to be adopted by NATO. The remainder of this paper will explore a possible structure for a NATO European nuclear force. The following paragraphs do not purport to provide a detailed operational proposition. They do intend to outline the broad contours of a possible arrangement which would satisfy the widely perceived necessity for NATO Europeans to acquire greater responsibility for their defence while maintaining both a nuclear deterrent and an American presence in Europe.

A NATO-European Nucleaer Forces (NEF) should be organized as a separate Major NATO Command (MNC), headed by a Supreme Allied Commander, Nuclear European Force (SACNEF), who would be equivalent in rank to SACEUR (the Supreme Allied Commander in Europe) and SACLANT (the Supreme Allied Commander in the Atlantic). SACNEF would command exclusively nuclear forces and would be assigned a purely deterrent, second-strike mission. Because its mission would be to deter attack against all allies, SACNEF would not be assigned to any specific geographic area of responsibility.11

Forces and Costs In light of the simplicity of its strategy (see below) the size of the NEF would be small. The purpose of the force would be neither to survive nor to fight any kind of war, but to deter it by being able to add credibility to NATO's willingness to ignite strategic nuclear escalation against an aggressor. For this, some two hundred survivable warheads (approximately equivalent to the currently programmed combined French and British SSBN arsenals) would be sufficient.12 While this number is obviously arbitrary, it should be underlined that the purpose of the NEF would be far less ambitious than flexible response today. The NEF should only be capable of bringing escalation to the territory of the USSR, thus making it more credible that in case of war NATO's deterrent would be involved as a whole.

Submarines would be the most appropriate systems for the NEF in that they are invulnerable and the most penetrating of all French and British forces. Their major shortcoming, i.e. detectability after the first launch, would not be a problem in light of the extreme circumstance under which they would be used--see below. They would also avoid, at least in part, the political problems connected with the visibility of any land-basing decision in NATO.

France and Britain would not necessarily have to turn in all of their national nuclear arsenals to SACNEF. They could still retain a portion of it (perhaps the air-borne and land-based legs of their triads) under exclusively national control. French and British nuclear forces could thus be developed as a basis for a future European Community nuclear deterrent, the exact form of which we can not yet be defined. In this way, while the discussion of Franco-British cooperation has usually been limited to development and procurement--such as with the recent case of negotiations over the Long-range Air-to-Surface missile--it would be aimed at ensuring the triggering of nuclear escalation in case of Soviet attack in the continent.13

The UK and France would benefit from this change in several ways. First, the credibility of their deterrents would increase because their launch would automatically involve other allies. Knowing this in a crisis, the Soviets would be deterred from attacking all NATO states participating in the NEF at least as much as they are from attacking the UK and France today. If the Soviets could not ascertain that NEF had executed the attack, they would have to assume that the US were involved, with the obvious, and welcome, coupling effect of that.

Second, the UK and France would be able to save financial resources, since part of their current expenditures on nuclear weapons could and should be shifted toward the allies participating in the NEF. While in the past both France and Britain have enjoyed a strong national consensus on the need to pay for national nuclear forces, current budgetary pressures, particularly in the UK, may put it in doubt in the future.

There would also be other major advantages for the Alliance as a whole in utilizing the French and British arsenals. One would be to allow for the creation of a European nuclear force without violating the NPT.14 Another would be that if France and Britain coordinated the patrols of a joint submarine force, much higher patrol ratios could be obtained than the two countries combined can achieve now separately.15 Joint targeting could offer attractive returns to scale. Coordinated deployments would help to maximize survivability.16 Finally, the NEF would prevent France and the UK from being "singularized" as the sole nuclear powers in Europe in case of substantial US SNF withdrawals from the continent.

The NEF would also contribute to stabilizing the nuclear situation in Germany, since any German national nuclear ambitions could be more solidly frozen by the additional margin of security it could provide. After being integrated into the NEF, the Germans would have a more direct role in the security destiny of their own country than they do now under the US umbrella. At a time of increasing German uneasiness about the presence of US nuclear forces on their territory, the NEF might allay at least some anti-nuclear sentiments in the country. On the other hand, the NEF would prevent the possible denuclearization of Germany which might result from future short-range nuclear arms control agreements between the superpowers.

