Dicembre 2003: sono in Giordania per un breve viaggio natalizio quando una guida mi riferisce le prime incerte notizie: “Terremoto in Iran, migliaia di morti, è crollata una fortezza.” Chiedo dettagli, quale fortezza? “Non so, non ho capito il nome, una fortezza con una doppia cinta di mura.” Non ce ne sono molte, in Iran... La conferma arriva inesorabile con il notiziario serale della BBC sulla radiolina ad onde corte: il sisma ha obliterato Bam dalla carta geografica...
Quando, nel 1939, Dino Buzzati scrisse “Il Deserto dei Tartari”, egli sicuramente non aveva pensato a Bam, che forse neanche conosceva. Non che viaggiare fosse per lui un problema, anzi sarebbe di lì a poco partito come corrispondente di guerra in zone non poi molto lontane, in Africa orientale. Ma il turismo, anche quello di “avventura”, non era così facile sul finire degli anni trenta, con le nubi di guerra che si addensavano all’orizzonte e le comunicazioni spesso impedite. Anche se a Tehran regnava lo Scià, simpatizzante per l’Italia fascista e che nel 1940 ci permise di stabilire la residenza del nostro ambasciatore in un fantasmagorico parco con villa di epoca Qajar, tuttora orgoglio della nostra diplomazia, Buzzati la sua fortezza Bastiani se la dovette immaginare. Invece a Bam pensò De Chirico per il suo celebre quadro “La Torre Rossa”, che a sua volta, sembra certo, ispirò Valerio Zurlini quando, verso la metà degli anni settanta, preparò la realizzazione dell’omonimo film. La scelta, suggerita sicuramente anche dal fatto che l’Iran era coproduttore dell’opera, non avrebbe potuto essere più azzeccata. Buzzati era morto nel 1970, chissà se avrà mai immaginato Bam come scenario della sua opera? Comunque oggi dobbiamo sicuramente rivedere il film di Zurlini, perché ci offre una rara testimonianza della cittadella di Bam viva, pulsante di frenetica attività, irriconoscibile nel cumulo di macerie che è oggi.
Quando Patrizia mi disse che il lungamente agognato “Brasile Music” per il quale mi ero preparato non sarebbe partito per mancanza di iscritti, non mi parve vero che, invece, partiva un “Iran in Libertà”: in Iran avevo sempre vo
luto andarci, ma a causa delle vicissitudini belliche e terroristiche degli ultimi anni erano state molte le cancellazioni per tutti i paesi della regione; ed infatti nell’estate del 2003 partì solo un gruppo. Dopo un giro per il Nord del paese, e dopo aver visitato la roccaforte islamica di Qom e le perle di Esfahan e Yazd, ci dirigemmo verso l’estremità meridionale del nostro itinerario: Bam, una delle ultime propaggini urbane dell’Iran, circa 200 km prima del confine con Afganistan e Pakistan. Percorrendo di fretta le ultime decine di chilometri attraverso il deserto cominciammo ad intravvedere, ai margini della strada, le palme stracariche di datteri, i famosi datteri di Bam, grandi come albicocche, succulenti, dolcissimi. La tentazione di fermarsi a comprarne era grande, ma avevamo solo poche ore di luce prima del tramonto, e siccome non eravamo riusciti a trovare da dormire a Bam, avremmo dovuto far ritorno a Kerman in serata, dunque dovevamo sfruttare tutto il tempo a disposizione per visitare la cittadella.
