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27 July 2011

Book Review: First Shot - The Untold Story of Japanese Minisubs That Attacked Pearl Harbor, by John Craddock, ****

Synopsis
America’s first shot of World War II was fired by a worn-out World War I destroyer. An hour before the Japanese attack on Pearl Harbor, the U.S.S. Ward hit its mark - a tiny but lethal Japanese submarine - but no one heeded the captain’s report. Before the morning was out, more than 2,400 people were dead, thousands more were wounded, and more than 100 American warships were destroyed or crippled. What became of the Ward’s message?

21 May 2010

Recensione: Storie di New York, di Alessandra Mattanza, ****

Sinossi
Una New York che non si può dimenticare, capace di entrare nel sangue e scendere profondamente nell'anima. Un banchiere sull'orlo di una crisi di nervi, in piena crisi finanziaria, si accorge di aver perso letteralmente la testa. Una fotografa che si nutre della malinconia dell'uomo che ha perduto per sempre. Un romantico medico che spera un giorno di diventare musicista. Una giornalista che finisce per trovare un momento di consolazione in una sconosciuta incontrata sulla lista di Craiglist. E, come loro, tanti altri: anime alla deriva che formicolano tra grattacieli, strade, stanze di appartamenti, salotti , bar, locali e situazioni. Sono tutti, inconsapevolmente, alla ricerca dell'amore. Ma quel sogno, il sogno americano, in fondo non esiste. Una New York reale e attuale, inedita e talvolta sconcertante quella che viene descritta in queste pagine crude e sincere, forse amare, ma incredibilmente vere. Una New York borderline , al limite, uno specchio crudele della crisi di un'intera società, oltre che di un capitalismo economico che sembrava invincibile.

09 March 2010

Partire, tornare o ...viaggiare? Ali e radici della mia vita fino ad ora.

Vivo a Bruxelles. Perché? Ne parlavo con il mio amico Marco De Andreis, che ci ha vissuto anche lui fino a qualche anno fa. Forse me ne andrò un giorno, ma non sarà, credo proprio, per tornare a Roma come ha fatto lui. Come Marco, anche io detesto Roma quando ci sto. A differenza di lui però, la continuo a detestare anche quando non ci sto.

Quando ci vado mi spazientisco per mille ragioni, e non vedo l'ora di ripartire. Il momento più bello delle mie visite è la corsa in taxi o trenino verso l'aeroporto. Allora mi rilasso, e penso che anche questa volta l'ho sfangata. Bruxelles, si capisce, non ha neanche un centesimo dei tesori d'arte di Roma, e neanche il sole, e neanche i prodotti freschi al mercato a prezzi bassi, e neanche il mare caldo d'estate a pochi chilometri di distanza d'estate, e neanche le montagne per sciare a pochi chilometri di distanza d'inverno e neanche la pajata, l'amatriciana e la coda alla vaccinara.  

E allora? Perché preferirla? Perché Bruxelles è più ordinata, vivibile, culturalmente attivissima, a dimensione d'uomo, e soprattutto cosmopolita quanto Roma è provinciale.

Insomma sono destinato a restare un emigrante per sempre? E perché no?

Ho passato dieci anni negli USA, cominciando con quattro alla School of Foreign Service della Georgetown University dove ho conseguito con la lode una laurea in relazioni internazionali (studiando politica, strategia, economia, diritto internazionali, allora in Italia non esistevano università che se ne occupassero).

Durante quel periodo passai anche alcuni mesi in Polonia, quando c'era il comunismo, e li racconto in questo libro.

A quel punto mi sono convinto che quanto avevo appreso negli States sarebbe stato utile al mio paese (vero) e quindi apprezzato dai miei compatrioti (non sequitur). In Italia, sul piano professionale, ero oggetto di invidia e non di stima e tanto meno di ammirazione.

Andai all'università di Roma per farmi riconoscere il titolo di studio, ma con la mia laurea un arcigno professore della facoltà di Scienze Politiche mi disse che poteva iscrivermi al terzo anno. Cominciamo bene, mi dissi, ma non mollai.

Tornai in USA e dopo sei anni al M.I.T., completai un corso di Dottorato di Ricerca (Ph.D.) in studi strategici (anche questi, allora, non c'erano da noi). Nel frattempo avevo lavorato - cosa che gli studenti universitari in America fanno sempre, anche se non ne hanno bisogno - prima con mansioni più semplici e poi via via come assistente, ricercatore ed infine insegnante.

A 26 anni di età tenevo al M.I.T. il primo corso universitario tutto mio sulla proliferazione nucleare, con nome, cognome e stipendio miei. Mi invitavano a conferenze in tutta America,  pubblicavo i miei primi articoli (con il mio nome e cognome, mai e poi mai un professore si sarebbe sognato di metterci il suo). Già prima di finire il dottorato ero, per così dire, entrato nel giro, e da solo, senza conoscenze, parentele o amicizie con chicchessìa.

Decisi comunque di riprovare in Italia. Non presso l'università pubblica, dove non avevo alcuna speranza di entrare nelle roccaforti del baronato, ma in una fondazione privata. Insistendo molto riuscii ad  intrufolarmi per la porta di servizio nel principale istituto internazionalistico italiano, l'istituto Affari Internazionali, dove imperava ed impera ancora (2010) un'oligarchia ferrea ivi installatasi alla fine degli anni sessanta (sì, sessanta!). Apprezzavano il mio lavoro e mi pagavano benino, ma ero sempre il ragazzo di bottega da tenere, appunto, in bottega, e non il giovane collega da lanciare in pista.

Cercai appigli anche presso altri centri di studio, che però in Italia erano di due tipi: alcuni legati a personalità singole, solitamente geriatriche, anzi direi da museo di storia naturale. Una volta presso una fondazione politica romana intestata a Ugo La Malfa, un dirigente ultra settantenne, ex ministro, mi disse che stava alla loro generazione prendere le decisioni importanti, non ai quarantenni idealisti che pretendono di cambiare il mondo. Non potevo credere alle mie orecchie, ma ci dovevo credere.

Mi veniva da pensare che in realtà il mondo negli ultimi decenni lo hanno cambiato i trentenni se non i venticiquenni: Bill Gates, Steve Jobs, Tim Berners-Lee, Jeff Bezos negli anni ottanta e novanta e Jim Wales, Larry Page, Sergey Brin, Mark Zuckerberg e loro simili più recentemente. Avrei dovuto dirlo al vecchietto ex ministro, ma mi trattenni.

Altri centri studi erano invece legati a filo doppio ai partiti politici, con una loro linea ben precisa di politica estera. Né dai fossili né dagli apparatchiki ebbi mai la possibilità di pubblicare. Qualche volta andai in televisione come “esperto”, ma solo perché avevo un amico alla RAI, non perché qualcuno apprezzasse quello che avevo da dire.

Provai anche presso una prestigiosa università privata di Roma, la LUISS, ma un altro ultra settantenne che teneva corsi nelle mie materie mi offrì un contratto di insegnamento che mi pare si chiamasse "integrativo": in pratica il professore di ruolo decideva il curriculum, faceva un paio di lezioni, restava titolare del corso e prendeva quasi tutti i soldi, mentre io avrei dovuto fare tutto il resto: lezioni, esami, colloqui con gli studenti ecc.

Dovunque ero considerato il “junior”, il ragazzino di bottega. Dopo un po' di anni di questa deprimente trafila ero pronto a ripartire.

Feci un concorso di medio livello per il segretariato internazionale della NATO, lo vinsi e mi trasferii a Bruxelles. Ci passai oltre sette anni e ne fui gratificato, professionalmente ed economicamente, anche se il lavoro col tempo diventava ripetitivo. Poi siccome allora i contratti dei funzionari erano tutti a tempo determinato dopo due rinnovi mi rimisi a cercare. Provai a restare alla NATO. Per superare la routine feci vari concorsi per posti un centimetro più alti di quello che avevo, ma siccome a quel livello la cosa diventava politica, ed io dietro di me avevo un non-paese che non mi sosteneva, non ci riuscii. Mi disturbava vedermi passare davanti stranieri meno capaci di me solo perché i loro governi, i loro ministeri, si davano da fare per sostenerli ed i miei no.

Ebbi comunque varie offerte di lavoro, soprattutto nel settore privato (da tedeschi, americani, perfino indiani, ma mai da italiani) che mi hanno continuato a trattenere qui a Bruxelles. Che non sarà un capolavoro architettonico o urbanistico, ma ci si sposta abbastanza facilmente, si parcheggia ovunque e le macchine si fermano al semaforo rosso e alle strisce pedonali, che puoi attraversare ad occhi chiusi... 

E poi è una città che si trasforma, vive. Molte brutture degli anni sessanta stanno sparendo per dar spazio a moderni palazzi di indubbio gusto e funzionalità. Come del resto vivono e cambiano le grandi città: Parigi, Londra, Berlino, non Roma.

Morale: ho fatto male a lasciare gli States? Professionalmente sì, di sicuro. I miei compagni di università del M.I.T., anche europei, che sono rimasti là, magari diventando cittadini americani, sono professori, amministratori delegati, ambasciatori, direttori di istituti. Ci tornerei? Non credo, non mi piacciono le minestre riscaldate. E poi da “junior” che ero, in quattro e quattr'otto ormai sono diventato un “senior”, anzi di più, insomma troppo vecchio per ricominciare una carriera. Non so come ma non ho mai avuto l'età giusta! 

Non ho figli, che io sappia, ma se ne avessi gli consiglierei di guardarsi bene intorno tous azimouts prima di decidere alcunché. Di imparare svariate lingue straniere. In Italia siamo un disastro con le lingue e la cosa ci danneggia enormemente. E poi di non fermarsi mai troppo tempo nello stesso posto, né geografico né professionale. Di essere curiosi ed avere il coraggio di rischiare ma senza fare i Don Quixote della situazione e meno che mai i Sancho Panza.

Restare per sempre a Bruxelles dunque? Forse, anche se dopo quindici anni si è esaurito un po' l'effetto novità, la curiosità. Ma allora dove? Potendo scegliere, andrei in Asia, in una cultura diversa, ricca, nuova e per questo stimolante, in un paese che si stia costruendo un futuro, possibilmente democratico, e che non viva del fatto che i problemi non si risolvono “si pperò noi c'avemo er Colosseo”. Se avessi uno straccio di spunto, una opportunità lavorativa, una partner, lo farei subito. Tanto la pasta c' 'a pummarola 'n coppa, grazie alla globalizzazione, si trova dovunque. E forse lo farò comunque, anche senza lo spunto. Per invecchiare lì?

Non necessariamente, e qui vengo alle considerazioni finali: si parla tanto di identità, di radici, ma io non sento veramente di averne: sono italiano, ma mi sento anche molto americano, un po' scandinavo, un po' mitteleuropeo. E c'è tanto mondo da godersi nei così pochi anni che ci stiamo. Penso che potrei diventare anche molto indiano o cinese col tempo. In fondo il futuro è in Asia orientale, che piaccia o no.

Per poi magari andare a morire su qualche isola tropicale - tanto oggi c'è internet e di Robison Crusoe non ce ne sono più, e si può fare quasi tutto quasi dappertutto. E meno male.

Più che radici, preferisco avere ali.

20 February 2008

Film review: Apollo 13 (1995) by Ron Howard, *****


testo italiano a seguire

Synopsis

Ron Howard's Oscar-winning take on the Apollo 13 story. The mission, manned by astronauts Lovell (Tom Hanks), Swigert (Kevin Bacon) and Haise (Bill Paxton), starts out as a routine spaceflight which generates little media interest. But all that changes when an oxygen tank explosion cripples the ship and prompts the immortal line, 'Houston ... we have a problem'. Now Lovell and his crew have to struggle to keep going, while at Mission Control their colleagues Kranz (Ed Harris) and Mattingly (Gary Sinise) do everything they can to bring them home.


Review

Can a lunar mission be considered "travel"? I think so! Masterful interpretation by Tom Hanks and the other protagonists, and great direction. The movie marries human pathos for the human drama with an accurate documentation of the real events and its tecnological nuances. Excellent special effects considering the technolgy available in 1995. I was especially struck by the simulation of the absence of gravity via zero G flights that allowed sequences of only a few seconds at a time to be filmed.
The crew of Apollo 13from left – James A. Lovell, Jr, John L. Swigert, Jr., and Fred W. Haise, Jr.

The viewer is led to live through the adventure of a lunar trip, an exceptional event even though at the time (this was the third planned manned landing) it had come to be considered routine... until the accident, that is!
A passionate movie on an episode that today is famous only because the three men almost met tragedy. To me it taught the superficiality of many journalists who look for news only when danger looms. But also the morbid character of much of the TV audience, that is looking for excitement in danger and accidents, a bit like those who only watch car racing when someone dies as if it were a goal scored ina soccer match.

Excellent extras on the history of the Apollo program and interesting interviews with the real astronauts among others.



Sinossi

L'11 aprile 1970, il gigantesco razzo vettore Saturno V viene lanciato da Cape Kennedy e mette in orbita terrestre tre astronauti: il veterano Jim Lovell, comandante della spedizione, il pilota del modulo di allunaggio "LEM" Fred Haise, il pilota del "modulo di comando" Jack Swigert che, alla prima missione come Haise, è dovuto subentrare all'ultimo momento al collega Ken Mattingly, impedito per motivi di malattia. Il volo procede regolarmente e gli astronauti si apprestano a discendere sulla Luna: improvvisamente una forte esplosione, seguita da un subitaneo calo di pressione in uno dei serbatoi di ossigeno liquido del "modulo di comando", mette in allarme l'equipaggio e il centro di controllo diretto da Gene Kranz. Nessuno capisce cosa sia successo, e la missione deve in breve essere trasformata in un rischioso recupero, con il "LEM" divenuto una sorta di scialuppa di salvataggio cosmica, da cui i tre osservano con malinconia la Luna, mentre le ruotano attorno per ritornare sulla Terra. Le televisioni, disinteressate al momento del lancio, ora trasmettono moltissimi servizi sul pericoloso recupero. Mattingly viene convocato d'urgenza per simulare a terra tutte le manovre possibili nel "modulo di comando" per risparmiare energia e facilitare l'ammaraggio. Al dramma in cielo si aggiunge quello in terra dei familiari. Tutte le nazioni offrono il loro aiuto agli Stati Uniti. Anche il pontefice Paolo VI prega in piazza San Pietro per i tre uomini che devono affrontare anche lo stress del freddo, dovuto al risparmio di energia imposto da terra, e devono improvvisarsi artigiani confezionando un rudimentale filtro al litio per ridurre il tasso di anidride carbonica, salito a livelli intollerabili. Dopo aver per l'ultima volta acceso i motori del provvidenziale "LEM", per allinearsi con la Terra per il rientro, si trasferiscono nella capsula. Espellendo il "modulo di comando" vedono finalmente il danno: un intero pannello è saltato per l'esplosione. Capiscono, prima di ammarare regolarmente, quanti rischi abbiano corso.


