Comunità degli Stati Indipendenti
Nel periodo in esame si è assistito alla frammentazione dell'URSS e alla costituzione da parte di undici delle ex-repubbliche (escluse le tre baltiche e la Georgia) della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). La creazione della CSI è stata sin dall'inizio parvasa da ambiguità istituzionali: la sovrapposizione di competenze (ovvero il vuoto delle medesime) tra istituzioni della Comunità e dei singoli stati ha fatto sì che nel corso del 1992 siano rimaste in una sorta di limbo numerose e vitali questioni di carattere politico, economico e militare.
Dovendo semplificare, si nota come i problemi principali nella divisione hanno toccato in primo luogo il territorio e le minoranze etniche. Prima fra tutte si ricorda la contesa sulla Crimea tra Ucraina e Russia, ma nel sottofondo si intravvedono problemi ancora più gravi tra Russia e Kazakhstan e tra Moldova e Ucraina. La guerra tra armeni e azeri ha continuato a piagare il Caucaso meridionale, mentre in Georgia settentrionale sono esplose violentemente—anche se rimangono circoscritte—le rivendicazioni degli osseti e degli abkhazi.
In secondo luogo, le ex-repubbliche sovietiche hanno negoziato la ripartizione delle forze armate ex-sovietiche. In questo ambito si sono raggiunti accordi (la cui implementazione però richiederà tempo) sulla riassegnazione delle forze nucleari strategiche alla Russia (quelle tattiche sono state tutte trasferite in territorio russo durante la prima metà dell'anno) e sulla suddivisione delle quote di forze convenzionali cui aveva diritto l'URSS in base al trattato CFE.
Infine, numerose trattative sono state avviate sulla suddivisione delle infrastrutture ex-sovietiche, dei beni mobili e immobili e del debito estero. Alla fine del 1992, con tutte queste trattative ancora in fase di risoluzione o di implementazione, i rapporti tra gli stati della CSI rimangono caratterizzati da incertezza diffusa, anche se si prende atto che nessuna disputa connessa alla disgregazione sovietica è risultata ancora in guerra aperta tra le repubbliche.
Per il 1993, le prospettive sono quindi contraddittorie. In alcuni settori, primo fra tutti quello militare, si prefigura una risoluzione del contenzioso sulla flotta del mar Nero ed una stabilizzazione del processo di ripartizione delle altre forze armate, che saranno comunque ridotte da tutti gli attori principali. Il problema più grave sarà invece quello di controllare l'esportazione del sovrappiù verso paesi terzi, che si sta già verificando e comporta seri problemi di proliferazione, specialmente in Medio oriente.
In altri settori il panorama è meno incoraggiante: si delinea chiaramente il fallimento della riforma economica in Russia, con gravi possibili conseguenze sociali. Il pericolo di un ritorno di fiamma autoritario, acceso da quella che sta diventando una bizzarra alleanza tra militari, burocrati ex-comunisti e nazionalisti di destra, potrebbe essere reso più grave dal disorientamento politico generale, dal crollo della popolarità di Eltsin, da contenziosi nazionalistici alla periferia della federazione e dalla mancanza di credibili alternative democratiche.
Relativamente stabilizzata la situazione nelle altre repubbliche europee, mentre verso est e verso sud si nota il ristabilimento, o meglio il mantenimento, di una forte influenza russa. In Asia centrale Mosca sta trovando una inaspettata intesa politica con la Turchia. In queste repubbliche, c'è un rafforzamento al potere degli apparati ex-sovietici, tutti contraddistinti, se pur in misura variabile, dall'inalberamento della bandiera nazionalista (o persino religiosa, si noti il battesimo del presidente goergiano Shevardnadze!) al posto di quella comunista.
Balcani
Contemporaneamente al disfacimento istituzionale dell'URSS, si ratifica nel gennaio 1992, con il riconoscimento europeo a Croazia e Slovenia, lo smembramento definitivo della Jugoslavia. Risolto il conflitto sloveno già nell'estate del 1991, quello croato si bloccava nel corso della prima metà del 1992 con un sostanziale stallo militare che vedeva le forze serbe occupare circa un terzo della Croazia e le forze del corpo di interposizione ONU (UNPROFOR) attestarsi in regioni contese della Croazia orientale e meridionale.
Il riconoscimento senza condizioni, contrariamente a quanto raccomandato dallo stesso rapporto comunitario "Badinter", apriva la strada ad una complessa problematica regionale legata al rafforzamento del principio del diritto allo stato nazionale, precedente pericoloso e foriero di un'inestricabile matassa di irredentismi intrecciati. Il riconoscimento, voluto fortemente da Bonn, e contemporaneo all'inizio in dicembre di una politica monetaria tedesca generalmente percepita come in contrasto con gli accordi di Maastricht appena firmati, è stato un segnale importante anche in ambito intra-occidentale: ha segnato la prima decisa riasserzione della politica estera nazionale della Germania unificata.
In primavera si assisteva all'espansione del conflitto alla Bosnia-Erzegovina, riconosciuta dall'occidente in Aprile, con gli slavi musulmani stretti fra un'equivoca alleanza tra serbi, croati e milizie irregolari autoctone filo-serbe. Gli orrori di questo conflitto, particolarmente cruento e senza apparente solubilità, hanno fatto crescere un senso di frustrazione e di impotenza in Occidente, in contrasto con la motivazione che aveva spinto all'intervento contro l'Iraq nel 1991. Al crescente consenso sulla necessità di fare qualcosa, si abbinava infatti la realizzazione che un impegno militare sarebbe stato ben più impegnativo e pericoloso di quello in Kuwait dell'anno precedente.
Prospettive
L'Occidente ha sempre identificato la stabilità con il mantenimento dello status-quo: invece, appariva chiaro almeno dalla fine del 1990 che lo status-quo gorbacioviano non era stabilizzante ma comprimeva (ritardandola, ma allo stesso tempo rendendola più potente) una epocale esplosione dello stato e del partito.
Gorbaciov ha svolto il suo ruolo storico nel dare il primo, decisivo scossone all' elefantiaco impero sovietico, ma non voleva (e comunque non avrebbe saputo) gestire la transizione verso la democrazia ed il mercato.
Parimenti, l'Occidente appoggia oggi Eltsin nella convinzione che la sua caduta sarebbe foriera di destabilizzazione; ma Eltsin, che ha svolto il suo ruolo storico nel cancellare il regime sovietico, rivoluzionario di indubbie doti carismatiche e trascinatore di popolo, non è uno statista in grado di governare una democrazia.
Il problema oggi per i democratici sovietici (che l'Occidente vorrebbe aiutare) non è mantenere al potere Eltsin ma trovare rapidamente un credibile successore.
Di fronte a queste difficoltà di Mosca, l'atteggiamento dell'Occidente è stato politicamente e soprattutto economicamente cauto. All'appoggio entusiasta verso l'ammorbidimento gorbacioviano del comunismo prima, e al colpo di grazia infertogli da Eltsin poi, non faceva infatti riscontro il massiccio impegno economico e finanziario che era stato richiesto dall'URSS prima e dalla Russia e dalla altre repubbliche poi. Gli aiuti economici sono stati esigui, e gli investimenti hanno stentato a decollare a causa dell'elevato rischio politico del paese.