Arrivati al parcheggio antistante l’ingresso, scendiamo rapidamente, le ragazze si coprono come al solito la testa con il fastidioso hejab (tanto più che in questa regione, a causa del contrabbando di droga di provenienza afgana, di polizia ce n’è proprio tanta) e via dentro alla fortezza. Pochi turisti, quasi tutti iraniani, e dopo qualche minuto ci siamo già dispersi nei cunicoli che, dal maestoso portone della fortezza, portano verso la cittadella sopraelevata al suo interno. Rosario ed io, carichi delle nostre Nikon, tele e grandangoli, ci arrampichiamo lungo la cornice del muro di cinta esterno, cercando qualche bella angolazione da cui fotografare, da ovest ad est, col sole arancione che scende alle nostre spalle, gli spalti della cittadella. Alcuni compagni di viaggio puntano direttamente al grande torrione centrale, da cui si dominano tutta la fortezza ed i territori circostanti, quelli che Giovanni Drago scrutò per trenta anni aspettando i Tartari. Giulia si siede dietro ad una fila di merli e assapora in silenzio l’atmosfera magica. Altri, accarezzati dal tiepido vento di questo pomeriggio d’Agosto, vagano senza una meta precisa attraverso i cunicoli e lungo le passerelle color ocra rossa, zigzagando tra antiche
abitazioni, stalle, mercati, negozi, caserme. Ripassiamo tutti senza un ordine preciso davanti ad edifici di antica origine pre-islamica ma il cui maggiore sviluppo risale all’epoca sassanide, tra il 16° ed il 17° secolo. Ci immaginiamo le ronde notturne delle guardie, il nitrire dei cavalli al ritorno dai pattugliamenti nel deserto, il nervosismo per l’annuncio dell’invio di una ispezione dagli stati maggiori imperiali, lo sbraitare severo degli ordini degli ufficiali, l’eccitazione per l’arrivo di una ricca carovana di mercanti orientali. Qui, nell’epoca d’oro del periodo sassanide, abitavano svariate migliaia di persone, ed i militari l’hanno continuata ad usare fino agli anni trenta del XX secolo, ma oggi la fortezza ci appare tristemente deserta, e molte delle case alla base della cittadella sono crollate, i friabili muri di fango esposti agli elementi, le opere di restauro solo abbozzate.
Sugli spalti del torrione, con un panorama reso ancora più drammatico dal tramonto infuocato che scolpisce man mano le nuvole nel cielo incorniciato dalle file di merli, scattiamo le foto di gruppo. Quale scenografia più significativa potremmo mai incontrare nel resto del viaggio? Ci fanno compagnia alcune famiglie di turisti iraniani, certune tra le donne hanno tutto il corpo coperto dal ciador nero, e si aggirano, quasi furtive, evitando di passarci troppo vicino; altre hanno solo un velo in testa, le più audaci tra queste ultime con l’attaccatura dei capelli e, addirittura, qualche codino, nientepopodimenoche scoperto e visibile a noi infedeli! Ci scrutano... qualcuna ci filma con la telecamera digitale; accenniamo qualche elementare conversazione: questa ragazze, così simili alle europee per fattezze somatiche e così diverse per la mascherata loro imposta dal regime, costituiscono un ulteriore elemento di interesse e curiosità per noi e... viceversa noi per loro! Si incrociano gli sguardi attraverso i mirini ottici... Reza, il nostro autista, ed il suo assistente pulitore, sono già stati qui chissà quante volte, ma tornano in visita con noi, non si annoiano a rivisitare Bam per l’ennesima volta.
Finita, col sopraggiungere del buio, la visita, usciamo con il rammarico di non avere avuto più tempo a disposizione ma, si sa, questo è l’eterno cruccio di ogni viaggiatore motivato a conoscere l’oggetto del suo peregrinare; anzi, credo che un viaggio abbia pieno successo solo se, tornando a casa, ci si dia pena perché il tempo a disposizione non è bastato, perché solo così si può dire di aver sfruttato e goduto appieno di quello che si è avuto. Quando si visitano luoghi memorabili, che richiedono studio, riflessione, il tempo non basta mai, non può bastare. Mentre ci dirigiamo verso il bus, e riattraversiamo il parcheggio illuminato dalla luce giallognola riflessa sulle mura della fortezza dai potenti fari alogeni disposti tutt’intorno ad esse, non possiamo evidentemente sapere che, questa volta, l’addio sarebbe stato definitivo, irreversibile, finale.
Prima di riprendere la strada per Kerman decidiamo comunque di tentare una capatina al “Akbar Tourist Guest House” vedi mai si fossero liberate delle stanze? Potremmo passare qui la notte e tornare alla fortezza all’alba. Ma non c’è niente da fare, Akbar, il proprietario, ci accoglie cordialmente, ci fa vedere le stanze e usare la toilette, ci regala persino una scatola di datteri che sgranocchieremo avidamente sulla strada del ritorno, ma di posto, nelle sue grandi camerate, proprio non ce n’è. Il Sig. Akbar ci fa vedere con orgoglio le nuove camere che sta finendo di allestire, non sono ancora pronte, ma sicuramente ... nel 2004 ... saranno finite e potranno accogliere i turisti, ed aggiunge che a causa delle spese sostenute per le migliorie sarà anche costretto a ritoccare i prezzi. Prendo comunque tutti i dati e mi propongo di segnalarlo nella mia relazione, sperando che altri gruppo potranno essere più fortunati di noi.