Recensione

Una missione spaziale verso la luna può essere considerata un viaggio? Direi proprio di sì!

Interpretazione magistrale di Tom Hanks ma anche dei suoi colleghi e ottima regia. Il film coniuga perfettamente il pathos umano per il dramma che si svolge con una documentazione accurata degli aspetti tecnologici della vicenda. Ottimi effetti speciali per la tecnologia del 1995, e mi ha colpito in particolare come abbiano simulato l'assenza di gravità con voli a zero G che permettevano di filmare sequenze di solo una ventina di secondi per volta.

L'avventura di un viaggio verso la luna, in sé un fatto eccezionale che però al tempo (era la terza missione a prevedere un allunaggio umano) venne vissuta, anzi trascurata, fino al momento dell'incidente. Un film appassionante su una vicenda oggi famosa che tale non sarebbe stata se non si fosse sfiorata la tragedia. La vicenda di Apollo 13 mette a nudo la superficialità di tanti giornalisti che cercano la notizia solo nella tragedia. Ma anche di quel tipo di pubblico che vuol vedere gli incidenti come se fossero i gol di una partita.

Eccellenti gli extra sulla storia del programma Apollo e le interviste ai veri protagonisti della vicenda.

07 August 2007

4° g - 7 AGO: LOS ANGELES, relax e passeggiata

Giornata tranquilla, a spasso per Marina Bay, uno snack americanissimo in un locale sul mare, poi nel tardo pomeriggio ci mettiamo in strada per l’aeroporto.

Il volo Air New Zealand parte in orario. Controlli minuziosi ma gli impiegati della sicurezza cercano di essere gentili e non farlo pesare più del necessario. Con il calare della notte siamo in volo sul Pacifico!

06 August 2007

3° g - 6 AGO: LOS ANGELES, Hollywood Studios

Giornata negli enormi studios hollywoodiani. Per me era la prima volta, molto interessante e divertente! Più America di così non si può!

C'è un sacco di gente  ma la cosa non ci crea problemi, per fortuna ho comprato biglietti top of the line o qualcosa del genere per cui si paga un po' di più ma non si fa mai la fila, basta semplicemente andare davanti a tutti!

Per finire la giornata passeggiata sull'isola pedonale della 3rd Street Promenade, a Santa Monica. Negozi, ristoranti, giocolieri, improvvisate scuole di tango lungo i vialetti, una bella atmosfera. Vedo per la prima volta un iPhone, in un Apple store mi ci fanno giocare per un po'...

05 August 2007

2° g - 5 AGO: Los Angeles, Getty Museums

Prevedibile sveglia molto presto a causa del fuso orario. Vado ad affittare un minibus da un car rental vicino all’alberto e partiamo con i miei compagni di viaggio per la Getty Villa. Facile girare per Los Angeles, oggi poi non c’è traffico, ed in poco tempo arriviamo a destinazione. Siamo accolti da personale gentilissimo che sorridendo ci indica il parcheggio sotterraneo.

04 August 2007

1° g - 4 AGO: In volo per Los Angeles, perché Tonga, icebergs

Viaggio alla scoperta del Regno di Tonga, archipelago polinesiano tra le Figi e Samoa ed unica nazione a non essere mai stata colonizzata nel Pacifico meridionale. Tonga è una destinazione spesso trascurata, o visitata magari in abbinamento alle Fiji. Invece vale la visita anche da sé: il mare con le balene che ti nuotano accanto, gli atolli paradisiaci, la cultura antica, la gente pacifica e i bizzarri stranieri che qui si sono installati... ce n'è per settimane!

Tappa in andata a Los Angeles, per spezzare il volo lunghissimo e per godere di quanto questa città a volte trascurata ha da offrire, con programma di visite a Hollywood Universal Studios, Getty Museum e Villa, passeggiate a Venice Beach.

19 June 2007

Recensione: Nagasaki Per Scelta o Per Forza, di Fred Olivi, ****

Fred Olivi in his B29
Sinossi

Oscurata per più di cinquant'anni dalla più nota missione dell'Enola Gay su Hiroshima e dalle poche e cattive informazioni diffuse e coperte da segreto militare, la missione del B29 Superfortress "Bockscar", compiuta il 9 agosto 1945 su Nagasaki, è rimasta fino a oggi quasi sconosciuta. Scritto dal copilota del "Bockscar", Luogotenente Colonnello Fred J. Olivi, italo-americano di prima generazione, "Nagasaki per scelta o per forza" rivela i veri dettagli legati alla Missione 16, le fasi segrete dell'addestramento e i dati sull'impiego di "Fat Man", la bomba atomica al plutonio tre volte più potente di quella all'uranio sganciata su Hiroshima pochi giorni prima.


01 December 2005

Una corrispondenza formativa

1 dicembre 2005

ELEONORA
Ciao Marco ben trovato. Mi ricordo sempre con piacere del nostro viaggio in India. T'avverto che è un e-mail lunghissima, di recupero per tutte quelle non mandate (e le future).

Dopo il nostro viaggio sono andata in Etiopia fatta in settembre-ottobre alla faccia della fama delle carestie che la piegano, è inaspettatamente veeerdeee, praterie immense piene di bestiame montagne panorami..e una marea di gente per strada che cammina, molto povera. Di contro Addis Abeba è abbastanza moderna più di altre capitali africane che ho visto. A Settembre-ottobre lì è inverno si è sempre in altitudine e fa freddino, lo dico perchè uno, parte per l'Africa in braghini e canottiera figurati che caldo fa poi si ritrova a gelare, questo nel nord, a sud fa caldo. Non è una novità che l'Etiopia è uno dei paesi africani più interessanti da vedere. 
E' fotograficamente un potenziale ma è molto faticoso..è peggio dell'India per via di richieste di birr (soldi) a baratto delle foto, ti esasperano davvero e tanto tengono allenata la pratica del pretendere pretendere pretendere dai turisti tutti Onassis per loro, che è davvero difficile scattarle prima della posa. Perciò spesso prendevo il mio cessino di Nikon e la mettevo in custodia. Ciò che mortifica davvero è la mentalità d'assistenzialismo da paese che così proprio non ne uscirà mai da una povertà che ti intristisce e sconcerta fino al midollo. C'è pure un bel po' di mafia. Questo in tutto il terzo mondo? Sì, qui è manifesto. E' un paese tutto bello, grande e si sta molto in macchina. Bisognerebbe cercare di andarci in gennaio per le feste religiose di etiopia storica, meno frequentate, il sud è veracemente tribale perciò battutissimo tutto l'anno. La parte più ..più è dove nessuno va, la parte est musulmana verso la dancalia (zone di Hafar). L'Etiopia non è il Sudafrica o la Tunisia..è l'Africa Africa.
A proposito di Africa Africa, sono stata in Burkina a Ouagadougou in missione nel '96 5 settimane nei dispensari dei camilliani ed ho fatto il niger (Bororo-Tuareg) ergo, Togo-Benin-Burkina non può che essere nei primi posti per la voglia di andarci; forse ci andremo con Patrizia con il solito gruppo con cui viaggio in febbraio-marzo-aprile-maggio ma è troppo presto per saperlo, diciamo che è uno dei posti dove ci siamo detti ci piacerebbe andare l'anno prossimo.
In Etiopia ci sono andata con XXXXX... io i cognomi li trascuro proprio da subito. E' simpatica, in gamba, viaggia in genere con un gruppetto suo tant'è che non sempre pubblica i viaggi sul sito e lavora per avventure. Semmai ti dirò l'esatto cognome se ti interessa.
Sei venuto fuori nei nostri discorsi perché ti conoscono in quel giro. Guarda che chiacchierando ho parlato bene di te. Ti dico queste cose perchè poi conoscendoti non lo sei e magari sai se bazzichi ad avventure è buona cosa saperlo. Cosa? questo: hai dato ad avventure (velatamente con l'ombra del dubbio che ad avventure c'è per fortuna..) un'impressione un po' da sapientino un po' snob e certo non aiuta fare discorsi segnatamente di destra filo politica estera americana a chi ti conosce poco, quando non hai un tempo di conversazione sufficiente per spiegare e raccontare da dove vieni e perché arrivi a certe conclusioni.
ORA CERCO DI SPIEGARMI. Il fatto è che detto il più moderatamente possibile, semplicemente e non da tecnici, da profani e ignoranti se vuoi, io e alcuni di avventure che t'hanno sentito parlare troppo poco per conoscerti un po', pensiamo che i fanatici comunisti o liberali che siano, se ottusi fanatici sono teste di cxxxx uguali. Questa, come premessa con la quale tu non c'entri assolutamente.
Continuo: ad avventure, non per programmata selezione ma perché ci si sono casualmente ritrovati a lavorare lì e soprattutto perchè si va a vedere il resto del mondo com'è, un pò di mentalità ...rossa, c'è. Cosa che dal MIO punto di vista è un'evoluzione naturale dell'andare a vedere il mondo com'è, questo al di là di ogni analisi scientifica che non sono nemmeno in grado di fare. La pensano come me molti ad avventure.

Io di te, ho detto, e non l'avrei detto (mi sarei fatta i cxxxx miei) se non perché spero che ciò che ho detto a xxxx sia andato a raddrizzare l'impressione (che è solo un'impressione riconoscono essere quindi cangiante), da sapientino di destra che hai lasciato. Io ho detto che puoi averla lasciata quell'impressione, a volte fighetto appari, ma c'è magari dietro lo studio o un'opinione non fanatica come urlano in tanti e per quanto, com'è lecito, ognuno la pensi come diavolo vuole non sei così fighetto da non avere cura, disponibilità, tolleranza e modestia di confrontare le tue opinioni con chiunque, anche con chi non sembrerebbe capace di dire nulla. Tutti hanno qualcosa da dire e che è interessante da ascoltare, ed ascoltare è conoscenza e intelligenza. Tu questo lo sai e lo sei.
Io non so se ti ci ritrovi ma anche se ha volte ci fai ...magari per colpire, un po' il fighetto, però hai cura di conversare senza chiusure con chiunque, perciò l'impressione che puoi lasciare  risulta conoscendoti affrettata. Non che fosse grave la faccenda, era un discorso che più leggero non si poteva, una chiacchierata che abbiamo fatto io e xxxxxxx sui capogruppo incontrati. Potevo anche non raccontarti tutta sta cosa e scrivendola l'ho certo ingrandita da cazzata che era, ma mi dispiaceva che questa piccola e irrilevante impressione potesse in qualche leggero modo far ombra sul fatto che 'logisticamente' (l'unica cosa che alla fine importa e l'unica che pesa ad avventure al di là di ogni inutile gossip) sei un ottimo capogruppo per lingue, organizzazione, disposizione all'amicizia. Sei uno sveglio, interessante e generoso nel far andare a tutti ottimamente il pre-viaggio, il viaggio e il dopo viaggio.

Non l'ho introdotto io il discorso con XXXXXX ma ho detto la mia da semplice e schietta quale sono. Nemmeno XXXXX è un'impicciona caciarona anzi è un ottima persona e capogruppo ed è un'amica con la quale posso parlare anche magari non facendomi i cXXX miei perché ho piena fiducia nella sua intelligenza, di come prende/capisce le cose che le ho detto. E la cosa è vicendevole se no non mi avrebbe parlato di te. E sai giù ad avventure ne sentono di tutti i colori; c'è gente che fa il capogruppo ma è incapace o stronzo e quello per loro è lavoro alla fine, per non perdere gente che non viaggia più con avventure solo perché ha avuto delle beghe. Soldi. Per lavoro non per altro, non certo per simpatie politiche, cercano di riuscire a valutare se chi si lamenta è un rompicxxxx che è indifferente perdere ...o se è il capogruppo che è meglio perdere. E sai, con tutta la tolleranza di cui sono capace, ce ne sono!

