Lo
sfondo storico e culturale
La
Jugoslavia è il più giovane dei paesi della regione balcanica,
e quello più debole dal punto di vista dell'identità nazionale.
Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni fu infatti fondato solo dopo la
prima guerra mondiale, in gran parte su insistenza del presidente
americano Wilson, in base al principio dell'autodeterminazione dei
popoli che era stato universalmente sancito nei Quattordici punti del
presidente americano in occasione delle trattative di pace. Il
prevalere del concetto "jugoslavo" fu per molti una
sorpresa, in quanto nella seconda metà del XIX secolo le due
alternative più probabili per l'unificazione politica dell'area
erano quella di una "Grande Serbia" e quella di una "Grande
Croazia". Più di settant'anni dopo l'unificazione, questa
vecchia contrapposizione tra le due maggiori etnie si ripropone come
la principale fonte di attrito civile nel paese.
In
parte a causa del riaccendersi di questa contrapposizione, in una
regione da sempre generatrice di equilibri politici precari è
proprio la Jugoslavia che oggi pone i maggiori problemi alla
stabilità ed alla pace. Stato mosaico di popoli e di
nazionalità (l'ultimo censimento, del 1981, ne ha contate 24, oltre
a quanti si sono dichiarati "jugoslavi" e basta, e sono più
di 1 milione). Senza entrare troppo nel dettaglio in questa sede, la
situazione storico-politica del paese si può schematizzare
sottolineando che esiste una divisione in due parti componenti
principali: la Slovenia e la Croazia a nord-ovest: qui vivono in
prevalenza etnie cattoliche, pro-occidentali e relativamente più
ricche. Per contro, la Serbia, il Montenegro e la Macedonia a
sud-est, sono ortodosse e meno orientate verso l'Occidente,
oltre che più povere e nazionaliste. Al centro, la
Bosnia-Herzegovina, povera e con una forte componente musulmana,
ha una posizione cerniera che potrebbe risultare decisiva per il
futuro dell'unità del paese.
Queste
contrapposizioni culturali, religiose ed economiche sono state
represse dal 1945 al 1989. Infatti, a fronte delle tante disfunzioni
che il comunismo ha portato alla Jugoslavia ed alla regione balcanica
nell'insieme, si deve notare come il centralismo marxista (dentro e
fuori la Jugoslavia, dentro e fuori al Patto di Varsavia) abbia
prodotto una parentesi stabilizzatrice nella tumultuosa storia
balcanica. Questa anomala parentesi si è ormai conclusa e la regione
è ricaduta in una più tipica situazione di crisi e conflittualità
permanente. La Jugoslavia è oggi il paese balcanico più
pericolosamente minacciato dalla trasformazione post-comunista, ed il
pericolo non riguarda solo i vari popoli di quel paese; l'esperienza
storica insegna quanto sia facile che nei balcani l'intrecciarsi di
rivalità tra etnie e la quasi totale non corrispondenza tra stati e
popoli costituisca una miscela incendiaria con caratteristiche di
rapida propagazione.
Il
Comunismo Jugoslavo nel Dopoguerra
L'alleanza
anti-tedesca e la comunanza ideologica tra Stalin ed i partigiani
comunisti jugoslavi (principali autori della liberazione del paese)
produceva quella che sembrava, nel 1945, una solida alleanza tra
Mosca e Belgrado. Ma quasi subito si sviluppava un profondo dissenso
sulla politica da seguire nella nuova Europa post-bellica. Un luogo
comune che si deve rifiutare è che il dissidio tra Stalin e Tito sia
stato provocato dal fatto che questi era sì un comunista ma anche un
"nazionalista", e questo avrebbe interferito con i piani
egemonici di Stalin. Al contrario, Tito era più coerentemente
internazionalista di Stalin in politica estera. Per esempio, egli si
batté per estendere aiuti militari ai comunisti di Grecia, ma fu
fermato da Stalin che non intendeva rischiare un confronto con gli
USA nel violare gli accordi di Jalta, in base ai quali la Grecia
rimaneva nella sfera occidentale. Persino dopo l'espulsione dal
Cominform (a Belgrado benignamente giudicata uno "sbaglio")
Tito continuava la professione di fede nel movimento comunista
internazionale e in Stalin stesso.
In
questo senso, c'è un denominatore comune tra il rapporto
jugo-sovietico degli anni quaranta, quello sino-sovietico dei tardi
anni cinquanta e primi sessanta, e quello tra URSS e Cuba negli anni
sessanta e settanta: in tutti questi casi, i partner minori
spingevano per una maggiore audacia e spericolatezza
internazionalista nell'esportazione del comunismo, mentre Mosca
frenava per paura di scatenare un conflitto Est-Ovest. Il tutto
mantenendo una politica interna ed economica più ortodossamente
marxista di Mosca.
Un
miglioramento delle relazioni bilaterali seguiva la morte di Stalin,
soprattutto per iniziativa di Khrushchev. La Jugoslavia non è però
mai rientrata nei ranghi sovietici, né come stato né come partito.