A NATO-Europe nuclear force would also be a logical and essential step forward in the currently on-going process of increased defence cooperation among Western Europeans, and notably France and Germany. Otherwise, their bilateral efforts, of which the joint Franco-German brigade created in 1987 is a symbolic prototype, are bound to hit a dead end. As the size and scope of such joint forces are expanded, the issue of nuclear weapons will inevitab­ly arise. The question of who will ultimately control those joint forces will then be increasingly difficult to avoid.

SACNEF would command exclusively nuclear forces. This would allow him to concentrate attention on the manage­ment of a purely retaliatory mission, which would greatly simplify the nuclear decision-execution process. It would also relieve dual-capable commanders from the burden of having to worry about the cumbersome security and safety regulations that come with nuclear missions.17 Nuclear-conventional separation would also make it possible for the NEF not be integrated with the military structure of NATO's other supreme commands,18 which would make it easier for the French to participate without renouncing their prerogative of remaining outside the NATO structure.

The range of NEF systems should also be sufficient to reach Soviet territory, so as to reduce the perceptions of "calculability" of a war in Europe, thus providing additional coupling between the US and NATO-Europe. In order to avoid an unacceptable return to a trip-wire strategy, however, SACNEF would best be backed by conventional forces under SACEUR's command, sufficient to hold the line long enough until negotiations could terminate hostilities. Thirty days has been suggested as a desirata for NATO's conven­tional defensive capabilities for this purpose.19

The question of the relationship of the NEF to the US interests and nuclear posture in NATO Europe is a delicate one. The former might worry that the latter was prepar­ing a scheme to draw it into nuclear escalation against its will. This would not be the case; to avoid misunderstandings, the strategy of the NEF would leave it to the US to shoot the first nuclear strike on the NATO side, without which SACNEF could not launch. Secondly, it would be rather odd, and politically difficult, to create a NATO command without any participation of US forces; but the NEF, by definition, would include no US nuclear warheads. Should the US so desire, some American manned delivery systems could be assigned for European warheads in the NEF--a reversed "dual-key" arrangement.

Third, the command and control network of the NEF should remain tied to the current US/NATO apparatus. This would preclude unnecessary duplica­tions and expenses and, what is most important, the network's vulnerability would strengthen the coupling of the force with the rest of the NATO forces and the national forces of the US, whose central C3I is dependent on numerous facilities either located in Europe or dedicated to NATO.20 However, since the Europeans would be using an increased part of the system's capability, it would be fair for them to contribute a larger share of its cost. A necessary addition might include a survivable, perhaps airborne, command post, from which SACNEF would be able to order the launch of the force.

The Seat of Authority Perhaps the most contentious issue in the creation of the NEF would be to decide who would command it and with what powers. The nationality of SACNEF could be rotated among generals from several of the European allies who would express an interest in the position. France and the UK would be the most obvious candidates, at least in the initial years, for their holding the top post would be essential to make the whole idea acceptable in the domestic political scene of those countries. The subordinate commanders to SACNEF would be from interested countries, including the US and Canada, as would the personnel manning the nuclear delivery vehicles. This would ensure that no country in addition to the current nuclear-weapon states would, under any circumstances, acquire the capability to unilaterally use the force without the active cooperation of the others.

SACNEF, more than SACEUR today, should have day-to-day authority to mobilize and alert forces, but not to launch them. This would simplify decision-making in times of crisis, and help overcome likely initial political hesitancies among some of the allies, without however raising the prospect of politically unauthorized nuclear use. Mobilization during crises could be a problem if the opponent should perceive it as a step toward war. However, in the case of the submerged and undetected NEF, mobilization would entail virtually no visibility, and should not therefore precipitate Soviet reactions. In order to make this possible, NEF person­nel, much like today's Allied Mobile Force is for SACEUR, should be permanently assigned to SACNEF's command.

Needless to say, it would be extremely damaging if the US should perceive that the Europeans wanted to manipulate the possibility of unauthorized use as a means to increase the probability of nuclear escala­tion in a conventional war. However, SACNEF would be delegated authority to use forces only in all cases of confirmed nuclear strikes, even the most limited one, against any of NATO's members. That such confirmation would come through the NATO-wide warning system, of which the US and Canada are also a part, would be at the same time both a further instrument of transatlantic coupling and a way to reassure the US (and Canada) that they would not be drawn into nuclear escalation in Europe against their will.