Magari proprio per qualcuno è ora di andare in pensione anche come capogruppo e nemmeno il premio del viaggio gratis riesce a fare di alcuni dei buoni viaggiatori. Non parliamo degli stronzi E io in genere in ferie cerco per principio di pace, nonché per salute, d'andare d'accordo con tutti e almeno in ferie di essere 'in pausa', di non giudicare nessuno. Chi se ne frega, basta vedere il mondo, mi basta quello. Se poi trovo amici, meglio così. Ma se uno è stronzo e non sveglio a un certo punto viaggi per conto suo. Non volevo che qualcuno potesse anche solo lontanamente mischiarti con questi e quando ci si conosce poco può capitare sulla base di impressioni. Il detto la prima impressione è quella giusta è una benemerita cazzata. Basta ho finito. Hai qualcosa da rimproverarmi? Se è così dimmelo ti prego e questa è l'ultima volta che presuntuosamente mi metto a psicoanalizzare o filosofeggiare su come sei o non sei come chi crede di capire tutto di tutti..lo spirito non è quello; io mi farei promotrice attiva di un solo partito: il partito di chi si sa fare i cavoli suoi.
Volevo solo darti modo quando vai ad avventure, di pigliarti tutti i viaggi che vuoi perchè te li meriti 'per merito'.  Perchè se hai messo su, un angolo dell'avventura non è un caso ed un piccione viaggiatore è viaggiatore. Nel momento in cui ho sentito una piccola ma credimi davvero piccola cosa che lo avrebbe non impedito forse 'ritardato', c'ho messo parola. Alla fine era una chiacchierata tra amiche probabilmente già scordata e mai riferita, a volte ci si fa dei film mentali per un nonnulla. Non solo tu sei un bravo capogruppo anche altri. Poi lo sai meglio di me, come ogni ambiente anche avventure è un luogo di inciuciamenti, figurati! Il mondo non si cambia così..e allora volemose bene e tiriamo a campà. Boh si dice così per epilogare? (sei tu il romano). ciao eleonora

4 dicembre 2005

Ciao Eleonora, WOW che email! Be' prima di tutto vorrei ringraziarti, sia per aver dedicato tutto questo tempo per scrivere e riferirmi dei commenti dietro le quinte di AnM, sia, soprattutto, per il tuo apprezzamento sul mio "lavoro" di capogruppo, che mi gratifica ed appaga per i miei sforzi. I complimenti al mio modo di pormi per ascoltare e discutere (mi sforzo, e se tu lo hai notato vuol dire che ci riesco) mi hanno veramente quasi fatto arrossire; spero che tu non sia l'unica a pensarlo, ma sei l'unica che me lo ha detto. Spero avremo modo di viaggiare ancora insieme.
Grazie anche per le info Etiopia, ne farò tesoro!

E veniamo al resto. Non ho capito bene cosa tu, o XXXX, intendiate per "fighetto". A me piace parlare delle cose che leggo sui paesi che visito, cerco la conversazione che però spesso non si sviluppa perché molti ad AM -- e non solo -- non leggono, non si informano, sanno solo dire "che bello!" dovunque si trovino. Forse questo fa pensare che mi dia della arie? Eppure lo spirito di AM è proprio quello dell'approfondimento, c'è anche la biblioteca, il caffè letterario, le recensioni dei libri. Oppure cos'altro è? Forse che a volte a me piace dire qualche frase a effetto, un po' provocatoriamente? Be' sì, è una tecnica di presentazione, serve a svegliare quelli che son distratti e a concentrarsi sulla questione che si sta discutendo. Un sasso nello stagno insomma. Non c'è niente di peggio di una conversazione noiosa, invece a volte con una "sparatella" si vivacizza il tutto!

Ma quando all'essere di destra direi due cose, che ovviamente sono punti di vista opinabilissimi e personali: una è che se non ci fosse una destra non ci potrebbe essere una sinistra, è ovvio, o almeno dovrebbe esserlo a chi è veramente democratico (e non "democratico" come la Repubblica Democratica Tedesca o quella della Corea del Nord). Dunque per un democratico di sinistra l'esistenza di un democratico di destra dovrebbe essere la garanzia di un sistema democratico nel suo insieme. E quindi che ci sarebbe di male ad essere di destra?

La seconda è che oggi la destra, intesa come la conservazione, è rappresentata, in Europa continentale (a Londra è diverso) da quelli che si autodefiniscono di sinistra; nel senso che, non potendo più sognare ad occhi aperti aspettando il sol dell'avvenire, le sinistre cercano di conservare con le unghie e con i denti un sistema sociale ormai consunto, decrepito e screditato, oltre che insostenibile finanziariamente, quello dello statalismo assistenziale creato negli anni sessanta e settanta.

Per far questo si attaccano a tutto, alle cause più disparate, persino alla Chiesa, una volta nemica, con Rutelli radicale abortista che si converte al cattolicesimo, Veltroni che scopre di essere sempre stato religioso e persino Bertinotti che appena può invoca il Papa. Gli altri non son da meno, basta vedere il Presidente del Senato Pera, che era pure liberale ed ora si preoccupa solo di adulare i vescovi, Berlusconi divorziato che va a messa, ecc ecc... tutti in cerca dei voti dei cattolici!

Io in questa Italia non ci voglio tornaaaaaareeeee e meno che mai mi identifico con la sua "destra"!!!!! Ti ricorderai che ne parlammo... io non mi considero di destra, non lo sono affatto, perché non sono un conservatore, ma sono per il progresso, l'evoluzione. Sono un liberale, cerco di essere tollerante, aperto, e quindi per definizione non estremista. Un liberale si batte perché chi la pensa diversamente da lui si possa esprimere, perché sa che sa questo continuo confronto nasce il progresso. Uno può essere un estremista cattolico, islamico, comunista, fascista, ma un "estremista liberale" è un ossimoro, una contraddizione in termini. Ti dicevo che sono antifascista, anticomunista, e anticlericale, e non scherzavo. Solo che per certi sinistroidi (non te) se non la pensi come loro sei di destra e quindi un cattivo. Accade anche il rovescio naturalmente, e ti sorprenderà che in ambienti diversi da AM io spesso mi trovi ad essere considerato quello "di sinistra".

Conosco XXXXX, ha curato i servizi a terra per un paio di miei viaggi, assolvendo sempre bene alle sue mansioni. Lei, con Patrizia e Daniela, sono le colonne portanti dell'ufficio di AM, le veterane, quelle che capiscono le cose al volo senza dover perder troppo tempo. E' grazie a loro che i tantissimi casini di quell'organizzazione alla fine si risolvono (quasi)  sempre ed i viaggi funzionano. Altri là dentro si trascinano inconcludentemente come nei peggiori uffici pubblici... Io non le ho viste fuori dall'ufficio, ma direi, a naso, sono di quelle ex sessantottine un po' deluse dalla vita, con i sogni rivoluzionari infranti, che se la prendono un po' con tutto e tutti ma non hanno più, come quando erano giovani, alcuna certezza di proposta alternativa cui far riferimento. Ho una pletora di cugini che rientrano in questa categoria...

Devo dire mi fanno un po' pena.  Molti di loro pensano che il socialismo sia una bella cosa, solo è stata realizzata male dai regimi del socialismo reale finora, nei quali paesi infatti di comunisti se ne vedono pochi (gli unici comunisti che ho incontrato a Cuba erano un paio del mio gruppo, nessun cubano!); mah, sarà pure, ma cosa caspita può far pensare che Bertinotti sarebbe più bravo di Gorbachev, Mao, Kim il Sung, Ho Chi Minh, Castro, ecc ecc ecc ecc? Io ne dubito! Ma rispetto comunque chi vuol ancora sognare; mi fa incazzare invece chi manipola questi sognatori. Questi si rendono conto che la loro strada, quella per seguir la quale hanno speso la loro gioventù, si sia rivelata un vicolo cieco, ma non hanno le palle per riconoscerlo e cambiarla. Ma neanche possono tanto insistere perché ormai, soprattutto tra i giovani, non li segue quasi più nessuno -- e meno male. Ed allora sono generalmente incazzati con il mondo che li circonda, ma non ne riescono ad immaginare, e tanto meno ne possono proporre, uno che sia migliore ed allo stesso tempo realizzabile.

E con chi si incazzano? Naturalmente con il capitalismo, l'Occidente, il mercato (e la democrazia all'occidentale, che sono due facce della stessa medaglia) che potremmo criticare all'infinito (io stesso lo faccio) ma sono per ora il meglio che il mondo sia stato capace di produrre. Che vuol dire il "meglio"? Vuol dire il meno peggio se vuoi, ma a me appare chiaro che noi stiamo meglio del resto del mondo che ha adottato altri sistemi e stiamo meglio oggi di come stavamo ieri.

Infatti il resto del mondo vuole imitarci, e lo fa dappertutto, senza distinzione di razza, religione, cultura, se non glielo impediscono dittatori e tirannelli vari; e quelli che scrivono dei mali dello sviluppo (disuguaglianza, inquinamento, snaturamento delle culture) cosa propongono? Nulla... solo cazzate di come sono carini i villaggi di fango con i bambini in Africa, tanto belli belli belli... di come una volta si stava bene, "ai miei tempi"... Di questi i gruppi di AM sono pieni. Poi mi fanno ridere quelli che quando gli racconti di un viaggio ti dicono di come il posto tale o talaltro era tanto meglio prima quando ci sono stati loro e non c'era la corrente elettrica, le strade, l'acqua potabile... però mica ci vanno a vivere loro senza acqua corrente, luce, auto, ospedali ecc ecc.

Io dal viaggiare traggo conclusioni diverse dalle tue. Io vedo che dove c'è democrazia, libertà e mercato c'è anche benessere, istruzione, cultura. Dove quelli mancano, questi avvizziscono. Il capitalismo produce disuguaglianza, anzi si basa sulla disuguaglianza, a volte abissale, e che deve essere corretta -- dallo stato. Ma la mancanza di capitalismo ha sempre portato (finora almeno) magari maggiore uguaglianza, ma a livello più basso per tutti. Questo mi pare ovvio. In India per esempio, oggi ci sono enormi differenze tra ricchi e poveri ma il paese cresce a ritmi esponenziali ed anche i poveri migliorano, mangiano, studiano, hanno una prospettiva davanti a sé. Fino a 15 anni fa, con i piani quinquennali ed i monopoli statali, quelli che oggi sono poveri morivano letteralmente di fame.

Comunque sia, di questa evoluzione del mondo, che per me è positiva, se pur costellata di errori, e non è affatto di "destra", gli USA sono la locomotiva. Senza di loro l'Europa sarebbe stata sottomessa dal Kaiser, da Hitler o da Stalin, e l'Asia dal militarismo giapponese. Gli americani continuano a produrre, non solo tante cose che amiamo e fanno parte della nostra vita di tutti i giorni ma soprattutto conoscenza, innovazione, fermento culturale, che sono la chiave di ogni progresso.

Pure il 68 degli ex sessantottini non è mica nato dal socialismo, ma in California. Hanno le migliori università infatti in USA, e non solo perché hanno i soldi, ma perché sono meritocratiche e libere dai baroni politicizzati che soffocano quelle europee. Infatti spesso nelle università americane sono gli scienziati stranieri, europei e asiatici, che brillano, ma è in America che trovano un sistema paese che funziona ed in cui si possono esprimere. Un sistema che sbaglia ma ha la capacità di auto-correggersi.

In parte anche in estremo oriente hanno imparato a farlo, mentre in Europa siamo fermi, stagnanti, abbarbicati su posizioni nostalgiche quanto sterili, con lo stato che entra dappertutto come una piovra e quasi sempre fa guai, e perdiamo tempo a bearci del nostro glorioso passato invece di pensare a costruire il futuro. Che cosa ha partorito l'Europa di buono per il mondo negli ultimi 50 anni? Non molto, mi pare, e me ne dispiace. E poi degli Americani ammiro lo spirito di identità, il grande rispetto reciproco, la disponibilità, anche l'ingenuità se vuoi. Io per questo sono molto pro-americano, il che non vuol dire essere pro-Bush (personaggio che detesto) ma uno può ben essere pro-italiano senza amare Berlusconi o Prodi, o pro-europeo senza amare Solana e Barroso, o no?

Invece certuni sono comunque, ideologicamente, aprioristicamente anti-americani, magari senza esserci mai neanche stati --  poi magari bevono Coca Cola e ascoltano jazz, vestono jeans, mangiano hamburger, fumano Marlboro, usano Windows, masticano la gomma "americana", ecc ecc ma per carità, gridano morte all'America ad ogni occasione! Ti parla uno che comunque l'America dopo 10 anni l'ha lasciata per certa incompatibilità, ma la conosce bene.

Be' mi rendo conto che mi sono lasciato andare in una filippica che forse qui c'entra come il cavolo a merenda! Ma in fondo fa bene scrivere perché aiuta ad articolare il proprio pensiero... ma non volevo scrivere tutta sta palla di email seriosa, mi è scappata la mano.... :-)) be' chi di email ferisce di email perisce, se non ti sei rotta prima e sei arrivata fino a qui a leggere fatti forza che ho quasi finito!

Per finire voglio sottolineare che ti sono veramente grato per avermi aiutato a capire un po' meglio come una parte di me possa venir percepita all'esterno. Forse questo mi permetterà di presentarmi meglio e persino, chissà?, da migliorarmi, cosa che cerco sempre di fare. Che tu abbia voluto condividere queste tue percezioni con me mi ti fa considerare un'amica, ed anzi non ne ho tanti di amici che si prendano la briga di dir qualcosa per aiutarti a capire. Se poi XXXXX e Co preferiranno dare i viaggi ai coordinatori rossi... facciano pure... quando riempiamo la scheda dei coordinatori allora oltre che al numero di telefono ed al codice fiscale dovrebbero anche chiederci il colore politico!! scherzo ovvio... ;-) ...ma non credo che siano così meschine, anzi ti ripeto tutte e tre hanno sempre lavorato bene per quanto io abbia visto. Magari se sorridessero di più non guasterebbe, c'è sempre un'aria di tristezza in quegli uffici, eppure è un'azienda che va bene, con un modus operandi informale, giovanile, un rapporto diretto con i capi, boh? forse mi manca qualcosa...

Comunque è vero dentro AM si respira un'aria rossa, una mia partecipante un po' meno sofisticata di pensiero di te mi ha persino chiesto una volta come potevo viaggiare con AM dato che non votavo per la sinistra (le ho detto che da oltre 10 anni non voto proprio per nessuno)... vedi un po' che ti capita a fare il coordinatore... In effetti la maggioranza dei miei partecipanti di solito è di sinistra (cioè di destra, conservatori) mentre molti coordinatori che ho conosciuto sono più liberali, ...mah! non è certo un sondaggio statisticamente significativo...

5 dicembre 2005

ELEONORA

Un liberale si batte perché chi la pensa diversamente da lui si possa esprimere, perché sa che da questo continuo confronto nasce il progresso, dici tu. Devo essere una liberale anch'io allora.

Sai all'ultimo non te la volevo mandare quella mail, avresti potuto leggerla in negativo e trarne insofferenza per una che alla fine se le tenga le sue considerazioni..ma di nuovo mi hai dato prova del tuo saper 'ascoltare' malgrado il mio pessimo modo di scrivere. Dev'essere il tuo metodo del sottolineare ciò che leggi. E ti chiedo scusa per l'esitazione che ho avuto. Non amo scrivere, non ne sono capace e nemmeno me ne frega più di tanto..lo lascio fare a chi lo sa fare.  Quanto alla tua mail per niente noiosa per ora ti  rispondo senza averla riletta con attenzione, e te la scrivo tra un utente e l'altro per cui sarà come sarà.