Anzi, nel 1954 Tito concludeva un sorprendente patto di difesa
militare con Grecia e Turchia, i due paesi NATO della regione
balcanica. Non migliorano però in questo periodo neanche i rapporti
con altri paesi occidentali o con gli USA, che rimangono scettici, se
non sospettosi, dell'affidabilità dell'eretico comunista balcano.
In
politica interna ed economica, Belgrado all'inizio seguiva il modello
dello sviluppo a tappe forzate che ricalcava i primi piani
quinquennali dell'URSS. Così fu attuata una rapida
collettivizzazione dell'agricoltura e fu data massima priorità
all'industria pesante dello stato. Dal 1952 era cominciata però a
cambiare l'impostazione ideologica del Partito Comunista Jugoslavo,
che prendeva il nome di Lega dei Comunisti Jugoslavi (LCJ) per
sottolineare l'abbandono del centralismo strutturale e l'adozione di
un modello che garantiva larga autonomia alle organizzazioni locali.
Su tutti, ovviamente, dominava la figura di Tito, unico leader
carismatico capace di controllare le divisioni entiche all'interno
dello stesso partito.
Parallelamente
al processo di decentralizzazione nel partito iniziato nel 1952, la
LCJ decideva per l'abbandono del modello economico staliniano, che
già cominciava a rivelare le sue inadeguatezze e mal si conciliava
con il venir meno del potere altamente centralizzato, in favore
dell'autogestione delle imprese da parte dei consigli di fabbrica. In
breve, tra le maggiori peculiari conseguenze che l'autogestione
comportava si possono sottolineare: in primo luogo, la proprietà
sociale al posto di quella statale; quindi, la programmazione
produttiva autonoma nelle imprese; il sistema di mercato al posto
dell'allocazione centralizzata per le materie prime; un certo grado
di responsabilizzazione finanziaria; salari auto-gestiti dai
lavoratori. Da allora, si è verificata un'altalena di
centralizzazione e decentralizzazione, cercando invano la via
ottimale del "socialismo di mercato".
L'autogestione
e la relativa apertura con l'economia mondiale migliorava
temporaneamente l'andamento dell'economia del paese. Di indubbio
valore per una generazione di jugoslavi sono stati il dinaro
convertibile, la libertà di viaggiare, la crescita del tenore di
vita, moderata se paragonata all'Occidente ma migliore di quella dei
paesi del Comecon.
Questo
processo culminava nella creazione del cosiddetto sistema della
"autogestione integrale", codificato fra il 1974 e il 1976
da complessi ordinamenti costituzionali e legislativi, che ha
rappresentato nell'immediato uno strumento articolato capace di
assorbire in parte i conflitti sociali, attutendo e rinviando nel
tempo gli impatti più dolorosi della crisi. Così come era stata
"più comunista dei comunisti" del Comecon nell'immediato
dopoguerra, la Jugoslavia divenne presto la "più riformista dei
riformisti".
Nel
frattempo, la società cresceva e maturava, in parte grazie ad una
liberalità politica e culturale maggiore rispetto agli altri paesi
dell'Europa orientale; in parte a causa di un'urbanizzazione diffusa
e, sulla costa, di un terziario in rapida espansione, in parte,
infine grazie ai contatti sempre più stretti stabiliti con il mondo
esterno. Economicamente, però, la Jugoslavia rimaneva "in mezzo
al guado", ossia senza un vero mercato (esso operava sì, ma
solo parzialmente) e senza più vecchi strumenti della
pianificazione, già abbandonati nel corso degli anni Cinquanta. Di
fatto, si era venuto creando un sistema "ibrido" in cui il
governo federale si trovava privo di efficaci strumenti di
coordinamento generale, benché potenti leve di controllo sul sistema
fiscale e finanziario fossero rimaste prerogative o della Federazione
o, successivamente, degli organismi repubblicani e regionali.
Al
forte decentramento economico e amministrativo corrispose, inoltre,
il mantenimento della capacità d'intervento della Lega dei comunisti
che ora, attraverso numerosi centri di irradiazione del potere
burocratico (Repubbliche, Regioni, Comuni), riusciva a condizionare
gli orientamenti delle imprese, delle banche, così come la gestione
dei servizi e delle attività sociali.
In
definitiva, i rapporti economici in una Jugoslavia "senza piano
e senza mercato", ma in tumultuoso sviluppo, erano stati
affidati ad un complicato sistema di "accordi" fra imprese
o fra diversi soggetti costituzionali, di natura politica ed
economica, che interagivano: tale sistema operò peraltro in modo
disarmonico e in assenza di regole omogenee, provocando spesso enormi
difficoltà gestionali e sprechi, dissipando infine le risorse
finanziarie che il governo jugoslavo aveva ottenuto dagli Istituti
mondiali di credito.
Alla
lunga, è emerso che l'autogestione conteneva in sé il seme della
propria rovina: non controllava la crescita della massa monetaria e
quindi l'inflazione, che portava di fatto nel 1988-1989 alla perdita
della convertibilità. Né istituiva un sistema di incentivi e di
concorrenzialità tali da favorire l'innovazione tecnologica, gli
investimenti stranieri, la produttività.