Similarly to what happens in NATO's European Command today, the capability to activate the forces, i.e. the warhead release codes, would be in the custody of SACNEF at all times,21 both to ensure delivery in case of incapacitation of the relevant NCAs and to smooth execution procedures. The custodial units of the NEF would be vertically integrated with the force (i.e. it would be completely separated from other NATO nuclear custodial units) and they would be internationally manned as well, so that there would be no danger of any single alliance member acting unilaterally.

Strategy The main goal of the NEF should be to strengthen the deterrent role of nuclear weapons in an evolving strategic situation in Europe in which the threat of massive Soviet attack is giving way to that of more limited wars. In brief, the purpose of the NEF, in an era of arms reductions and politi­cal instability in Eastern Europe, would be to add credibility to the NATO deterrent and thus stress the unusability of war as an instrument of policy in Europe.

The doctrine and operational strategy of the NEF should be drawn somewhat along the lines of the "inflexible response" suggested by François de Rose. He suggested that NATO build its conventional forces to withstand an attack only for a period--perhaps several weeks--sufficient to explore possibilities to terminate the war without returning to a trip-wire strategy. Failing that, NATO should use nuclear forces in a strictly tactical fashion, against Soviet forces either on or near NATO territory. However, if the Soviets still not stop aggression and respond instead with their own nuclear weapons, then NATO should escalate to nuclear strikes against Soviet territory itself, thus bringing the risks and costs of war to the homeland of the aggressor. de Rose proposes that the final escalatory step against the USSR should be taken by the US.22

The well-known problem here is that, while a US tactical use of nuclear weapons in the battle areas of Europe might be credible, US control would likely prevent NATO from escalating to the point that the USSR would no longer have any incentive for refraining from striking the US itself. If it is to be a credible NATO doctrine, therefore, inflexible response would have to be backed by European control of forces capable of reach­ing the USSR, as only Europeans might credibly risk Soviet strategic responses even after Soviet limited nuclear strikes against their territory. Therefore, the European SACNEF should be authorized to launch, though only after confirmed Soviet nuclear attack against NATO territory.

That SACNEF should not launch his forces until after the Soviets have in no way implies a "No-First-Use" pledge. But it does mean that the decision of NATO's first nuclear use would be left to the present-day nuclear powers, and not to SACNEF. This would guarantee that no new peacetime nuclear triggers would be created in Europe. In the end, the threat of US tactical nuclear first use against advancing Soviet forces--a relatively credible one--should be maintained. In addition, the Soviets would have to account for a pan-European strategic response if they in turn use nuclear weapons.


Conclusions

Increased European nuclear use control within the integrated military structure of NATO in the form presented in this study would have several positive consequences. First, it would strengthen and stabilize deterrence of any war in Europe providing for a nuclear force which would ensure a high likelihood of escalation, and hence a credible deterrent, even against limited aggression. By increasing the credibility of NATO's deterrent, it would strengthen the case for caution in any potential future crisis. In doing so, the NEF would reverse the trend toward NATO's conven­tionalization of its defense posture, which is leading toward a greater degree of warfighting options in Europe. To this end, the doctrinal rationale behind NEF should be made clear to all allies and potential adversaries alike: keeping it secret or ambiguous would defeat its pur­pose. NATO has often argued that doctrinal ambiguity is useful in that it increases uncertainty, but this justification is not a logical one. Ambiguity is useful only when clarification reveals either indecision or disagree­ment over diverging strategic interests. Otherwise, it can be argued that certainty of unacceptable costs would deter more. The NEF would not achieve deterrent certainty; nothing could. But it would come closer to it than today's arrangements.

Second, an NEF would put one more bridle on the potential resurgence of national nuclear weapon ambitions in Europe and reduce the pressure which might mount against the nonproliferation regime in the face of gradually decreasing US nuclear commitment in Europe. The non-nuclear nations of NATO Europe have long disappeared from the list of the so-called "threshold" countries which threaten the current nonproliferation regime, but they might join that list again if they should perceive that the US continues to decrease the nuclear emphasis of its commitment in Europe in a situation of growing political instability around the continent.

In conclusion, a NEF, while not a panacea for the problems of nuclear deterrence in Europe, would address all of the traditional main European concerns about nuclear deterrence--with respect to strategy, organization, coupling and cost. At the same time, it would not pose any provocative threat of aggression to the Soviets, and thus it would not be a cause for a deterioration of East-West relations.