Sulla strada del ritorno ci ferma la polizia, sale a bordo un barbutissimo Pasdaran armato fino ai denti: è la polizia politica quasi onnipotente ai tempi di Khomeini, il cui potere è oggi molto ridimensionato e sottoposto alla polizia “regolare” di stato, ed è impiegata per difendere la rivoluzione islamica non più dall’Irak di Saddam Hussein ma dai nemici interni. (Buffo come si parli di difendere la rivoluzione solo nei paesi dove questa è fallita, o è stata stravolta, deludendo le aspettative dei rivoluzionari: Iran, Cuba, Unione Sovietica fino al 1991, Zimbabwe, Cina; mentre le rivoluzioni di successo si dimenticano presto e non hanno più bisogno di essere “difese”, vedi quelle del Portogallo nel 1975, dell’Europa centro-orientale nel 1989, del Sud Africa, della Corea del Sud e di Taiwan negli anni novanta, per non andare indietro nel tempo a quelle di Francia, Inghilterra e Stati Uniti.) Il milite scende dopo una rapida occhiata tra i sedili... evidentemente non abbiamo l’aspetto dei contrabbandieri di oppio afgano. Meno fortunati altri veicoli iraniani che notiamo lungo la strada, che vengono ispezionati minuziosamente, con bagagli aperti e motori mezzi smontati per stanare gli stupefacenti. In Iran, secondo paese al mondo per numero di esecuzioni capitali dopo la Cina, per chi viene preso c’è l’impiccagione. Ciò non impedisce che l’oppio continui a fluire dall’anarchia dell’Afganistan verso i mercati clandestini di Tehran e di lì oltre, attraverso le montagne curde, verso la Turchia e l’Europa, ripercorrendo antiche strade che una volta ponevano Bam lungo una delle “vie della seta”, che oltre che della preziosa stoffa erano l’arteria di tutto il traffico commerciale tra Asia ed Europa, e ne avevano fatto la fortuna.
Leggo che ci si ripropone di ricostruire Bam, e che l’Italia si è offerta di contribuire tecnici e risorse per rimettere in piedi proprio la fortezza, che era il più grande edificio di mattoni e fango del mondo, e sono perplesso. La cittadina moderna, certo, risorgerà, i sopravvissuti avranno una casa sulla loro terra e potranno continuare a lavorarla, a produrre quelli che probabilmente sono i migliori datteri del mondo. Ma la fortezza? No, quella non potrà mai essere la stessa. Rifarla con i materiali e le tecniche di un tempo (mattoni crudi di argilla e fango, tronchi di palma) suona romantico ma sarebbe difficile, forse impossibile, e comunque, alla luce dei fatti, pericoloso. Ma non avrebbe neanche molto senso costruirne una brutta copia, magari di mattoni cotti e cemento armato.
La verità ineluttabile è che Bam non c’è più. Siamo stati fortunatissimi ad esserne stati tra gli ultimi testimoni ed abbiamo anche un briciolo di responsabilità a non farla dimenticare. Forse, chissà, in una situazione internazionale migliore, sarà possibile un giorno
ripassare da Bam sulla via dell’Oriente, magari per poi visitare l’Afganistan o il Pakistan occidentale, o lo stesso Balucistan iraniano, tutte mete ancora impraticabili. Forse questo potrà aiutare la gente di Bam a risorgere, a recuperare un ruolo nella vita del paese e nella coscienza storica internazionale. Spero di poter portare presto un gruppo a percorrere uno di questi itinerari; se sarà possibile, ci fermeremo sicuramente a Bam. Chissà, forse il Sig. Akbar, che nel terremoto ha perso, oltre all’azienda, anche il figlio che avrebbe dovuto prenderne le redini, avrà rimesso in piedi il suo albergo, potremo ancora sgranocchiare i suoi datteri e non mancheremo di avvicinarci ai tristi ruderi della cittadella di Buzzati, De Chirico e Zurlini e forse, all’imbrunire, udiremo ancora, tra le macerie silenziose, la debole eco dei passi della ronda, del nitrito dei cavalli e delle grida perentorie degli ufficiali persiani...
Una versione di questo post è stata pubblicata su Avventure nel Mondo.
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