In
politica estera, nel 1956-1957 si definisce la scelta non-allineata
della Jugoslavia. Tito contribuisce alla fondazione ed allo sviluppo
del movimento, dove è il principale tra gli attori europei. Per tre
decenni, il movimento sarà un punto di riferimento per decine di
stati in tutto il mondo, nuovi e vecchi, in cerca di un riferimento
che prescindesse dalla guerra fredda tra Est ed Ovest.
Parallelamente,
inizia una rapida apertura economica verso l'Occidente, accompagnata
da una massiccia emigrazione di manodopera, soprattutto in Germania.
In misura minore, a causa della mancanza di fondi, tecnici e studiosi
jugoslavi cominciano a frequentare le migliori istituzioni di ricerca
occidentali.
Era
chiaro già al tempo che Tito era la maggiore forza coagulante del
paese. Nonostante i suoi sforzi per preparare la successione,
l'attuale crisi è stata una tragedia annunciata. La costituzione del
1974 istituisce un complesso schema di divisione del potere tra le
repubbliche costituenti, sulla base del principio che la leadership
federale doveva essere esercitata collettivamente per impedire il
prevaricare delle repubbliche più forti su quelle più deboli.
Questo sistema però da un vero potere di veto alle repubbliche nella
presidenza collettiva, paralisi di governo. La Serbia è la più
scontenta, in quanto vede sminuirsi ulteriormente la propria
posizione di predominanza.
In
Jugoslavia gli anni Ottanta coincidono con l'inizio del "dopo-Tito".
Nell'arco di questo decennio, le sue strutture economiche, sociali e
istituzionali sono state sottoposte a una costante pressione da parte
di una crisi divenuta via via sempre più profonda e che, partendo
dall'economia, si è allargata, a cerchi concentrici, fino ad
investire la politica, i rapporti etnico-nazionali, le prospettive
ideali, i legami culturali di tutto il paese.
Dopo
la morte di Tito, rimaneva l'altra grande colla che aveva contribuito
a sostenere un senso di "nazione" tra gli jugoslavi: la
minaccia sovietica. Dal 1948 all'avvento di Gorbaciov il timore di
interferenze sovietiche, e di un possibile intervento armato, era
stata la maggiore preoccupazione di politica estera di Belgrado. Le
relazioni bilaterali con Mosca avevano conosciuto fasi alterne, ma
rimaneva la possibilità che un cambiamento di leadership
al Cremlino, u una crisi militare in Europa, avrebbero provocato uno
scontro. Si ricordi, a questo proposito, come nei giorni
immediatamente successivi alla morte di Tito (che avveniva poche
settimane dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan) nei principali
aeroporti jugoslavi venivano spiegate ingenti forze anti-aeree.
Recenti
sviluppi politici
Politica Interna
All'inizio
del 1989 il sistema post-Tito avviato nel 1974 mostrava preoccupanti
crepe. Queste si sono manifestate soprattutto a livello di relazioni
inter-repubblicane ed all'interno della Serbia. Questa era stata
ampiamente ridimensionata sul piano territoriale nel 1974, allorché
ampi poteri vennero attribuiti alle sue due Regioni autonome: la
Vojvodina (con una popolazione etnicamente assai frammentata, in cui
fra gli altri trovano posto 70.000 Slovacchi, 20.000 Russini, 47.000
Romeni, 110.000 Croati ma che, soprattutto, conta una robusta
minoranza ungherese - pari al 19% - e una maggioranza serba pari al
53%) e il Kosovo (dove, secondo le stime più recenti - in attesa del
censimento del 1991 - gli Albanesi costituirebbero ormai il 90% della
popolazione contro il 9% di Serbi e Montenegrini e un 1% di Turchi).
Nel
1989 le repubbliche jugoslave decidevano all'unanimità di modificare
la Costituzione del 1974 per ridimensionare i poteri delle Regioni
autonome (Kosovo e Vojvodina) e venir così incontro ad una richiesta
di uguaglianza della Repubblica serba. Questa vedeva infatti (non
completamente a torto) un impedimento grave negli estesi poteri
concessi nel 1974 alle due province al suo interno, che spesso
paralizzavano il funzionamento dell'apparato repubblicano; questa
situazione era peraltro unica in Serbia, la sola repubblica ad avere
tali regioni al suo interno. Le altre repubbliche accettavano di buon
grado perché anche loro contribuivano a fornire ingenti aiuti
economici alle due regioni la cui spesa non poteva però poi essere
controllata a livello federale. Le repubbliche più ricche del nord
avevano infatti provveduto ad un notevole trasferimento di ricchezza
verso le due suddette regioni attraverso un fondo speciale per le
aree sottosviluppate, e questo aveva accresciuto il malcontento di
strati della popolazione più inclini a considerare quelle provincie
una specie di "pozzo senza fondo": la cultura del sospetto,
la diffidenza, perfino il razzismo hanno così trovato ricco
alimento.