Ognuno è com'è.. rispetto te e ciò che scrivi, sento da te quello che hai da dire, se e quando ti va di dirlo, allo stesso identico modo, rispetto xxxxxxx e quello che ha da dire se e quando le va, tu arrivi da dove arrivi ..studi negli Stati Uniti dalle letture che fai, maria eugenia arriva da dove arriva lei socialismo..anni settanta dalle letture che fa, perchè non dovreste essere così come siete? Siete due tipi che tutto considerato bene o male mi piacete. E non perchè ho la vocazione da suora e salvo tutti al contrario, sono decisamente intransigente  o testarda se vuoi ..disprezzo superbia e prepotenza. 

Non sopporto una caterva di idioti bastardi. Arrivo a considerarli tali dopo averli osservati e cercato di capirli, non per vocazione a comprendere anche loro quanto piuttosto al fine di capire se sono bastardi dentro così come mi sono sembrati, se poi mi stupiscono e mi sono sbagliata..è un sollievo. Per quanto riguarda la politica ci lavoro in mezzo agli affarucci beceri di piccoli politicanti di poca qualità e molta 'gonfiezza', c'è poca differenza a livello locale o nazionale. Però so senza incertezze che le cose da fare sono lapalissiane.

Se qualcuno cominciasse con onestà a risolverle ed a fare qualcosa per il bene di tutti verdi, bianchi, rossi e azzurri che siano e chi sta all'opposizione una volta eletto non si limitasse a disprezzare ma raddrizzasse il  tiro..eccetera eccetera a seguire con il discorso utopico che conoscono tutti, non scopro neanch'io l'acqua calda. Ora non ho voglia di seriosità già è Lunedì e sono d'umore storto, consumo giornate e occhi ad occuparmi di cavolate sul metano che più noiose e più lontane dal mondo vero non si può, questo perchè due bastardi m'hanno mobbizzato perchè ho detto loro cosa pensavo.

Per quanto riguarda avventure non so non ci sono mai andata..ho conosciuto patrizia e maria eugenia 'in viaggio' ed il contesto conta. Sono due donne in gamba certo non meschine da scegliere altri a te solo per simpatia politica ma simpatia Può darsi (quando uno deve scegliere e di danni non ne fa, a volte, sceglie anche con la simpatia). La gente è sempre pò ingufita soprattutto sul posto di lavoro. Sono di sinistra ma sanno essere 'liberali' nel senso tuo. Infatti la mail scorsa l'ho scritta non con l'intento di armare te contro una loro meschinità no no ..niente del genere assolutamente, mi spiaceva che non vi conosceste, tant'è vero che tu sei passato per uno di destra filo Berlusconi/Bush snobbino che fa il sapientino e loro come ex sessantottine deluse dalla vita con sogni rivoluzionari infranti che non sorridono mai. Non tutte le ciambelle escono col buco neanche le sparatelle.




05 January 2005

Book Review: Against All Enemies: Inside America's War on Terror, by Richard Clarke, *****

Synopsis
Few political memoirs have made such a dramatic entrance as that by Richard A. Clarke. During the week of the initial publication of Against All Enemies, Clarke was featured on 60 Minutes, testified before the 9/11 commission, and touched off a raging controversy over how the presidential administration handled the threat of terrorism and the post-9/11 geopolitical landscape. Clarke, a veteran Washington insider who had advised presidents Reagan, George H.W. Bush, Clinton, and George W. Bush, dissects each man's approach to terrorism but levels the harshest criticism at the latter Bush and his advisors who, Clarke asserts, failed to take terrorism and Al-Qaeda seriously. Clarke details how, in light of mounting intelligence of the danger Al-Qaeda presented, his urgent requests to move terrorism up the list of priorities in the early days of the administration were met with apathy and procrastination and how, after the attacks took place, Bush and key figures such as Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, and Dick Cheney turned their attention almost immediately to Iraq, a nation not involved in the attacks. Against All Enemies takes the reader inside the Beltway beginning with the Reagan administration, who failed to retaliate against the 1982 Beirut bombings, fueling the perception around the world that the United States was vulnerable to such attacks. Terrorism becomes a growing but largely ignored threat under the first President Bush, whom Clarke cites for his failure to eliminate Saddam Hussein, thereby necessitating a continued American presence in Saudi Arabia that further inflamed anti-American sentiment. Clinton, according to Clarke, understood the gravity of the situation and became increasingly obsessed with stopping Al-Qaeda. He had developed workable plans but was hamstrung by political infighting and the sex scandal that led to his impeachment. But Bush and his advisers, Clarke says, didn't get it before 9/11 and they didn't get it after, taking a unilateral approach that seemed destined to lead to more attacks on Americans and American interests around the world. Clarke's inside accounts of what happens in the corridors of power are fascinating and the book, written in a compelling, highly readable style, at times almost seems like a fiction thriller. But the threat of terrorism and the consequences of Bush's approach to it feel very sobering and very real. --John Moe for Amazon.com

28 July 2004

2° g - 28 LUG: Los Angeles, volo per Papeete

Giro per Venice beach, dove arriviamo con la navetta dell’albergo. Sempre piacevole, con quell'aria sessantottina decaduta, qualche vecchio capellone che negli anni sessanta faceva protesta studentesca è ancora lì, oggi ultrasessantenne, che insiste pateticamente con chitarra e barba lunga... Nostalgico forse, ma ormai sembra un po’ forzato, finto! In un negozietto benedetto si compra una specie di tunica indiana di tessuto grezzo, in tono con l'ambiente di qui!

Peccato non avere più tempo. Los Angeles offre tantissimo, cultura, divertimenti, spettacoli. Io la preferisco a San Francisco, che è sì carina e unica, forse più facilmente fruibile, ma non offre altrettanto.

Partenza regolare in serata con il volo per Papetee.

08 May 2004

Book Review: "Sideshow: Nixon, Kissinger and the Destruction of Cambodia", by W. Shawcross, ****

Synopsis
Although there are many books and films dealing with the Vietnam War, Sideshow tells the truth about America's secret and illegal war with Cambodia from 1969 to 1973. William Shawcross interviewed hundreds of people of all nationalities, including cabinet ministers, military men, and civil servants, and extensively researched U.S. Government documents. This full-scale investigation—with material new to this edition—exposes how Kissinger and Nixon treated Cambodia as a sideshow. Although the president and his assistant claimed that a secret bombing campaign in Cambodia was necessary to eliminate North Vietnamese soldiers who were attacking American troops across the border, Shawcross maintains that the bombings only spread the conflict, but led to the rise of the Khmer Rouge and the subsequent massacre of a third of Cambodia's population.

31 August 2003

25° g - 31 AGO: Tehran, American Embassy

Oggi vado a spasso per Tehran. Passeggio davanti all'ambasciata americana, o ex ambasciata, quella occupata da sedicenti studenti iraniani nel 1979 dentro la quale furono tenuti in ostaggio 52 americani per 444 giorni. Successivamente, con la rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, l'ambasciata è stata usata come scuola dei Pasdaran, la milizia politica del regime.

01 March 2003

10° g - 1 MAR: da Santiago a Baracoa

Guantanamo

La strada statale, deserta come tutte, che porta da Santiago verso l’estremo orientale di Cuba, si trasforma ad un certo punto in una autostrada, pur’essa deserta, che punta dritto su Guantanamo, la città adiacente all’omonima base della marina militare americana: un nome che racchiude in sé rabbia, costernazione e sdegno, e non solo per i Cubani. La base fu concessa agli USA nel 1934 con un trattato a tempo indeterminato. Molti a Cuba, e non solo, considerano questa base un anacronistico residuo di un’era coloniale che tutti vorremmo pensare definitivamente passata.

02 April 2002

Recensione: La rabbia e l'orgoglio (2001) di Oriana Fallaci, *****

You can read an English version of the article on which this book is based here.

Sinossi


Con "La rabbia e l'orgoglio" (2001), Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni, dalla pubblicazione di "Insciallah", epico romanzo sulla missione occidentale di pace nella Beirut dilaniata dallo scontro tra cristiani e musulmani e dalle faide con Israele. Dieci anni in cui la Fallaci sceglie di vivere ritirata nella sua casa newyorchese, come in esilio, a combattere il cancro. Ma non smette mai di lavorare al testo narrativo dedicato alla sua famiglia, quello che lei chiama "il-mio-bambino", pubblicato postumo nel 2008, "Un cappello pieno di ciliege". L'undici settembre le impone di tornare con furia alla macchina da scrivere per dar voce a quelle idee che ha sempre coltivato nelle interviste, nei reportage, nei romanzi, ma che ha poi "imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello" dicendosi "tanto-la-gente-non-vuole-ascoltare".

Il risultato è un articolo sul "Corriere della Sera" del 29 settembre 2001, un sermone lo definisce lei stessa, accolto con enorme clamore in Italia e all'estero. Esce in forma di libro nella versione originaria e integrale, preceduto da una prefazione in cui la Fallaci affronta alle radici la questione del terrorismo islamico e parla di sé, del suo isolamento, delle sue scelte rigorose e spietate. La risposta è esplosiva, le polemiche feroci. Mentre i critici si dividono, l'adesione dei lettori, in tutto il mondo, è unanime di fronte alla passione che anima queste pagine. (Prefazione di Ferruccio De Bortoli)


Recensione

Un libro controverso, dai toni feroci, anche troppo, solo in parte giustificabili dalla situazione: Fallaci era a New York al momento degli attacchi dell'11 settembre. A mio avviso Fallaci ha ragione a parlare del pericolo che l'Europa abbassi la guardia sulla propria identità, ma indebolisce le sue argomentazioni quando si lascia trasportare dalle emozioni del momento. Maggiore sangue freddo avrebbe reso i suoi argomenti più lucidi. In ogni caso il libro pone delle domande, scomodissime, su cui il lettore farebbe bene a ragionare. Un libro importante, un grido di dolore di un'italiana che se la prende prima di tutto con gli italiani, e gli europei, non all'altezza del retaggio culturale che gli appartiene.

Il testo dell'articolo si può leggere nell'archivio del Corriere della Sera.


01 August 2001

Book Review: In Harm's Way: The Sinking of the U.S.S. Indianapolis and the Extraordinary Story of Its Survivors (2001), by Doug Stanton, *****

Synopsis

The USS Indianapolis was the last ship sunk during the Second World War. Savaged by a salvo of torpedoes from a Japanese submarine, the warship, one of the fastest in the US Navy, sank in a matter of minutes. One thousand two hundred men went into the water, and only 321 were to survive. This is their story. On 30 July 1945 the Indianapolis was returning from the small island of Tinian, having delivered the components of the atom bomb ‘little boy’, which was to decimate Hiroshima and bring on the end of the war. As the torpedoes ripped into the side of the ship hundreds of men were killed. Those lucky enough to survive were to face extremes of physical and mental hardship in the water. Many were left to float in the ocean with little or no food or drinking water in deteriorating life jackets and, most chillingly of all, open to attacks by sharks...

11 July 2001

Book review: The Slave Trade, 1440-1870 (1999), by Hugh Thomas, *****






















Synopsis


After many years of research, Thomas portrays, in a balanced account, the complete history of the slave trade. The Atlantic slave trade was one of the largest and most elaborate maritime and commercial ventures. Between 1492 and about 1870, ten million or more black slaves were carried from Africa to one port or another of the Americas.

In this wide-ranging book, Hugh Thomas follows the development of this massive shift of human lives across the centuries until the slave trade's abolition in the late nineteenth century.

Beginning with the first Portuguese slaving expeditions, he describes and analyzes the rise of one of the largest and most elaborate maritime and commercial ventures in all of history. Between 1492 and 1870, approximately eleven million black slaves were carried from Africa to the Americas to work on plantations, in mines, or as servants in houses. The Slave Trade is alive with villains and heroes and illuminated by eyewitness accounts. Hugh Thomas's achievement is not only to present a compelling history of the time but to answer as well such controversial questions as who the traders were, the extent of the profits, and why so many African rulers and peoples willingly collaborated. Thomas also movingly describes such accounts as are available from the slaves themselves.



13 December 1995

Film review: Smoke (1995) by Paul Auster, *****

Synopsis

Departing from the conventions of Hollywood story-telling 'Smoke' is constructed like an emotional jigsaw puzzle: pieces interweave and interconnect to form an intricate whole. Unrelated characters - a New York cigar store manager (Harvey Keitel) who has taken photographs in front of his store at the same hour every day for 14 years; a novelist (William Hurt) unable to go on writing after his wife is killed in a random act of street violence; a man (Forest Whitaker) who ran away from his past and tries to start over after accidentally killing his wife. These characters, amongst others, making their way through the lonely urban landscape, might seem to have little in common. But in the couse of this motion picture they cross paths by chance and end up changing each other's lives in indelible ways.


Review

I first saw this movie when in came out in 1995 and then bought the BD in 2012. It is still am amazing film about human nature, love and New York. This kind of stuff could only happen in New York. People of entirely different backgrounds crossing paths for an incredible series of adventures and misadventure. Yes, incredible, but then again this is a movie.

However the emotions that play out in the story are very real, and no doubt will resonate with many viewers.

One last note about the title: smoke is the common denominator of all the stories that intertwine in the course of the film, which is centered around daily life in a cigar store. A pretty unique place where the owner, disenchanted with life, can meaningfully put together a series of albums of four thousand pictures of the same place. I won't tell you why this actually makes sense so as not to spoil the film for you.

And, how do you weigh smoke? You actually can, really, just watch the movie!

A good bottom line from the various stories: stealing is giving, lying is telling the truth.

A deep, captivating, dry humor, no nonsense film not to be missed.