The most important aspect of the NEF is that it would respond to the numerous US calls for NATO Europeans to assume greater responsibility for the defence of their own territories. While the US has usually referred to the need for greater European defence expenditures, Washington must realize that as the post-war scenario of a Europe in ruins, completely dependent on the US for its security fades definitively away, Europeans also need to acquire greater responsibilities for their own defence. On their part, and for the same reason, Europeans must realize that the strategic sustainabil­ity of nuclear free-riding has gradually but steadily been fading for many years now. In fact, it began to wither away almost immediately after it was instituted.

In the post-Cold War era Europeans must still grapple with the issue of a nuclear USSR at their side. The eventual inclusion of former Easter European satellites in Western European political and economic mechanisms might actually contribute to bring the Western-USSR border closer to the West. If both nuclear proliferation and denuclearization are to be avoided, NATO Europeans must now make a new concerted effort to assume greater nuclear responsibilities.


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1This paper is a revised version of a chapter of the author's Ph.D. dissertation, completed at the Center for International Studies of the Massachusetts Institute of Technology 1989. For useful comments and criticism on earlier drafts of this paper, the author is indebted to George Rathjens, William Griffith, Jack Ruina, Carlo Jean, Stefano Silvestri, Trevor Taylor, Harald Müller, Sean Lynn-Jones, Guido Lenzi, Roberto Zadra, Ettore Greco and Guido Venturoni.

2Kaiser, Karl: "Why Nuclear Weapons in Times of Disarmament?", in The World Today, Vol. 45, No. 8-9, August/September 1989, p. 136.

3Yet, there are some analysts who argue that German control is needed for an effective deterrent. See Treverton, Gregory: Making the Alliance Work (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1985), p.158. Others take an even more extreme view and argue that not only is German control necessary, but it is necessary outside of the current alliance framework. One analyst suggests that it would be advisable to give nuclear weapons to the FRG after dissolving the alliance so as to push Bonn, Paris and London closer into nuclear cooperation arrangements. See Layne, Christopher: "Atlanticism Without NATO", in Foreign Policy, No. 67, Summer 1987. Another, less extreme, proposal is outlined in Garnham, David: "Extending Deterrence With German Nuclear Weapons", in International Security, Vol. 10, No. 1, Summer 1985, p.108. These views, however, are rare, at least for the time being. Their adoption, at present highly unlikely, might have major destructive repercussions on the political cohesion among the allies.

4In recent years, the anti-nuclearism of the Social Democrats seems to have somewhat softened. While still advocating nuclear disarmament in the long term, they would support, for example, a shift to a sea-based deterrent in the shiort term. See Asmus, Ronald D.: "West Germany Faces Nuclear Modernizat­ion", in Survival, Vol. XXX, No.6, November-December 1988, p.508.

5Stockholm International Peace Research Institute: Yearbook of World Armament and Disarmament 1968/69 (London: Taylor & Francis, 1978), p. 160. For the text of the Italian reservation, see Text of the Italian Declara­tion to the UN General Assembly, 12 June 1968, reprinted in Bettini, Emilio (Ed.): Il Trattato Contro la Proliferazione Nucleare (Bologna: Il Mulino, 1968), p.129. For an Italian parliamentary resolution which explicitly underlined "the necessity that [with Italy's accession to the Treaty] the possibility for collective control of nuclear weapons [among members of the European Community] should be guaranteed", see the Text on the Non­proliferat­ion Treaty approved by the Italian Chamber of Deputies on 26 July 1968, reprinted in Bettini (Ed.): op. cit., p.139.

6Personal communications.

7Burrows, Bernard and Geoffrey Edwards: The Defence of Western Europe, (London: Butterworth, 1982), p.76.

8Bull, Hedley: "European Self-Reliance and the Reform of NATO", in Foreign Affairs, Vol. 61, No.4, Spring 1983, p. 848.

9At least since 1976 France has begun talking about an "enlarged sanctuary", which erodes the originally purely national rationale for the force de frappe. See Lellouche, Pierre: "The Transformation of NATO: Parallel European Cooperation" in Broadhurst, Arlene I. (Ed.): The Future of European Alliance Systems, (Boulder, CO: Westview, 1982), p.100. This is now a matter of consensus in France. The consensus has consolidated itself also at the government level, as demonstrated by Defense Minister Chevènement's declaration, in January 1990, that with greater European political unity the "vital interests" of France will cover an expanded geographical area beyond its borders. See "Non-accès de l'Allemagne aux armes nucléaires", Le Point, 8 January 1990. The author is indebted to an anonymous reviewer for pointing this out to him.