Parallelamente
alla decentralizzazione economica, si attuava in Jugoslavia, prima di
fatto e poi di diritto, l'introduzione del multipartitismo. La Lega
dei Comunisti Jugoslavi (LCJ) ha rinunciato al monopolio del potere,
ed è passata all'opposizione in tutte le maggiori repubbliche tranne
la Serbia. La Lega ha in realtà cessato di esistere in quanto tale
quando ne è uscita la delegazione del partito sloveno, al tempo del
Congresso del gennaio 1990, quando i serbi rifiutarono di attuare un
completo stravolgimento dell'ordinamento dello stato e del partito su
linee parlamentari e confederali. Le successive riforme e
democratizzazioni attuate sono state un classico caso di concessioni
fatte sotto pressione quando è troppo poco e troppo tardi; il
congresso fu ufficialmente "sospeso", ma di fatto la LCJ si
è dissolta. I comunisti (rinominatisi, come molti loro colleghi un
po' in tutta Europa, socialisti) hanno perso il potere in Slovenia,
Bosnia-Herzegovina, Macedonia e Croazia. In Serbia il processo di
democratizzazione non si è ancora completato, come dimostrato
dall'esclusione di alcuni partiti albanesi ed dal conseguente
boicottaggio delle elezioni nel Kosovo.
Certo
non contribuisce a migliorare le prospettive la carenza di figure
popolari in tutto il paese. Il Primo Ministro Markovic forse lo sta
diventando grazie al relativo successo economico del suo programma,
ma la sua popolarità potrebbe soffrire dalle dislocazioni economiche
che le sue riforme stanno producendo. L'esempio di Mazowiecki in
Polonia può essere illustrativo delle prospettive di Markovic.
Nei
paragrafi che seguono si vuole fornire un quadro, se pur schematico,
della situazione politica nelle varie repubbliche della federazione.
In Serbia, pochi mesi dopo la disintegrazione della LCJ al 14
congresso, i comunisti serbi cambiavano nome in "socialisti";
contemporaneamente si autorizzava la registrazione di partiti
d'opposizione. In forte crescita il nazionalismo, strumentalizzato
dal presidente repubblicano Milosevic ai fini di un'espansione del
predominio serbo.
Esplosiva
la situazione nel Kosovo. Belgrado accusa le autorità locali di
separatismo, di aver obbligato le popolazioni di minoranza (Serbi e
Montenegrini) ad emigrare forzatamente nel corso degli anni ottanta.
I Kosovini sostengono di volere solo la dignità di repubblica
federata. Il conflitto probabilmente è irrisolvibile. L'Albania
cerca in qualche modo di internazionalizzare la questione sulla base
del principio, contenuto anche nella Carta dell'ONU, che il perorare
i diritti fondamentali non si può fermare per motivi di
non-interferenza negli affari interni di uno stato. Ma Tirana, che
certo avrebbe difficoltà a difendere il proprio recente operato in
materia di diritti umani, evidentemente strumentalizza l'argomento
per fini nazionali. Con l'attuale tendenza di crescita demografica,
quella albanese sarà la terza nazionalità jugoslava nel 2000; la
soppressione delle rivolte di piazza di questi mesi, e l'abolizione
dell'autonomia regionale difficilmente contribuiranno a consolidare
una soluzione stabile del problema.
Il
Montenegro è relativamente tranquillo. La dirigenza è
pro-Milosevic, ed i montenegrini sono stati gli unici a non disertare
il 14 Congresso della LCJ dopo l'abbandono degli sloveni e dei
croati. Nella repubblica sono tuttavia presenti elementi
nazionalistici latenti, specialmente nella Chiesa ortodossa locale.
Anche
la Macedonia è stata generalmente pro-serba, in quanto entrambe le
repubbliche temono la crescita demografica degli albanesi; ma qualche
dissenso è stato creato dal progetto di nazionalisti serbi di
assorbire la Macedonia in una Grande Serbia. I Macedoni, che
costituiscono il 65% della popolazione della loro Repubblica, sono
particolarmente attenti a quanto avviene in Kosovo in quanto
anch'essi debbono fare i conti con una robusta presenza albanese (il
20% degli abitanti della Macedonia), a cui si aggiungono
significative minoranze romene e turche.
Completamente
diversa la situazione in Slovenia: gli Sloveni sono i più ricchi tra
gli jugoslavi, il loro tenore di vita è persino stato superiore a
quello dell'Austria negli anni settanta. Sono stati loro a far
precipitare la crisi della LCJ nel 1990 quando sono stati i primi a
lasciare il Congresso e a dichiarare la propria sovranità.
Ufficialmente dichiarano di non volere l'indipendenza politica piena
ma la "sovranità" all'interno della Yugoslavia. In
pratica, è difficile che una volta mossisi in quella direzione i
dirigenti sarebbero in grado di regolare la spinta emotiva della
gente così micrometricamente.
In
Croazia la dichiarazione di indipendenza non è stata ancora
formalizzata ma i dirigenti locali hanno asserito il diritto di farlo
quando crederanno. La milizia locale è particolarmente forte: il
generale Martin Spegelj, "ministro della difesa", è stato
per questo accusato di terrorismo da Belgrado, e i militari serbi
hanno cercato invano di arrestarlo ma non hanno forzato per non
provocare uno scontro di piazza con la polizia croata.