01 November 1994

La Nuova Dimensione della Sicurezza in Europa Orientale

Versione originale preparata per il CeMiSS, Novembre 1994

Introduzione

Dopo la fine della Guerra Fredda, la sicurezza dei paesi dell'Europa centrale ed orientale (PECO) e di quelli nati dalla dissoluzione dell'URSS (Nuovi Stati Indipendenti, NSI), è divenuta una conditio sine qua non per la sicurezza dell'Europa intera. Questa interdipendenza in materia di sicurezza non è interamente nuova. Già durante la Guerra Fredda l'Occidente aveva dovuto riconoscere che la propria sicurezza era dipendente da quella dall'altra metà del continente—così come veniva percepita da Mosca. Tutto ciò risultava in non poca ipocrisia: per esempio, l'URSS otteneva la prima "distensione" e l'inaugurazione della CSCE subito dopo aver invaso la Cecoslovacchia nel 1968. Ma durante la Guerra Fredda l'interdipendenza in materia di sicurezza si traduceva in una rigida separazione delle responsabilità geopolitiche, per cui l'Occidente era obbligato ad astenersi dall'interferire nella zona di influenza sovietica, e vice vesa. Oggi, invece, interdipendenza vuol dire farsi parte attiva nella risoluzione delle controversie rimaste pendenti dopo la fine del bipolarismo: a questo l'Occidente è chiamato dalle parti in causa.

Oggi non c'è più l'ostilità di ieri tra Est ed Ovest, ma l'Europa non è affatto "unita e libera" così come George Bush, tra gli altri, l'aveva precipitosamente proclamata già nel 1990. La regione dei PECO continua ad essere frammentata e, lungi dall'essere libera, vede molte sue parti in guerra (o quasi). Paradossalmente, dopo che l'occupazione sovietica e con essa ogni minaccia militare significativa sono scomparse dall'Europa, in Europa orientale la sicurezza non si è rafforzata.

In Europa occidentale, la scomparsa dei massicci spiegamenti sovietici nell'area del Patto di Varsavia (e degli ancora più preoccupanti dispositivi di mobilitazione e di rinforzo), non hanno prodotto tutti i risultati sperati. La minaccia di invasione da Est è sparita, ma la percezione generale di sicurezza non è migliorata. L'Europa, dopo 45 anni, ha rivisto la guerra, e se pure questa è al momento circoscritta (ex-Jugoslavia, Caucaso), il pericolo di una sua conflagrazione è reale, anche se imprevedibile e non facilmente definibile. La conseguenza di questa imprevedibilità e non quantificabilità è che diviene impossibile, nelle democrazie occidentali, mobilizzare l' opinione pubblica affinché sia disposta ad accettare i sacrifici necessari a far fronte alle nuove esigenze di sicurezza. In questo contesto, una continuata analisi delle variabili della sicurezza occidentale legate agli sviluppi dell'ex-mondo comunista è particolarmente auspicabile, sia per sensibilizzare un'opinione pubblica ingiustificatamente apatica e distratta, sia per essere attrezzati a reagire se e quando non sarà più possibile procrastinare.

Nell'ambito geografico dell'Europa post-comunista, le aree di maggiore rischio sono quelle dell'ex-URSS e dei Balcani, mentre la regione mediterranea aggiunge un'ulteriore fonte di incertezza, specialmente per i paesi, come l'Italia, che vi sono contigui. Mentre delle ultime due regioni si occupano altri capitoli in questo studio, alle questioni inerenti alla prima sono dedicate le pagine che seguono. Non ci occuperemo invece dei paesi della cosiddetta area di "Visegrad" (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) sia perché non si registrano in quest'area fonti di pericoli, per quanto remoti, all'Occidente; sia perché è probabile che le relazioni politiche tra questi paesi e le istituzioni dell'Europa occidentale si svilupperanno rapidamente nel prossimo futuro, ed è prevedibile una sempre maggiore integrazione dei primi nelle seconde. 

Discorso diverso per i paesi ex-sovietici, più instabili internamente, più minacciati esternamente e, soprattutto, a cui non si aprono altrettante prospettive di integrazione (al di là di una reintegrazione con la Russia): né economica (con l'Uniione Europea); né politico-militare (con la NATO). Su questi paesi, ed sulla politica della Russia verso di loro, si incentra l'analisi che segue. In primo luogo, si analizzerà il ruolo della CSI in quanto tale. Quindi il delicato rapporto, multilaterale e bilaterale, della Russia verso i paesi che vi fanno parte. Infine, si esaminerà la situazione in Ucraina, che dopo la Russia è sicuramente il paese più rilevante per i destini di tutta la regione ex-sovietica.


Il Ruolo della CSI

Proposta per la prima volta a Minsk il giorno 8 Dicembre 1991, e formalmente creata ad Alma Ata il 20 Dicembre, la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) nasceva ancora prima che l'URSS avesse formalmente cessato di esistere (25 Dicembre, con le dimissioni di Gorbaciov). La sua creazione rifletteva l'esigenza che, nonostante l'euforia dell'indipendenza che si era diffusa tra le repubbliche ex-sovietiche durante l'anno precedente, esse avevano troppo in comune per separarsi così rapidamente e completamente come avrebbero voluto i più facinorosi tra i gruppi nazionalisti (o sedicenti tali) che un po' ovunque risorgevano da sette decenni di repressione.

Lo scopo immediato della CSI era di coordinare le tre maggiori repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia) nella loro transizione all'era post-sovietica. A tre anni di distanza da quella decisione, la CSI si è espansa fino ad includere quasi tutte le repubbliche dell'URSS (tranne le tre baltiche)i, e rimane un importante strumento verso il raggiungimento del suo scopo originario, anche se a condizioni che non sempre sono quelle sperate dai suoi stati membri—per motivi che appariranno chiari nel corso della presente trattazione.

Da quel momento, sono stati conclusi svariati accordi specifici (nel settore della sicurezza, dell'economia, sul piano politico) ed una Carta della CSI è stata firmata nel 1993. Nell'Aprile del 1994 i membri della CSI hanno concordato formalmente un' unione  economica, ma i tempi ed i modi della sua realizzazione rimangono poco chiari, ed è improbabile che essa possa concretizzarsi rapidamente e senza problemi. Per esempio, un programma di unione monetaria tra Russia e Bielorussia ha dovuto essere sospeso a causa di una serie di problemi che erano stati inizialmente sottovalutati: il differenziale inflazionistico troppo elevato tra i due paesi; la difficoltà di individuare un tasso di cambio accetabile alle due parti; la riluttanza delle autorità di Minsk sono a cedere porzioni di sovranità, come la facoltà di battere moneta, alla Russia).

Vari organi consultivi sono stati creati nella CSI (il Consiglio dei Capi di Stato, quello dei capi di governo, dei ministri degli esteri e della difesa, dei capi di stato maggiore). Anche se spesso elusi da accordi bilaterali tra la Russia ed i singoli paesi, questi organi rimangono formalmente in carica e svolgono una notevole mole di lavoro

Relazioni politiche ed economiche

La CSI è ben lungi dal divenire una vera alleanza tra stati, come almeno alcuni dei suoi membri devono aver sperato nel divenire indipendenti nel 1991. La Russia continua ad usare la CSI come cornice formale per le relazioni multilaterali, ma sempre più fa uso di accordi bilaterali, che ovviamente non possono essere equilibrati. Questo sistema ricorda piuttosto da vicino i trattati che l'URSS stipulava con i paesi satelliti allo scopo di meglio controllare le attività multilaterali del Patto di Varsavia e del COMECON. Ciononostante, la CSI continua ad essere utilizzata (anche se a volte come poco più di una foglia di fico) per rendere la disparità che sottende questa rete di accordi bilaterali più accettabile da parte del mondo esterno, e principalmente dall'Occidente.

A quest'ultimo scopo, la Russia ha cercato con una certa insistenza, ma finora senza successo, di ottenere il riconoscimento della CSI come organizzazione regionale in base al capitolo VIII della Carta dell'ONU. Questo tentativo continua in ambito alla CSCE, e la CSI presenterà un proprio contributo scritto al prossimo vertice di Budapest del Dicembre 1994. L'Occidente ha finora opposto resistenza a questo riconoscimento, ma è possibile che, se continuerà la tendenza in atto, la comunità internazionale dovrà prendere atto dell'esistenza della CSI, salvo poi, al più, porre pressione (soprattutto sulla Russia) affinché siano rispettati i dettati del diritto internazionale nei rapporti tra gli stati membri.

Lo squilibrio nei rapporti tra Russia e NSI viene dunque mascherato, non senza una dose di pretestuosa e disincantata ingenuità, dietro la facciata della CSI, ma prima degli scontri dell'Ottobre 1993 alcuni parlamentari russi si erano spinti fino a dichiarare candidamente che Mosca avrebbe dovuto dichiarare il proprio equivalente della "dottrina Monroe" americana.ii Al tempo questa linea non fu fatta propria né dal governo né dal presidente Jeltsin; tuttavia, dopo le elezioni del dicembre 1993, ed il rafforzamento delle forze nazionaliste e di destra, Jeltsin è stato costretto a tenere maggior conto di queste posizioni, e le ha anche parzialmente incorporate nei propri discorsi e nella propria politica.

Ovviamente questo predominio russo non è universalmente ben accolto tra i NSI, ma le alternative, per loro, sono difficili da individuare. Alcuni tentativi in questa direzione non hanno sortito l'effetto sperato: per esempio, gli stati dell'Asia centrale hanno cercato di sviluppare un foro alternativo di cooperazione ed integrazione regionale tra di loro (l'Unione dell'Asia Centrale) ma non sono riusciti a concretizzare molti dei loro propositi. Parimenti, alcune repubbliche europee (Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia, Azerbaijan) hanno cercato uno sbocco nel Consiglio di Cooperazione del Mar Nero (sponsorizzato dalla Turchia) e varie ipotesi sono state ventilate di incrementare i contatti con i PECO, soprattutto i paesi baltici e quelli dell'"area di Visegrad". Ma i NSI rimangono strutturalmente dipendenti dalla Russia, e la costruzione di contatti orizzontali richiederebbe molto tempo ed enormi quantità di risorse economiche e tecnologiche, di entrambe le quali non vi è certo abbondanza nella CSI.

Le condizioni economiche nella CSI sono precarie e, in generale, in fase di ulteriore peggioramento. Il consenso degli economisti è che, come si suol dire, le cose debbano "ancora peggiorare prima di poter migliorare". Pil e produzione industriale sono stati colpiti maggiormente dalla crisi post-comunista, mentre la produzione agricola ha sofferto meno (anche se la contabilità in questo caso è meno attendibile) e ben poche stime sui servizi sono disponibili. Lo stato disastrato delle valute della maggior parte dei paesi (al punto che il Rublo russo, le cui difficoltà nella seconda metà del 1994 nei confronti delle valute convertibili sono note, viene considerata valuta pregiata nella CSI) non può che peggiorare le cose. Questa debolezza economica e strutturale ha portato i NSI ad essere piuttosto acquiescenti nei confronti delle prevaricazioni della Russia, anche quando questo ha voluto dire una plateale strumentalizzazione dell'organizzazione dei rapporti in ambito CSI per palesi scopi di interesse nazionale russo.iii

Questa acquiescenza, tuttavia, non è servita ai NSI ad ottenere sostanziali aiuti economici dalla Russia. Per esempio, Mosca continua a mantenere una linea economica piuttosto inflessibile nei confronti dei NSI per quanto concerne il debito valutario e commerciale di questi ultimi. Mosca richiede valuta pregiata, se non addirittura quote azionarie in industrie produttive, come pagamento per gli idrocarburi che fornisce, il cui prezzo è peraltro quasi sempre calcolato in base alle quotazioni del mercato internazionale. Soltanto la politicamente pavida Bielorussia ha ricevuto prestiti significativi (oltre 150 miliardi di rubli, in ulteriore crescita) senza dover per questo ipotecare beni produttivi.

In conclusione, i legami economici nella CSI sono il male minore per i NSI. La loro dipendenza strutturale dalla vecchia infrastruttura sovietica e dai vecchi legami commerciali, e la mancanza di alternative internazionali realistiche, fanno sì che il rinnovo dei legami con la Russia sia il solo modo di sperare nella propria sopravvivenza. Questo pone i NSI in posizione di demandeur, e perciò subordinata. La Russia, da parte sua, è determinata a far pagare questi legami in termini sia politici, sia economici.

Le Forze militari della CSI

Già nel dicembre del 1991 la CSI aveva creato le cosiddette "Forze Armate Comunitarie", poi ratificate nel Trattato di Tashkent del Maggio 1992, che, tra l'altro, divideva tra i paesi della CSI la quota sovietica delle armi convenzionali prevista dal trattato CFE. Il Maresciallo dell'Aviazione Evgeny Shaposhnikov era nominato Comandante in Capo delle Forze Comunitarie. Ma queste ultime erano destinate a rimanere lettera morta. Shaposhnikov fu successivamente trasferito (Giugno 1993) al posto di Segretario del Consiglio di Sicurezza della Russia, e questo pose fine alle pretese della CSI di creare in vero e proprio comando comune: col trasferimento di Shaposhnikov, la Russia aveva da una parte sottolineato che la prima priorità era il rafforzamento delle strutture di difesa nazionali, e dall'altro ribadito che l'autorità di comando della CSI sarebbe stata subordinata a quella di Mosca.

Abbandonati a sé stessi, tutti gli stati della CSI devono affrontare una serio dilemma economico e un'ardua sfida tecnologica per cercare di finanziare e mantenere in efficienza le proprie forze armate. Il percorso sarà in salita e per tutti i NSI (con la possibile eccezione dell'Ucraina, che, date le sue dimensioni economiche e l'avanzato livello industriale raggiunto in era sovietica, ha maggiori margini di manovra) raggiungere il traguardo di forze armate indipendenti effettivamente operative (e non solo, come oggi, in gran parte solo nominali) sarà un'impresa pressoché disperata. Anche in quest'area, è prevedibile che essi dovranno far ricorso, in misura variabile, all'aiuto russo.