10For example, see Gliksman, Alex: "Three Keys for Europe's Bombs" in Foreign Policy, No. 39, Summer 1980, for a proposal to establish a "triple-key" arrangement involving both nuclear and non nuclear allies; an idea for a multilateral force with majority voting for launch is proposed by Robinson, David: "A European Coordinated Force", in Orbis, vol. IX, No.3, Fall 1965.

11Thus, in addition to its primary mission of increasing the credibi­lity of the NATO nuclear deterrent in Europe, the NEF would provide a kind of reverse extended deterrence for the US and Canada as well. While the size of the US arsenal would make this European guarantee little more than a merely symbolic measure, it would nonetheless be an important one, for two reasons. First, it would underline the basic principle of collective security in NATO at a time when the creation of the NEF would put it under questioning. Second, it would likely serve to buy some public and congres­sional support for the NEF in the US.

12One possibility would be to have a force of, say, six submarines, at least two of which would be at sea at all times with sixteen missiles each. Assuming an average of six warheads for each missile, this would result in one-hundred and ninety-two warheads. Subtracting an average twenty percent failure rate, about one-hundred and fifty warheads would reach their targets. (2 on-station-subs x 16 missiles x 6 warheads - 20% failure = 150 warheads.) I am indebted to Dr. Trevor Taylor for this calculation.

13Lellouche, Pierre: "The Transformation of NATO: Parallel European Cooperation" in Broadhurst, Arlene I.: The Future of European Alliance Systems, op. cit., p.108.

14Several European NATO members, upon acceding to the treaty, reserved the right to participate in a European nuclear force should one be created in the future as a step toward the creation of a West European political entity as a successor to the French and British national forces. See Ducci, Roberto: "Tentativi e Speranze di Una Forza di Dissuasione Europea", in Affari Esteri, Anno XIII, No.52.

15Smart, Ian: Future Conditional: The Prospect for Anglo-French Nuclear Cooperation, Adelphi Paper No. 78, (London: International Institute for Strategic Studies, 1971), p. 15-16.

16Joshua, Wynfred and Walter F. Hahn: Nuclear Politics: America, France and Britain, The Washington Papers, No. 9, (Beverly Hills, CA: Sage Publications, 1973), p.67.

17Sandoval, Robert: Tactical Nuclear Weapons: Dilemmas and Illusions, unpublished manuscript, 1985, p.292; Kaufmann, William W.: "Nuclear Deterrence in Central Europe", in Steinbruner, John D. and Leon V. Sigal: Alliance Security: NATO and the No-First-use Question (Washington, DC: Brookings Institutions, 1983), pp.41-42; interest­ingly, this thesis is supported also by some analysts who do not favor relying on nuclear weapons. See for example Halperin, Morton: "Deterrence Cannot Rely on Nuclear Arms", in International Herald Tribune, 29 June 1987.

18The only exception might be a common early-warning system and some common communication facilities. In this case, economies of scale would probably make the cost of dedicated systems a prohibitive one.

19Senator Sam Nunn, Chairman of the US Senate Armed Services Commit­tee, has suggested that if conventional forces were able to hold the line for a period of thirty days this would be an adequate time buffer to avoid using nuclear weapons too early. See interview in The International Herald Tribune, 15 February 1988, p.2. The same parameter value could be agreed to by the Europeans to be a reasonable nuclear threshold for SACNEF as well.

20In fact, it has been argued that the chances of escalation to all-out war of a war in Europe might be reduced by separating to the extent possible the US C3I network from NATO's. On the other hand, keeping the integration of the NATO European C3I network with that of the US will increase the likelihood of such escalation and therefore improve coupling. See Ball, Desmond: Controlling Theater Nuclear War, Working Paper # 138, Strategic and Defence Studies Center (Canberra: Australian National University, October 1987), p.37.

21Neither NATO nor the US have officially confirmed that US warhead release codes are under US custody in Europe, but this was the unanimous opinion among a number of current and former NATO officers interviewed by the author.

22de Rose, François: "Inflexible Response", in Foreign Affairs, Vol. 61, No.1, Fall 1982, passim; see especially p. 143ff.


This article was first published in "Orbis" in 1990.