In
Bosnia-Herzegovina il capo carismatico è il presidente Izetbegovic,
leader
del partito musulmano. Ex-dissidente, ha scontato più di un decennio
di carcere al tempo di Tito ma anche negli anni ottanta. Governa con
l'appoggio di Serbi e Croati in una fragile coalizione, ma la
maggioranza della popolazione è anti-serba.
Politica Estera
Con
la fine della contrapposizione tra i blocchi, la Jugoslavia sta
cercando con fatica una nuova identità internazionale. Dal 1957
Belgrado si è costantemente collocata su posizioni strettamente
nonallineate, facendo della neutralità nella contrapposizione
Est-ovest l'asse portante della propria politica estera. Il venir
meno di tale contrapposizione ha reso questa collocazione meno
significativa, e favorisce un nuovo orientamento della Jugoslavia
verso l'Occidente.
Le
risoluzioni dell'Assemblea Federale del 17 gennaio 1990 sintetizzano
la nuova linea di politica estera del paese: priorità ad un'azione
di pressione sulla Cee per accelerare il più possibile accordi di
associazione per pervenire poi all'adesione piena. Disponibilità ad
entrare nell'EFTA, cosa politicamente forse più facile ma
economicamente proibitiva, data la forza economica di quei paesi e la
mancanza nell'EFTA di meccanismi per il trasferimento di risorse alle
regioni più del Consiglio d'Europa e dell'OCSE. Infine, interesse ad
approfondire le collaborazioni regionali; tra queste, priorità a
quelle con i paesi del "nord" della regione, e cioè
l'Alpe-Adria e la Pentagonale, ma forte enfasi anche sulla
cooperazione inter-balcanica.
Mentre
nelle prime due iniziative la Jugoslavia ha più che altro seguito le
iniziative prese da altri, l'attivismo della diplomazia jugoslavia si
è focalizzato soprattutto verso i Balcani: Belgrado ha convocato la
Conferenza inter-balcanica di Belgrado del 16 febbraio 1988 che ha
costituito, indubbiamente, un evento regionale inedito e di grande
rilievo. Naturalmente, non si sono verificati allora atti clamorosi
(ma nessuno se li aspettava), né si è registrata alcuna "svolta
storica" nelle relazioni interbalcaniche. L'importanza di
quella riunione, infatti, non sta solo nella partecipazione attiva di
tutti i paesi dell'area (ivi compresa l'Albania), quanto negli
approcci culturali e metodologici comuni che sono prevalsi. É
maturata, insomma, una convinzione da tutti condivisa e secondo cui
il superamento dell'arretratezza balcanica è strettamente connesso
ad una nuova visione delle relazioni internazionali e della
sicurezza, in rapporto anche ai principi sanciti nell'Atto finale di
Helsinki. Dalle decisioni allora scaturite, dalla scelta di
privilegiare nella collaborazione regionale alcuni settori cruciali
come il turismo, i trasporti, lo scambio di tecnologie, la
salvaguardia dell'ambiente e di procedere alla fondazione di un
comune istituto di ricerca si avverte un'esigenza che va ben oltre
una prospettiva di riavvicinamento fra i popoli, agevolata
dall'intesificazione degli scambi.
Da
tutto ciò si percepisce, infatti, una maggiore consapevolezza del
fatto che i singoli paesi balcanici non sono in grado di uscire
dall'arretratezza e dal sottosviluppo se non attraverso la
convergenza degli sforzi. Mere strategie nazionali non sono infatti
più adeguate ad assicurare un riordino e un rilancio di economie
disastrate, tanto più allorché questi problemi investono Stati ad
economia debole. Ciò spiega perché, già a Belgrado, quando ancora
erano ben vive vecchie barriere ideologiche e non sembrava alle porte
un sommovimento radicale in molti di quei regimi, si fosse comunque
parlato della necessità di una convergenza con la Comunità Europea,
in modo che gli sforzi avviati nel Sud-Europeo venissero agevolati da
una collaborazione in grado di rivelarsi rispondente all'interesse di
tutta l'Europa, sotto il profilo della pace e della sicurezza, così
come del progresso e dello sviluppo.
Sempre
a Belgrado, inoltre, tutti hanno convenuto che il problema delle
minoranze debba essere affrontato con comprensione e tolleranza,
considerandole un "ponte" fra gli Stati e non uno strumento
di divisione e contrapposizione. in parte retorica, ma in parte
sincero desiderio dei governi di superare un problema comune
Da
allora la collaborazione interbalcanica ha prodotto innumerevoli
incontri (una dozzina nel solo 1989, oltre 40 nell'ultimo biennio,
mentre altri 12 sono già stati convocati per il 1990) su numerose
questioni di interesse comune. Particolare convergenza è stata
raggiunta sulle questioni relative alla lotta al narcotraffico, al
terrorismo internazionale e al traffico illegale di armi
(orientamento, questo, niente affatto scontato). Un buon livello di
convergenza si è registrato anche sulle questioni dei trasporti
interregionali, mentre fervono i preparativi per la fondazione
dell'Istituto Bancario di cooperazione economica, con sede ad Atene.