Sul piano tecnologico (manutenzione, parti di ricambio, ammodernamento), Mosca troverà probabilmente conveniente estendere ai NSI l'aiuto militare che essi, in alcuni casi loro malgrado, chiederanno. E questo sia perché esso costituirà un impiego redditizio del proprio complesso militare industriale; sia perché è prevedibile che attraverso gli aiuti militari la Russia acquisisca una notevole leva politica nei confronti dei governi dei NSI ricettori. Nel medio periodo, tutto ciò contribuirebbe, di fatto, a ricreare un grande sistema politico-militare, controllato da Mosca, nell'area comprendente più o meno quella dell'ex-URSS—i paesi baltici ne potrebbero restare con tutta probabilità i soli esclusi.

Nell'Aprile del 1994, due anni dopo Tashkent ed un anno dopo lo spostamento di Shaposhnikov al Consiglio di Sicurezza russo, il ministro della difesa russo Pavel Graciov ha perfino esplicitamente riproposto la creazione delle  forze armate della CSI, che, nelle attuali condizioni di squilibrio politico militare a favore della Russia, sarebbero ovviamente dominate da quest'ultima. Questa proposta non è stata fatta propria né dal ministero degli esteri né dal presidente, evidentemente attenti a non offrire pretesti a chi in Occidente rimane sospettoso delle intenzioni imperiali di Mosca.

Tuttavia, Kozyrev ha colto l'occasione di un discorso agli ambasciatori della Russia nei NSI e nei paesi baltici che, "la Russia non si dovrebbe ritirare da quelle regioni che sono state nella sua sfera di interesse per secoli" e (riferendosi alle accuse rivolte alla Russia di non voler ritirare le proprie forze dagli spiegamenti ex-sovietici nell'ex-URSS) "non deve aver paura di usare le parole «presenza militare»".iv Le ultime parole sono ovviamente riferite a chi, in Occidente, ripete che l'indipendenza dei NSI, ivi compresa la loro sovranità territoriale, rimane un cardine della politica dei paesi occidentali verso la Russia.

Alla fine del 1994, le forze armate russe rimangono presenti sul territorio di svariati NSI: due reggimenti aerei in Bielorussia, la 14a armata in Moldova (20.000 effettivi), 12.000 uomini in Tadjikistan, e 28.000 in Turkmenistan, come componente delle "forze armate congiunte" russo-turkmene.v Inoltre, le forze di tutti i paesi della CSI, soprattutto, ma non solo, in Asia Centrale, sono in buona parte "russificate": durante l'era sovietica i gradi più alti erano in gran parte appannaggio di ufficiali russi che poi sono per lo più rimasti al loro posto dopo la scomparsa dell'URSS.

Il Controllo delle Forze Nucleari Sovietiche

La CSI non ha avuto alcun ruolo nel controllo delle forze nucleari ex-sovietiche. I paesi membri si accordarono subito (fine 1991) sul ritiro delle forze nucleari tattiche dai NSI che le ospitavano e sul loro trasferimento in Russia. Il trasferimento fu completato nella primavera del 1992. Per quanto concerne le forze strategiche, al presidente russo, già dalla fine del 1991, veniva riconosciuta l'autorità di controllo "positivo" (cioè di ordinare un lancio), ma a condizione che egli ricevesse l'assenso dei capi di stato di Ucraina, Bielorussia e Kazahstan—i tre paesi che ospitano tali armi strategiche sul proprio territorio—e che "consultasse" tutti gli altri capi di stato o di governo della CSI. Questo, sulla carta, si deve applicare a tutte le armi nucleari ex-sovietiche, e quindi anche a quelle in territorio russo, e non solo a quelle nelle tre repubbliche citate.

Il valore dell'impegno russo a ottenere l'assenso dei tre stati sopra citati è tuttavia poco più che nominale. In realtà, l'accordo CSI dà ai tre stati che ospitano armi strategiche l'autorità teorica di un controllo "negativo" (cioè di influenzare, e persino di porre un veto) sulle decisioni di uso nucleare del presidente russo, ma la loro capacità pratica di farlo è fortemente limitata nel migliore dei casi (Ucraina) e praticamente nulla per Bielorussia e Kazahstan. Nonostante questi paesi abbiano palesato ripetutamente (e alquanto confusamente, specialmente da parte di Kiev) varie pretese di controllo nucleare, nessuno di essi ha mai acquisito una capacità di uso nucleare unilaterale.

Per quanto concerne l'impegno russo a consultare gli altri NSI, questo si deve considerare poco più che un cortese tributo alla loro formale sovranità all'interno della CSI. Non sono mai state concordate specifiche procedure di consultazione nucleare nella CSI, e non sono mai state costruite strutture di comando, controllo e comunicazione tra le varie autorità nazionali a questo scopo. 

Il ruolo della Russia nella CSI

Dall'analisi di cui sopra emerge la facile conclusione che, alla fine del 1994, e con l'acquiescenza della maggior parte dei NSI, la CSI esista soprattutto come strumento per lo spiegamento della potenza—politica, economica e militare—russa. Mosca sta palesemente cercando di ricreare una sfera di influenza che dovrebbe, mutatis mutandis, rimpiazzare il defunto impero sovietico—in una continuità di proiezione di potenza che risale, ovviamente, all'era zarista. La necessità di agire in questo senso costituisce uno dei pochi punti di consenso nazionale in Russia oggi: un recente sondaggio (Maggio 1994) ha indicato che per il 78% dei Russi è "disdicevole" che l'URSS non esista più simile sondaggio nel Giugno 1992 era risultato in una percentuale del 54%. Questo ampio consenso comprende non soltanto la coalizione tra comunisti e nazionalisti, ma molte fasce moderate.vi Culturalmente, ancor più che politicamente, è difficile per i Russi accettare il fatto che la Russia oggi non è più un impero ma uno stato-nazione (anche se vastissimo e fortemente diversificato).

L'Occidente, grazie ai mezzi di informazione che oggi, a differenza di quanto accadeva durante le epoche sovietica e zarista, sono disponibili, può in parte influenzare questo dibattito. Ma se la Russia sarà internazionalmente integrata o isolata dipenderà prima di tutto dalla stessa Russia. Il che vuol dire che sarà di decisiva importanza la lotta che sta nuovamente avendo luogo, ancora una volta, come durante lo zarismo, tra Occidentalisti e nazionalisti pan-Slavisti. Se dovessero prevalere i primi, la Russia si avvierebbe verso scelte orientate all'Europa che sarebbero di beneficio a tutto il continente. Altrimenti, una riaffermazione delle tradizioni autocratiche russe potrebbe facilmente dar corpo ad un sentimento di una Russia assediata, a ciò creerebbe problemi insormontabili per la sua reintegrazione in Europa, con conseguenze destabilizzanti anche per la sicurezza del continente.

Ma c'è una terza possibilità, rappresentata da quella che può essere chiamata la corrente "Eurasiatica" nella politica estera russa. Secondo questo pensiero, la Russia non può far parte dell'Occidente; siccome essa ha anche un importante ruolo in Asia, è destinata ad essere "altro" che l'Occidente, anche se non necessariamente ostile ad esso.vii Questa impostazione denota un netto cambiamento dall'orientamento decisamente pro-Occidentale dell'immediato periodo post-sovietico, quello che era stato da più parti definito il "periodo romantico" delle relazioni tra Occidente e Russia.viii

La corrente che abbiamo definito eurasiatica è una novità nella tradizione della politica estera russa, che si è in passato divisa, grosso modo, tra pan-Slavisti e Occidentalisti. Quest'ultimo gruppo aveva prevalso nell'impostazione della politica estera nell'immediato periodo post-sovietico, ma oggi è in ritirata. I pan-slavisti, che vedono la Russia come intrinsecamente superiore all'Occidente, si stanno rafforzando, ma non hanno ancora riaffermato una chiara supremazia; anzi, se l'uscita di Solzhenitsyn a Mosca nell'Ottobre-Novembre 1994 (dove è stato accolto assai tiepidamente dal pur conservatore Parlamento russo) è indicativa della loro forza relativa, è improbabile che ci riusciranno mai.  

Gli "Eurasiatici" si collocano fra i due gruppi tradizionali, e prendono alcuni elementi da ciascuno. Essi non cercano un rinnovato confronto con l'Occidente, ma sono decisi a riaffermare gli interessi russi almeno nelle regioni più vicine geograficamente e storicamente. Gli Eurasiatici credono che questa politica di difesa degli interessi nazionali sia compatibile con il mantenimento di buone relazioni con l'Occidente. Per dirla con Sergey Karaganov, vice-direttore dell'Istituto per l'Europa dell'Accademia delle Scienze, membro del Consiglio Presidenziale sulla Politica Estera e la Sicurezza, la Russia ha un "ruolo insostituibile e una missione ingrata" da portare a termine nell'ex-URSS.ix

Una presa di posizione molto simile è quella di Evgeny Primakov, un ex-direttore dell'IMEMO (anche questo un Istituto dell'Accademia delle Scienze) oggi divenuto Direttore del Servizio di Informazioni per l'Estero, che sostiene che l'indipendenza per i NSI non ha portato né riforme, né democrazia. Al contrario, ha favorito gli isolazionisti che si oppongono a che la Russia e la CSI assuma un ruolo attivo e costruttivo nella comunità internazionale. Il lettore del rapporto è portato a indurre che, dal punto di vista di Primakov, anche qualcosa meno che la piena indipendenza andrebbe altrettanto bene per i NSI, magari con la Russia "democratica" che mostra loro la via verso le riforme e la democrazia.x

Un alleato naturale per questo modo di vedere il futuro della politica estera russa nella CSI può essere trovato nell'estrema destra nazionalistica e nelle forze armate—i due gruppi sono  in parte sovrapposti. Nelle elezioni del Dicembre 1993, l'estrema destra dei Liberali Democratici di Zhirinovskiy ricevette dai quadri delle forze armate una percentuale di voti sensibilmente maggiore di quella ottenuta a livello nazionale.xi Anche i Comunisti trovano conveniente appoggiare le richieste dei Liberali Democratici in politica estera—questa può essere interpretata come una buona applicazione della classica regola tattica leninista de "un passo avanti, due passi indietro" per far cadere il presidente Jeltsin. Nonostante il rovescio dell'Ottobre 1993, questa improbabile alleanza è divenuta via via più spavalda nei mesi successivi alle elezioni di dicembre. 

In ogni caso, quale delle tre scuole (Occidentalista, pan-Slavista o Euroasiatica) prevalga (ed anche se non prevalesse nessuna, e la Russia continuasse a barcamenarsi, per così dire, in mezzo al guado) l'influenza della Russia nel cosiddetto "vicino estero" continuerà a crescere. Infatti, sia gli Occidentalisti, sia i pan-Slavisti sostengono che "Russia" voglia dire essenzialmente il vecchio impero russo, magari con qualche rinuncia riguardo a vecchie provincie zariste ad ovest (Polonia) e a nord (Finlandia, paesi baltici).

La differenza è che, contrariamente a quanto accadeva con gli stati confinanti con la Germania di Weimar, la maggior parte dei NSI interessati, magari non per libera scelta ma per mancanza di alternative, avvallano l'ascesa della Russia—quando, addirittura, non la incoraggiano. Pertanto, si può affermare che la crescita del potere della Russia nei confronti del "vicino estero" sia una variabile pressoché indipendente nel panorama geopolitico europeo. 

In parte come espressione di questo cambiamento di pressioni al vertice, la manifestazione più palese del crescente peso della Russia  si è venuto manifestando nelle operazioni cosiddette di "mantenimento della pace" (Peacekeeping) della Russia nella CSI. Il Ministro degli Esteri Kozyrev ha dichiarato che la Russia agisce perché le viene chiesto, e lo fa sotto l'ombrello della CSI, che egli vorrebbe essere considerata una legittima organizzazione internazionale. Legittimità che pure viene contestata, ma che non può in nessun caso pretendere di divenire legittimante: quest'ultima prerogativa spetta all'ONU e non alle organizzazione internazionali regionali, se pure tali riconosciute nell'ambito del capitolo VII della Carta.

La visione di Kozyrev è ragionevolmente credibile per quanto concerne l'intervento russo in Tadjikistan: qui, una forza veramente internazionale sta operando con una relativa base relativamente ampia di consenso delle parti. Ma questo non è il caso il altre aree dove la Russia sta conducendo operazioni di "peacekeeping" sotto l'egida della CSI, ed in particolare nel Caucaso. Queste operazioni sono un esempio concreto della mancanza di una vera partecipazione internazionale in operazioni etichettate "CSI". Questa è la principale ragione per cui è difficile per la CSI ottenere il riconoscimento di organizzazione internazionale in base al capitolo VII della Carta dell'ONU.

Una considerazione finale: a prescindere dal grado di legittimazione internazionale che riusciranno ad ottenere, le operazioni di "peacekeeping" russe nella CSI difficilmente potranno essere mantenute ad elevati livelli di impegno militare. Le forze armate russe sono piagate da forti carenze di manutenzione e di risorse di ogni tipo, ivi comprese quelle umane, dovute a diserzioni alla leva che in alcune regioni raggiungono la quasi totalità dei coscritti.xii Se finora gli interventi sono stati coronati da relativo successo, questo è anche dovuto al fatto che essi si sono sviluppati su scala relativamente ridotta; se tali interventi si dovessero moltiplicare, o se qualcuno tra essi dovesse particolarmente complicarsi, le forze ivi impegnate potrebbero incappare in imbarazzanti sconfitte.

Prospettive per il futuro

Alla fine del 1994, tutti i NSI, anche se spesso con riluttanza, e per ragioni diverse, cercano di rafforzare la propria sicurezza attraverso maggiori legami con la Russia. Anche dal punto di vista economico, Mmosca rimane un punto di riferimento obbligato. In alcuni casi, i NSI hanno esplicitamente espresso chiare aspettative a questo riguardo. In altri casi, essi sono stati obbligati a rivolgersi a Mosca dalle circostanze—la crescente pressione politica di Mosca e la mancanza di alternative.