Più complessa, invece, è apparsa la ricerca di accordi su questioni
tanto cruciali quanto delicate, come la convocazione di una futura
riunione dei Capi di Stato (su cui hanno insistito in particolare i
Romeni), la creazione di una zona denuclearizzata, il rispetto dei
diritti umani e delle minoranze.
Sul
piano più prettamente politico, invece, si fa largo la proposta di
creare un gruppo parlamentare di amicizia e cooperazione
interbalcanica, mentre, sotto il profilo della cooperazione
economica, la Jugoslavia ritiene maturo il momento per stabilire più
stretti contatti fra i presidenti delle Camere economiche o di
commercio al fine di studiare le condizioni per creare una Camera
economica balcanica. Nel frattempo, Belgrado vorrebbe ospitare una
Fiera balcanica a cadenza annuale e Novi Sad si prepara ad agire
nella medesima direzione per quanto riguarda il settore
dell'agricoltura.
Politica
economica
Riforme economiche
Durante
gli anni settanta, come in altri paesi ad economia pianificata, il
debito estero della Jugoslavia cresceva ben oltre quanto potesse
utilmente essere assorbito dal sistema. Approfittando dalla
propensione occidentale a prestare le ingenti quantità di
petrodollari disponibili sul mercato finanziario, Belgrado si
indebitava per oltre 20 miliardi di dollari, fin al punto che il
servizio del debito estero diventava insostenibile per la fragile
economia del paese.
L'eccessiva
domanda interna (ovviamente colpa dell'autogestione, che faceva
lievitare troppo i salari) cui si affiancava una scarsa capacità di
esportazione, portava al crollo della "credit-worthiness"
del paese, su cui cominciavano a fare pressioni le istituzioni
finanziarie internazionali. Già dal 1983, sotto pressione del FMI,
iniziavano le prime timide riforme, ma fallivano per l'incapacità
del governo federale di imporre sacrifici sostanziali alla
popolazione. Questi abbozzi di riforma erano però sufficienti a
fomentare l'insoddisfazione delle masse col governo federale, ed a
far crescere il nazionalismo fino ad allora latente.
Parallelamente,
comiciava a lievitare l'inflazione, che raggiungeva il 250% alla fine
del 1988 ed andava ben oltre il 2000% alla fine del 1989. Il debito
estero era in quel momento oltre i 23 miliardi di dollari; la
disoccupazione ufficiale era del 15%, ma andava in realtà
probabilmente oltre il 20%; il reddito pro-capite diminuito tra il
1980 ed il 1990 del 25% circa.
La
prima stretta di austerità veniva implementata già durante il 1989,
e cominciava a produrre qualche risultato già all'inizio del 1990:
per la prima volta dopo un decennio la Jugoslavia registrava un
surplus commerciale, accresceva le proprie riserve valutarie fino a
oltre 10 miliardi di dollari, e iniziava a ridurre il debito estero,
che scendeva a 16 miliardi. in miglioramento anche la produzione
industriale (+2%), e quella agricola +6%. Dal 1 gennaio 1990 si
ripristinava la convertibilità del Dinaro il cui cambio viene
fissato per sei mesi a sette nuovi dinari per un marco tedesco.
Restaurata anche la libertà di cambio valutario per gli Jugoslavi.
Il
programma economico nazionale era stato architettato con la
consulenza del famoso economista della Harvard University Sachs, che
era stato consigliere di altri paesi in situazioni analoghe. Si
provvedeva anche al congelamento di salari e prezzi per sei mesi, che
anche se non sarebbe stato applicato alla lettera sarebbe comunque
stato sufficiente per produrre i primi risultati di cui si è
accennato.
Nonostante
tutto, però, (o forse proprio a
causa delle riforme)
le disparità tra le repubbliche continuano, anzi forse aumentano: le
entrate di valuta pregiata sono in gran parte concentrate nelle casse
di Slovenia e Croazia, più agili nella trasformazione e più
produttive. D'altro canto, la riduzione delle sovvenzioni alle
imprese meno efficienti delle repubbliche più povere certo non
facilita la transizione di queste verso la democrazia e la
privatizzazione.
Tuttavia, la politica pesantemente deflattiva seguita da Belgrado
deve ancora fare i conti con le prevedibili, pesanti ripercussioni
sociali e nazionali a cui darà luogo. Ammesso che la manovra
economica riesca a dare i suoi frutti, (già dalla seconda metà del
1990 si è registrata una ripresa dell'inflazione) le peggiori
difficoltà di adattamento al sistema capitalistico devono ancora
essere affrontate. La bilancia commerciale recentemente è tornata ad
essere in passivo. Secondo calcoli dello stesso governo federale la
produzione industriale nel 1990 avrebbe nuovamente subito un calo
rispetto al 1989, la cui entità è difficile da giudicare ma che
oscillerebbe intorno al 10%. Inoltre, un terzo delle aziende è in
passivo e dovrebbe chiudere: la maggioranza di esse, però, opera
nelle aree depresse del paese e soprattutto nel Sud (Serbia,
Macedonia, Kosovo, Bosnia e Montenegro).
Rapporti
economici con l'estero
Si
è detto come, convinti di possedere il "sistema sociale del
futuro" (ossia l'autogestione) i comunisti jugoslavi decisero,
alla metà degli anni sessanta, ed ancor più nel decennio
successivo, di accrescere il ricorso al prestito internazionale. Già
alla fine degli anni Sessanta, però, era venuto meno il coraggio di
condurre fino in fondo la riforma economica varata nel 1965 che
avrebbe dovuto introdurre il mercato e rendere così l'influsso di
valuta pregiata produttivo.
Parallelamente
al crescere dei prestiti in valuta, negli anni sessanta e settanta,
si è verificata una riduzione dei contatti con i paesi del CMEA,
mentre la Jugoslavia spingeva per un aumento degli scambi con
l'Occidente, da cui ora si poteva permettere di importare beni di
consumo e tecnologie. Con le prime difficoltà, tuttavia, il
commercio jugoslavo si orientava nuovamente verso Mosca, in quanto le
importazioni occidentali divenivano troppo costose e le proprie
esportazioni non competitive. Tutto questo era in alcuni aspetti
simile a quanto sarebbe successo ad alcuni paesi arabi (per esempio
l'Iraq) nella loro crisi economica del periodo di caduta del prezzo
del petrolio. Anche per la Jugoslavia, come per molti arabi, Mosca
diveniva un cliente non eccessivamente discriminante sulla qualità
del prodotto ed un fornitore di merci vendibili sul mercato interno e
non eccessivamente costose. Inoltre, l'URSS cominciava a fornire
anche considerevoli quantità di armi (inclusi gli avanzati caccia
MiG-29).
Solo
recentemente si è assistito ad un nuovo tentativo jugoslavo di
apertura commerciale all'Occidente, con la nuova liberalizzazione
valutaria ed il tentativo di stimolare la concorrenza interna con
produzioni occidentali di alta qualità.
Politica
Militare
L'esercito
jugoslavo, non più impegnato a difendere i confini del paese da un
ormai improbabile invasore, si trova a dover prospettare a se stesso
(come del resto sta già accadendo, soprattutto in Bosnia)
l'eventualità di dover garantire il rispetto dei confini interni
delle Repubbliche jugoslave. Senza dubbio l'esercito potrebbe
reprimere, nel breve termine, rivolte di piazza o tentativi di
secessione spontanei e male organizzati. Come però questo possa
avvenire in maniera stabile e duratura è difficile immaginarlo.
I
militari jugoslavi si sono più volte dichiarati contrari a qualunque
forma di nazionalismo, anche quello serbo, ma potrebbero essere
costretti ad appoggiarsi su di esso per far fronte agli altri, più
pericolosi per lo stato centrale. Infatti, si sta già rivelando
difficile operare con un esercito multinazionale di leva nelle varie
repubbliche in fermento. L'establishment
militare è deciso a mantenere l'unità nazionale ed il sistema
socialista, almeno di nome se non proprio di fatto. Il risultato è
un motivo in più per un'alleanza di fatto con il capo degli
(ex-)comunisti serbi Milosevic.
Per
sostenere la loro preferenza ideologica di fronte al collasso del
comunismo in tutta l'Europa orientale, i militari, per lo più,
sostengono la discutibile tesi che il socialismo non è stato battuto
nei paesi dove si è stabilito per una vera rivoluzione nazionale, e
non per imposizione esterna. Da segnalare l'appoggio dei militari
jugoslavi ai colleghi sovietici per l'uso della forza nelle
repubbliche baltiche all'inizio del 1991. L'analogia tra quello che è
stato fatto in quei casi e quello che potrebbe accadere,
probabilmente in forma ancora più violenta, in Jugoslavia, è
palese.
Ma
il successo di questa politica di intimidazione appare incerto.
L'ordine intimato alle milizie repubblicane in Slovenia e Croazia di
consegnare le armi, non è stato osservato. Finora si è evitato lo
scontro armato, ma c'è da chiedersi per quanto. In caso di guerra
civile sul campo, l'esercito sarebbe certamente più forte ma non per
questo sicuro di vincere.
Prospettive
Dal momento che è scomparsa la forza di coesione impersonata nel
paese da Tito, e successivamente solo in parte sostituita dalla Lega
dei Comunisti, un nuovo ideale unitario fatica ad emergere. La
Jugoslavia si trova, oggi, in una posizione estremamente delicata:
mentre - a differenza del passato - la sua incolumità non appare
minacciata da superpotenze, essa è scossa al proprio interno da
nazionalismi, da contrapposizioni religiose, dal riemergere nel clero
cattolico e ortodosso di tentazioni egemoniche, dalla rinascita di
vecchi e nuovi fondamentalismi (in particolare quello islamico in
Bosnia e in Kosovo). E poiché appare davvero difficile, a causa
dell'intricata mappa etnica del paese, tracciare netti confini fra le
nazioni che lo compongono, un eventuale collasso della Jugoslavia
difficilmente potrebbe avvenire per via pacifica.
D'altro
canto, non si può non riconoscere che la Jugoslavia cosí come
l'abbiamo conosciuta dal primo dopoguerra non ha più futuro. Molta
violenza civile appare probabile, anche se una soluzione pacifica in
extremis è ancora
possibile. In ogni caso, la frammentazione politica del paese è
ormai inevitabile, sia che essa risulti in nuovi stati indipendenti
sia che si riesca a mantenere una confederazione più o meno tenue,
almeno sul piano economico.