È improbabile, tuttavia, che i NSI dimostreranno gratitudine per i benefici che eventualmente riceveranno. I leader dei NSI (in buona parte ex-dirigenti del partito comunista sovietico) comprendono bene che solo la Russia potrebbe offrire loro la sicurezza di cui hanno bisogno, ma temono che una re-integrazione formale farebbe loro perdere, potere, prestigio, lo status internazionale recentemente acquisito e, forse, anche l'identità—per i propri neonati stati e per sé stessi in persona.

Pertanto, è probabile che questi capi di stato cercheranno di mantenere, almeno sul piano nominale, l'indipendenza dei rispettivi stati. Rinunciarvi sminuirebbe il loro prestigio e ruolo personale. Allo stesso tempo, essi saranno costretti a cercare protezione e risorse a Mosca. In altre parole, essi cercheranno la quadratura del cerchio: questo non è un fatto raro in sé nella storia della politica internazionale, ma difficilmente l'obiettivo viene raggiunto. Data la debolezza negoziale con cui i NSI si misureranno nel tentativo, è improbabile che lo sarà questa volta. I NSI potranno rimanere nominalmente indipendenti (dopotutto, Ucraina e Bielorussia hanno sempre avuto un proprio seggio all'Onu) ma, se le tendenze attualmente in corso continueranno, i propri destini saranno sempre più legati a quello della Russia.

Se e fino a che punto ciò avverrà attraverso il meccanismo della CSI, è solo relativamente importante. Forse la CSI si consoliderà fino a divenire una credibile organizzazione internazionale regionale, ma questo sembra poco probabile. Più probabile è invece che diventi uno strumento attraverso il quale la Russia potrà esercitare la propria pressione politica in modo che questa risulti più presentabile al mondo esterno, ed in particolare all'Occidente.

Forse i NSI manterranno quindi la propria indipendenza, almeno sul piano nominale. Forse una CSI dominata dalla Russia si vedrà conferiti poteri sovranazionali in alcune aree ma non in altre, e la partecipazione dei NSI nelle varie materie di cooperazione nella CSI sarà difforme: ma mentre una CSI á la carte potrà sortire l'effetto sperato dalle parti contraenti nel breve termine (consentire alla Russia di riasserire la propria influenza e ai NSI di mantenere bandiera ed inno nazionale). Ma non potrà eludere a lungo la questione fondamentale se questi stati rimarranno effettivamente sovrani o se (come sembra via via più probabile) essi diverranno di nuovo parte della Grande Russia. 

Qui ci riproponiamo di analizzare in maggiore dettaglio la politica estera della Russia verso quest'area geografica. È evidente che dagli sviluppi di questa dipende in buona misura il futuro della stabilità in Europa, e, di più, se l'Europa si avvia verso una nuova bipolarizzazione (Occidente e CSI, con forse un'area grigia tra i due) oppure verso una multipolarizzazione frammentaria e discontinua. L'interesse occidentale è palese, ma i pareri discordano su come i nostri interessi sarebbero meglio protetti: da una nuova divisione in blocchi, anche se non necessariamente in conflitto tra di loro? o da un'Europa frammentata, che interponga il maggior spazio possibile tra Occidente (comunque definito) e Russia?

La politica estera della Russia verso il "vicino estero"

Nuove tendenze nella politica estera russa

I paragrafi che seguono tratteranno le trasformazioni in corso nella politica estera russa e le sue implicazioni per l'Occidente. È quello che è stato a volte definito il "periodo romantico" delle relazioni post-sovietiche tra Russia e Occidente  finito? È la rinnovata dinamicità russa una nuova minaccia per la sicurezza occidentale? È in corso una ricostituzione, de facto se non de jure, della vecchia URSS? Quali sono le opzioni politiche per l'Occidente?

Le trasformazioni del post-1991, è stato detto, hanno messo la Russia in una situazione di equilibrio instabile "tra Impero e democrazia".xiii Secondo questa tesi, non è ancora chiaro se la Russia post-comunista diventerà uno stato veramente democratico (con conseguenti buone relazioni con l'Occidente) o continuerà a percorrere la strada imperiale della Russia zarista e dell'URSS (producendo così nuovi attriti e conflitti internazionali).

L'alternativa non è però così chiara e definita come la si vorrebbe porre. Esiste veramente un quid-pro-quo tra democrazia e impero? Probabilmente no. Molte democrazie sono state potenze imperiali. Non ci sono ovvi motivi per ritenere che la Russia, anche se completamente democraticizzata, non dovrebbe nutrire mire espansionistiche. Anzi, con il consolidamento della democrazia (e con il concomitante sviluppo dell'economia di mercato) l'influenza internazionale della Russia presumibilmente aumenterà. Ed infatti, mentre le riforme economiche sono ancora lungi dal produrre risorse economiche fresche da mettere a disposizione di un'ambiziosa politica estera, Mosca si sta già predisponendo a giocare un ruolo da grande potenza nello scacchiere internazionale. Questo si verifica particolarmente nei confronti dei NSI della CSI, ossia le ex-repubbliche sovietiche meno i tre stati baltici—a cui, almeno per il momento, la Russia sembra aver più o meno "rinunciato" (ma per quanto tempo?) dal punto di vista geopolitico. A marcare il significato particolare che Mosca attribuisce a questa regione, è divenuto di uso comune in Russia, anche a livello ufficiale, il termine "vicino estero", che già in sé lascia trasparire una prerogativa speciale, una sorta di implicito diritto di prelazione da parte di Mosca.

In realtà, si potrebbe argomentare che la vera alternativa per la Russia non è tra democrazia e impero, ma piuttosto tra l'integrazione internazionale (ivi compresa la cooperazione con l'Occidente) ed il nazionalismo, russo o pan-slavo che sia. Le due ultime variabili possono conciliarsi con ciascuna delle prime due. Semplificando, si potrebbe dire che, durante i suoi primi due anni di esperimenti con la democrazia, la politica estera russa ha zigzagato tra integrazione internazionale e nazionalismo. Nel 1992 la Russia esplicitamente elevò al massimo livello di priorità le relazioni con l'Occidente. Il Presidente Jeltsin ed il Ministro degli Esteri Kozyrev diressero questa fase con mano ferma, superando le resistenze interne. Nel 1993, tuttavia, si sono verificati alcuni cambiamenti importanti: la Russia, economicamente prostrata e politicamente frustrata, cominciava a cercare opportunità internazionali per ereditare, almeno in parte, la statura geopolitica dell'URSS.

Il problema per la dirigenza di Mosca era come fare ciò senza antagonizzare l'Occidente, ed in particolare gli Stati Uniti, nel momento che Mosca cercava di ridare vita, almeno sul piano retorico, alla cooperazione internazionale con i vecchi alleati della Seconda Guerra mondiale—più, ovviamente, la Germania. Ma la Russia si presentava su un piano di debolezza nei confronti delle forti democrazie occidentali. Il Parlamento e l'allora vice-presidente Rutskoj sfidavano apertamente questa impostazione di Yeltsin e Kozyrev, che interpretavano troppo accondiscendente verso l'Occidente, e chiedevano, riscontrando ampi consensi, di far sì che la Russia tornasse ad essere protagonista. Nel Gennaio 1993 Jeltsin faceva in buona parte propria questa impostazione; la Russia procedeva quindi a ridimensionare l'attenzione verso Occidente e a concentrarla verso i NSI, e particolarmente quelli con forte presenza etnica russa, adducendo per questo due motivi fondamentali: il primo era la forte presenza etnica russa in molte di quelle aree (oltre 25 milioni di Russi vivono oggi all'"estero" nella CSI). Il secondo motivo era che la Russia doveva aiutare i NSI a difendere i propri confini, che essi stessi non erano evidentemente in grado di proteggere da soli: e questo sia nell'interesse dei paesi interessati, sia della Russia stessa, che vedeve così allontaanata la propria frontiera di sicurezza fino ai confini ex-sovietici.

Come si inserisce questa concezione del "vicino estero" di Mosca nella visione generale russa della sicurezza europea? In una certa misura, è possibile che si stia verificando una risurrezione della vecchia idea sovietica della "sicurezza pan-europea", tramite la quale l'URSS voleva diluire l'efficacia della NATO e contemporaneamente marginalizzare il ruolo degli USA in Europa. Recenti affermazioni del ministro della Difesa russo Graciov fanno pensare che la nuova Russia, non potendo realisticamente pensare di far parte della NATO nel prevedibile futuro e neanche potendo impedire un possibile allargamento di questa verso altri PECO, voglia cercare di indebolirla invischiandola in una rete di corresponsabilità (se non addirittura, come era apparso verso la metà del 1994, di subordinazione) con la CSCE. Se questo tentativo avesse successo, il potere relativo della Russia in Europa ne risulterebbe naturalmente rafforzato. 

È probabile però che questo tentativo sia destinato a fallire come quelli precedenti. Tuttavia, dal fatto stesso che sia avvenuto, si deduce che sarebbe ingenuo per l'Occidente pensare che la politica estera di una grande potenza come la Russia (ancorché indebolita e non più ostile come prima) possa essere sempre in sintonia con le percezioni di sicurezza dei paesi occidentali. L'Occidente per questo non può aspettarsi, e quindi non dovrebbe cercare di ottenere, l'accordo della Russia su ogni questione, o crisi, con implicazioni di sicurezza che si possa aprire in Europa. Cooperare con la Russia (il che è auspicabile ed in alcuni casi indispensabile) non vuol dire necessariamente essere d'accordo su tutto (il che non è realisticamente pensabile).

In questo senso, il problema per le democrazie occidentali all'indomani della Guerra Fredda è simile a quello cui si trovarono di fronte le potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale: come reintegrare una grande potenza sconfitta nel sistema internazionale. Il problema è semmai più grave nel 1994 che nel 1919, perché la Russia non è stata sconfitta militarmente. A Versailles i vincitori scelsero una goffa via di mezzo: essi umiliarono con arroganza la Germania sconfitta, l'accusarono ingiustamente di aver scatenato il conflitto, ma non la occuparono e non ne prevennero la rinascita economica e militare—che, date quelle premesse, sarebbe stata inevitabilmente ostile. Oggi l'Occidente vede con favore (anche se fa poco per favorire) il tentativo di rinascita economica russo, ma se questo avrà successo l'Occidente dovrà affrontarne le conseguenze politiche e militari.

Sarebbe illusorio pensare che una Russia economicamente solida sarebbe politicamente acquiescente. La Russia avrà le sue legittime ambizioni, e queste dovranno essere appropriatamente collocate nel panorama internazionale. Il pericolo è che, mutatis mutandis, la Russia post-comunista possa ripetere il precedente della Germania di Weimar: economicamente e politicamente riformata, ma isolata e ostracizzata all'estero.

Interessi fondamentali e strumentalizzazione politica

Il governo di Mosca giustifica formalmente il proprio crescente coinvolgimento nell'ex-URSS in base a quattro argomentazioni fondamentali, tutte definibili in termini negativi piuttosto che positivi. Mosca sostiene di dover intervenire allo scopo di prevenire:

i) abusi nel campo dei diritti umani;

ii) la proliferazione delle armi nucleari; 

iii) il diffondersi del fondamentalismo islamico;

iv) una possibile conflagrazione dei conflitti regionali.xiv 

Nel perseguire questi obiettivi, sostiene Mosca, la Russia sta rendendo un prezioso servizio alla comunità internazionale, e pertanto non solo non dovrebbe essere ostacolata, ma dovrebbe invece essere ricompensata sia in termini finanziari, sia con un'adeguata legittimazione internazionale del suo operato.

In realtà, la Russia ha manipolato, strumentalizzandoli, i conflitti locali tra i NSI (gettando alternativamente acqua o benzina sul fuoco, decidendo di volta in volta a secondo dei propri interessi) allo scopo fondamentale di espandere l'influenza russa. Come minimo, data la limitata capacità russa di agire mentre il paese attraversa gravi travagli interni, questo ha però voluto negare a potenziali competitori regionali—come la Turchia, l'Iran, il Pakistan e la Cina—di acquisire influenza a loro volta. I cosiddetti interventi russi di "peacekeeping" nella CSI sono stati uno strumento verso il conseguimento di questo fine.

Ma il "peacekeeping" russo è anche, in grande misura, importante per fini interni. Sia che riesca in qualche misura a raggiungere i quattro obiettivi ufficiali elencati sopra, sia che porti ad un'almeno parziale espansione dell'influenza politica russa, sia che non riesca alla fine ad ottenere nessuno dei due obiettivi, il solo fatto che la forze armate russe siano impegnate nel "peacekeeping" comporta il rafforzamento di un'identità professionale, di un senso di appartenenza, di una raison d'etre che i militari russi avevano perso dopo la crisi del 1991. Avendo la Russia pressoché completato il ritiro dall'Europa orientale e dai paesi baltici, e trovando i soldati al loro ritorno un'economia disastrata e poche possibilità di lavoro nel settore civile, e persino difficoltà a reperire un alloggio, il problema di cosa fare con le divisioni che si smobilitano probabilmente richiederà tempo prima di poter cominciare ad essere risolto in modo definitivo.

In questo senso, la politica russa verso il "vicino estero", piuttosto che di mantenimento della pace, potrebbe essere meglio definita di mantenimento dell'orgoglio dei militari russi (e, più in generale, del complesso militare industriale). In quest'ottica, se il tentativo avrà successo, il "peacekeeping" potrà divenire una preziosa fonte di stabilità interna in Russia, perché un "establishment" militare più stabile sarebbe un interlocutore più prevedibile e probabilmente costruttivo per l'Occidente. 

Viceversa, se le forze armate russe dovessero, per così dire, andare alla deriva, aumenterebbe il pericolo che tra di esse possano sorgere raggruppamenti corporativi, magari con forti caratterizzazioni politiche di tipo nazionalistico, che potrebbero indebolire il potere centrale fino a rovesciarlo. Alcuni capi carismatici potrebbero cercare di ricostruire l'orgoglio perduto nell'unico modo in cui sarebbero capaci di farlo, e cioè tramite pressioni per una politica estera più aggressiva o comunque meno accondiscendente verso l'Occidente. Una ritrovata fiducia nella propria dignità, invece, darebbe ai militari una maggiore propensione nella conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'assetto geopolitico del dopo Guerra Fredda (e cioè un sostanziale controllo democratico da parte dei civili della politica interna, relazioni cooperative con l'Occidente ed il rispetto di un'area dei PECO effettivamente indipendente).