A
questa frammentazione, che verrebbe letta da molti, specialmente al
di fuori della Serbia, come una liberazione, è anche probabile che
segua una disillusione. La "sovranità" delle repubbliche
infatti difficilmente risolverà i problemi economici, ed anzi
potrebbe aggravarli. Le accresciute difficoltà economiche che si
stanno verificando nel resto dell'Europa ex-comunista dovrebbero
essere colte come una utile lezione dagli jugoslavi. Non rende le
cose più facili il fatto che probabilmente Milosevic non è
interessato ad una confederazione decentralizzata: accentuando le
disparità di sviluppo che in essa si realizzerebbero, metterebbe
ancora più in vista i problemi della Serbia, isolata e comunista.
Se
poi la frammentazione dovesse estendersi anche sul piano militare e
della politica di difesa, i pericoli sarebbero ancora maggiori.
Contenziosi vecchi di secoli potrebbero allora accendere non più
solo scontri di piazza ma vere e proprie guerre, per le quali la
regione aveva avuto del resto storicamente una propensione
particolare prima dell'unificazione dello stato jugoslavo.
Sarebbe
dunque oggettivamente nell'interesse di tutti mantenere almeno una
confederazione ma con ampie autonomie alle repubbliche, soprattutto
in materia economica, senza per questo creare nuove frontiere
politiche interne nel paese. Anche gli europei occidentali
incoraggiano l'unità nazionale alla luce dei vantaggi che questa
porterebbe per una accresciuta cooperazione con la Comunità,
particolarmente dopo il 1993.
Se
la confederazione economica avrà luogo pacificamente, probabilmente
si svilupperanno nel medio termine forti pressioni economiche verso
una re-integrazione: il ricco nord ha bisogno dei mercati del sud, e
questi della produzione relativamente avanzata del nord. C'è qui una
certa similitudine con quello che sta accadendo tra URSS ed ex-paesi
satelliti, liberati dal giogo politico ed economico ma portati ora,
dopo solo pochi mesi di reale indipendenza, alla ricerca di nuovi
accordi commerciali con Mosca che attutiscano l'impatto dell'entrata
nel mercato internazionale.
Un'altra
similitudine si riscontra con il dilemma federale che nell'URSS
affrontano i baltici: democratizzazione ed autonomia regionale sono
indispensabili per mantenere l'unità dello stato nel post-comunismo,
ma vanno contro l'esigenza di efficienti riforme economiche. Di
questo sono consci sia i separatisti sloveni sia i nazionalisti
serbi, ma non è chiaro fino a che punto la razionalità prevarrà
sull'emotività del momento.
Conclusioni
ed implicazioni per l'Occidente
In
conclusione, si vogliono qui fornire alcuni spunti di riflessione per
le prospettive delle imprese italiane in Jugoslavia. Alla luce dei
fattori politici discussi in questa relazione, e di quelli economici
trattati altrove in questa riunione, si possono sottolineare vantaggi
e svantaggi per le imprese italiane.
I
vantaggi per l'intervento economico italiano sono indubbiamente
molteplici: (i) il paese ha scelto l'economia di mercato, e la scelta
appare irreversibile, essendo appoggiata da larghe maggioranze
all'interno e caldeggiata anche dalla CEE, verso cui la nuova
Jugoslavia protende; (ii) l'Italia è già il secondo partner
commerciale, dopo la Germania, e gli operatori italiani conoscono la
Jugoslavia meglio di altri; (iii) la Jugoslavia può essere un
condotto per sviuppare legami commerciali con altri paesi balcanici,
e specialmente Romania e Bulgaria, con i quali belgrado ha
consolidati rapporti economici; (iv) i quadri jugoslavi sono in gran
parte ben preparati, spesso sono stati addestrati in Occidente, ma
sono quasi sempre sottoutilizzati; (v) più che in altri paesi
ex-comunisti, l'immagine del'impresa Italia gode in Jugoslavia di una
buona reputazione.
Ci
sono peraltro anche alcuni svantaggi: (i) come ampiamente illustrato
in questa sede, la situazione politica è instabile e destinata a
rimanere tale ancora per anni; (ii) se non si riesce a fare la
confederazione, ma il paese si sgretola in una serie di stati
sovrani, ci saranno ripercussioni negative sull'economia di tutte le
parti componenti a causa dell'alto grado di interdipendenza
esistente; (iii) ci vorrà tempo a superare i problemi di bassa
produttività del lavoro generati dall'economia garantista per
quarant'anni; (iv) le infrastrutture sono spesso insufficienti, e
difficilmente saranno migliorate nell'attuale situazione politica;
(v) corruzione e parassitismo sono diffusi nell'amministrazione
pubblica, retaggio dell'era comunista che non sarà superato né
facilmente né rapidamente.
Relazione da me preparata all'Istituto Affari Internazionali per GETECNA, Progetto "Europa 20". Le opinioni espresse sono solo mie e non dello Iai.
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