In questa luce, i militari sono di importanza fondamentale per la politica estera russa. Il morale è mediamente basso, le diserzioni crescono e i mezzi scarseggiano, ma nel frammentato panorama politico russo, essi rimangono comunque, nonostante i problemi che li affliggono, il gruppo politico più coerente. Ciò resta vero anche se sono stati indeboliti dai tagli al bilancio, dall'abolizione dei privilegi di cui godevano durante l'era sovietica, e pure se non necessariamente uniti su ogni singolo aspetto della politica estera. Ma le forze armate sono oggi più libere di ieri politicamente. 

Durante l'era sovietica, essere erano subordinate al Partito Comunista, che ne nominava i vertici e le controllava tramite la capillare rete di commissari politici. Ora, invece, le forze armate hanno acquisito una connotazione politica indipendente. Questa caratterizzazione è apparsa chiaramente, per esempio, durante la rivolta dell'Ottobre 1993, quando gli alti comandi esitarono non poco prima di concedere il proprio appoggio al presidente Jeltsin. E quando tale appoggio infine accordarono, non fu per semplice obbedienza al potere costituito (e la cosa era resa ancora più confusa dal fatto che non fosse del tutto chiaro a nessuno chi tale potere impersonasse) ma per scelta politica.

Conseguentemente, i militari sono oggi tra i pochi che possono vantare un credito politico nei confronti del presidente Jeltsin. L'appoggio a quest'ultimo rimane quindi condizionato. Egli è visto, per ora (fine 1994), come la migliore garanzia di stabilità politica interna, e quindi di sicurezza, ma questa percezione potrebbe facilmente cambiare.xv Mentrerano e il presidente ed il ministro degli esteri che gestivano la politica estera russa nei primi due anni immediatamente successivi alla caduta dell'URSS, oggi i militari sono co-decisori a tutti gli effetti.

La situazione in Ucraina

Ai fini della nostra analisi, il parametro più rilevante da analizzare nella CSI, dopo la politica estera della Russia nell'area del "vicino estero" di cui si è detto sopra, è senza dubbio il futuro dell'Ucraina. Potrà, e come, questo paese rimarrà indipendente? Diverrà l'Ucraina internamente stabile o invece sarà travolta dalle divisioni etnico-politiche e dal tracollo economico? Come si svilupperanno i rapporti bilaterali con Mosca? La risposta a questo quesito è di fondamentale importanza per gli interessi della vicina Russia e quindi per il futuro della sicurezza dell'intero continente.

Affari Interni

Dopo tre anni di indipendenza, solo i primi timidi passi sono stati compiuti nella direzione di una vera riforma economica. Kiev ha appena firmato un accordo con il fondo monetario internazionale che dovrebbe aprire la strada al finanziamento internazionale per ulteriori sforzi in questa direzione. Sono in corso di redazione leggi e decreti per la liberalizzazione dei prezzi e la riduzione dei sussidi alle industrie in perdita. Il presidente Kuchma sembra essere più sensibile alla necessità di cambiamento ora di quando non era primo ministro, almeno sul piano retorico. Tuttavia, egli ha nominato ben pochi riformatori nel governo, ed il Parlamento resta fortemente influenzato dal rinato Partito Comunista, il più grande e meglio organizzato dei gruppi parlamentari.xvi

Lo stato dell'economia continua a peggiorare:xvii il Pil è diminuito del 26% nella prima metà del 1994; la produzione industriale del 36%; quella di beni di consumo del 40%. Meno si sa di quella agricola, ma i danni in quel settore sembrano essere minori (molta produzione viene consumata sul posto e non contabilizzata, e l'Ucraina non ha sofferto di carestia alimentare) anche se solo il 2% della terra è stata privatizzata e la produttività è minima. I salari reali sono calati del 31% rispetto ad un anno fa.

La politica monetaria ha avuto una salutare correzione in senso restrittivo negli ultimi mesi dell'amministrazione Kravchuk, ed è responsabile almeno in parte della contrazione economica. D'altro canto, la stretta creditizia ha reso possibile il calo dell'inflazione (che era giunta quasi a livelli iperinflazionistici) al 6% mensile. Il neo-presidente Kuchma avrà però difficoltà a continuare tale politica, tuttavia, sia perché ulteriori sacrifici che questa imporrebbe sulla già provata popolazione, sia perché ad essere colpita più duramente è la base di supporto più importante per Kuchma: l'industria pesante, ivi compreso il complesso militare-industriale, che secondo stime correnti da solo ammonta a circa il 30% di tutto il settore industriale del paese.

Sul piano meramente politico, restano importanti divisioni tra l'est del paese (più russo, o russificato), l'ovest (più nazionalista e pro-occidentale), e la Crimea (che è un caso a sé). Ma una certa recente attenuazione degli attriti tra le parti sembra aver fatto recedere, almeno per il momento, il pericolo di una definitiva spaccatura nel paese.

Sul piano militare, la nomina, per la prima volta, di un ministro della difesa civile, viene generalmente interpretata come una tappa miliare nella costruzione di rapporti veramente democratici tra civili e militari. Lo stesso dicasi per la ristrutturazione in corso in tutta la piramide gerarchica della difesa, che pone l'Ucraina più in linea con i criteri occidentali di controllo delle forze armate da parte del potere politico democraticamente eletto. 

Relazioni con la Russia

Buone relazioni tra Ucraina e Russia sono una condizione indispensabile per la stabilità nella regione dell'Europa centro-orientale e dell'Europa tutta. Pertanto, ed anche per il fatto che attraverso l'Ucraina l'Europa occidentale riceve petrolio e gas dalla Russia, il miglioramento di queste relazioni è nell'interesse dell'Occidente. 

Un trattato bilaterale di amicizia e cooperazione con la Russia è attualmente in fase di negoziazione, e viene descritto da entrambe le parti come quasi completato. I nazionalisti ostaggiano questo trattato, che vedono come uno strumento di influenza russa sul paese che ricorda troppo da vicino i vecchi trattati di amicizia e cooperazione che suggellavano i rapporti "fraterni" tra gli "alleati" del Patto di Varsavia. Il presidente Kuchma, invece, sostiene che il trattato implicherebbe un esplicito e definitivo riconoscimento dell'Ucraina come un interlocutore internazionale a pieno titolo da parte della Russia, e quindi rafforzerebbe l'indipendenza e la sovranità del paese. 

L'attuale miglioramento delle relazioni, particolarmente per quanto concerne le questioni della Crimea e della flotta del Mar Nero, va salutato quindi con soddisfazione.  La richiesta della Crimea (formalmente "regalata" per decisione di Khrushciov dalla Russia all'Ucraina nel 1954) di riunificazione con la Russia non è stata spinta con vigore nei mesi recenti, anche perché le varie fazioni crimee si sino più che altro combattute fra di loro.

Per quanto concerne la flotta, un accordo sembra alle porte. Probabilmente, ad una una divisione delle unità, seguirà un'affitto dell'Ucraina alla Russia delle proprie navi, in cambio del cancellamento (anche se forse non totale) del debito ucraino verso Mosca e di un qualche accordo per la continuata fornitura di idrocarburi. Queste navi, però, secondo l'accordo in fieri, proteggerebbero anche le acque ucraine. La Russia dovrebbe inoltre ottenere l'accesso al porto di Sevastopol, in Crimea. Si avrebbe quindi, in effetti, una flotta nuovamente unificata.

In conclusione, anche se restano tensioni latenti e questioni irrisolte, sembra che la crisi bilaterale del 1992-1993 sia in via di attenuazione. È probabile che i rapporti continueranno a migliorare, sia per motivi economici, sia per comuni interessi militari (mantenimento della flotta nel Mar Nero) sia per la profonda comunanza culturale tra i due popoli. Inoltre, l'Ucraina, anche se con riserve, sembra essere meno critica verso le operazioni di "peacekeeping" russe nella CSI.

Ciononostante, Kuchma cercherà di mantenere l'indipendenza del paese. Da parte sua, la Russia sembra essere meno interessata di quanto avrebbe potuto sembrare qualche mese fa nella reintegrazione formale dell'Ucraina nella "Grande Russia", che sarebbe fonte di costi più che di benefici. In altre parole, Mosca sembra essere più interessata a mantenere una forte leva negoziale nei confronti di Kiev, e non a costringerla in ginocchio per poi doverla aiutare a risollevarsi! Per la Russia sarà più vantaggioso accrescere la propria influenza sull'Ucraina debole ed indipendente che essere costretta a dedicare preziose risorse al salvataggio della sua economia.

Implicazioni per l'Occidente

Anche se per motivi di Realpolitik, e non per l'altruismo ufficiale che si vorrebbe far credere, la Russia ha effettivamente contribuito a prevenire, in varia misura, il degenerare dei quattro pericoli (proliferazione, conflagrazione, fondamentalismo islamico, e abusi dei diritti umani, probabilmente in quest'ordine d'importanza) cui si accennava sopra. La questione ancora aperta è se i paesi dell'Occidente debbano o no prendere posizione nei confronti della politica russa verso il "vicino estero", e, se sì, quale debba essere questa posizione. 

Ma deve la posizione Occidentale (ammesso che, come sarebbe auspicabile, ce ne fosse una che raccogliesse un consenso tra i maggiori paesi dell'Alleanza atlantica) essere basata sulle intenzioni dichiarate del governo di Mosca, oppure sul suo operato nell'area in questione?

I nostri interessi strategici e capacità di risposta portano a concludere che ogni presa di posizione in questo campo si debba basare pragmaticamente, sulle modalità e le ripercussioni della politica russa. In altre parole, il ristabilimento di un alto grado di influenza russa nella regione non è positivo o negativo in sé; dipende dalle conseguenze che esso avrebbe per la stabilità in Russia e la sicurezza europea più in generale. 

In ogni caso, sarebbe velleitario pretendere di impedire alla Russia di portare avanti una sua politica regionale che non può prescindere dai propri forti interessi di tipo politico, strategico, economico. L'Occidente non ha i mezzi, e ammesso che li avesse non avrebbe la volontà politica, per contrastare la Russia nelle regioni a lei contigue, soprattutto in Asia e nel Caucaso. Ma accettare questo limite non vuol dire lasciare a Mosca carta bianca e campo libero.

A differenza di quanto accadeva con il Patto di Varsavia, quando l'Occidente non aveva contatto alcuno con i paesi satelliti, e quindi non poteva influenzarne il comportamento internazionale, oggi il Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (NACC) la Partnership for Peace della NATO offrono strumenti per intervenire direttamente presso i NSI. Questo pone l'Occidente in grado di influenzare, anche se solo in parte, il ruolo della Russia verso di essi.

A proposito del quale è necessaria un' altra considerazione, di tipo più generale. Se la Russia vedesse accettato (se non proprio autorizzato o legittimato) il proprio "intervento di pace" nel "vicino estero", essa potrebbe cambiare il proprio atteggiamento verso il peacekeeping in generale. Da chiedersi qui è se un accordo politico sull'area CSI porterebbe Mosca ad essere più cooperativa in altre aree di maggiore interesse strategico per l'Occidente. Per esempio, Mosca ha, con riluttanza, accettato il peacekeeping (ed ha rifiutato il peacemaking) in Bosnia-Erzegovina. Questa riluttanza è dovuta anche al fatto che questi interventi potrebbero stabilire un precedente sulla base del quale i Caschi Blu potrebbero in linea di principio essere un giorno spediti a portare a termine missioni analoghe nel "vicino estero", interferendo così con l'influenza russa in quei paesi. Ma se la Russia vedesse in qualche modo assicurato un suo ruolo legittimo in quest'area geografica, essa potrebbe più facilmente riconciliarsi con "precedenti" che potrebbero crearsi come conseguenza dell'intervento internazionale (con coinvolgimento ONU, CSCE o NATO che sia) altrove.

Inoltre, in futuro, la Russia potrebbe anche accettare di cooperare in queste missioni con forze provenienti da paesi al di fuori della CSI. Questa evenienza, al momento apparentemente remota, potrebbe verificarsi se: a) le forze armate russe, anche con l'apporto (difficilmente più che nominale) di altre forze CSI, non riuscissero ad acquisire e mantenere il controllo delle zone interessate alle operazioni;xviii e b) come conseguenza di a), ci dovesse essere un pericolo di conflagrazione di conflitti periferici alla stessa Russia.

Anche se con riluttanza, Mosca potrebbe preferire perdere l'esclusività del controllo sulle regioni coinvolte ma proteggere l'integrità del paese. Forze ONU, in questo caso, (e se i paesi membri di quell'Organizzazione ne rendessero di disponibili in quantità e qualità sufficienti, il che non sarebbe facile!) potrebbero essere spiegate nel "vicino estero" accanto a forze CSI. Questo spiegamento congiunto CSI-ONU potrebbe non essere importante in sé e per sé, ma per il fatto che contribuirebbe a rendere la Russia più cooperativa in missioni analoghe altrove, come in Bosnia-Erzegovina, dove gli interessi dei paesi occidentali sono, e saranno, più direttamente coinvolti.

Questa linea di pensiero, naturalmente, dà per scontato un comportamento razionale da parte di Mosca: meglio coinvolgere l'ONU (e quindi l'Occidente) che perdere il controllo del "vicino estero" e con esso, magari, della periferia russa. Tale scelta, tuttavia, non deve naturalmente essere data per scontata. Essa potrebbe essere ostacolata, per esempio, dai militari russi, che potrebbero invece sfruttare le difficoltà militari per insistere ed ottenere una maggiore quota di risorse economiche nazionali per poter compiere ogni missione richiesta nel "vicino estero" senza quelle che essi definirebbero "interferenze internazionali" nella regione.



Note: vedi testo originale