26 April 1994
Il vecchio e il nuovo in politica e nella storia
Se voleva semplicemente dire che non tutto il nuovo è ipso facto migliore, la cosa è quasi sempre ovvia; dico "quasi" perché forse in alcune circostanze particolarmente incancrenite può essere meglio cambiare comunque, anche in peggio, ma sbloccare le cose: per dirla con Lenin, a volte bisogna fare due passi indietro per poter poi fare un passo avanti. Che in Italia sia oggi meglio rischiare di prendere un po' di rincorsa per poter poi meglio saltare, oppure no, ognuno lo può valutare per sé stesso.
Ma Spinelli sembrava voler dire anche che ad auspicare il rinnovamento in quanto tale sono le ideologie autoritarie, che si fondano sul primato della forza (giovane) sul diritto (che, chissà perché, giovane non è). Questo giudizio, a mio avviso, non corrisponde ai fatti. Vediamo perché, toccando alcuni punti dell'articolo.
Spinelli dice che le dittature (tanto fasciste quanto comuniste) inneggiavano alla gioventù facendone stendardo della propria ideologia. Questo è vero (e non sempre) nella retorica, ma mai nei fatti. Non riesco a pensare ad un solo dittatore (fascista o comunista) che abbia operato per favorire un avvicendamento di giovani al potere, o anche più semplicemente ad una loro effettiva responsabilizzazione nella società. Solo Franco ha preparato il terreno per Juan Carlos (ma chissà se sarebbe contento dell'operato del giovane Re?).
Le gerontocrazie più arteriosclerotiche sono sempre state quelle dittature che Spinelli dice inneggiassero alla gioventù. Il giovane Morozov che fece arrestare il padre non diventò un eroe sovietico per essere stato un giovane contro un vecchio, ma un buon cittadino sovietico che anteponeva lo stato alla famiglia; lo stesso onore capitò, centinaia di migliaia di volte, a padri che denunciavano figli, mariti che denunciavano mogli, sorelle che denunciavano fratelli, ecc. l'età non c'entrava.
E d'altra parte, se ci fermiamo sul piano della retorica, la gioventù (assieme alle "donne", o ai "meridionali", i "disoccupati", gli "handicappati"!) è stata oggetto di untuose quanto malfidate attenzioni verbali anche da parte della nostra partitocrazia. Come si dice a Roma: a chiacchiere!
Per contro, nelle democrazie compiute (tra cui finora non c'è stata l'Italia) all'alternanza politica corrisponde il ricambio generazionale. In quella che è forse la più matura democrazia, gli Stati Uniti, per legge un presidente non può essere eletto per più di due volte (8 anni), poi se ne deve andare. E questo non è una condanna nei suoi confronti, o un "parricidio" come dice Spinelli. Nelle democrazie compiute, di norma, un leader di partito che perde le elezioni in una democrazia compiuta esce di scena. In Italia, dove dal 1945 non c'è stata dittatura ma neanche alternanza, i padri della Costituente che ancora vivono (al governo o all'opposizione) sono ancora lì, attaccati con le unghie e con i denti al potere.
Auspicare che costoro si facciano da parte non vuol dire svilire quello che di buono hanno fatto finora per fare dell'Italia un moderno paese europeo; non vuol dire neanche cercare rivalse per quanto di meno buono pure hanno combinato; anzi, sono proprio loro a svilire la propria opera insistendo a lavorare, credendosi immortali, pretendendo di avere sempre qualcosa da dire. Il grande campione si ritira imbattuto. Onore quindi a Valiani, Bobbio, Scalfaro, De Martino, Iotti e fino a poco tempo fa a Carli, Pajetta, Pertini, Saragat, ... Ma proprio perché hanno fatto tanto bene costoro dovrebbero trasmettere la propria ricchezza di esperienza e farsi da parte. Questo non sarebbe parricidio, sarebbe invece la migliore valorizzazione storica del loro operato.
Medici, insegnanti, vanno in pensione obbligatoriamente ad una certa età. Lo stesso dovrebbe applicarsi ai politici. È vero, si rischierebbe di pensionare prematuramente qualche mente ancora valida; ma è meglio correre questo rischio di quello, ben peggiore, di mettere le sorti del paese nelle mani di persone le cui menti valide non sono più. Se qualcuno li ascolta, costoro potrebbero comunque contribuire con consulenze, opinioni, ma dovrebbero lasciare il potere. Due parole quindi sui senatori a vita che Spinelli si preoccupa di difendere: l'intenzione originale di questo istituto era quello di portare in parlamento delle alte personalità non politiche, perché dessero un contributo di cultura. È difficile pensare che questo possa essere fatto senza limiti di età. In primo luogo, non capisco perché per far questo sia necessaria una nomina a vita, e non per cinque o dieci anni, un lasso di tempo in cui l'apporto culturale potrebbe agevolmente essere espresso. Non vedo invece alcun motivo perché debbano essere nominati politici di professione, come è stato nel caso di Andreotti.
04 August 1993
Ruolo futuro per la CSCE
Introduzione
Questo appunto si propone di fornire alcuni spunti di riflessione sulle potenzialità della CSCE che potrebbero essere valorizzate dalla prossima presidenza italiana di questa organizzazione, e di indicare alcune priorità tra le svariate iniziative che si potrebbero intraprendere a questo fine. In linea generale, si possono individuare quattro modalità attraverso le quali le varie istituzioni preposte alla sicurezza in Europa possono oggi contribuire alla stabilizzazione del terremoto geopolitico succeduto alla Guerra Fredda. Queste modalità sono riassunte come segue:
1) Le istituzioni possono fornire un grado di rassicurazione politica che potrebbe contribuire a raffreddare i conflitti, specialmente tra i paesi di nuova indipendenza. Questa è una funzione importante soprattutto nell'attuale periodo di transizione, subito dopo il riconoscimento di molti nuovi stati, e serve a consolidare senso di identità statuale. Si deve registrare un sostanziale fallimento finora in Jugoslavia, mentre un certo successo è stato ottenuto in ex-URSS e Europa orientale.
Si tratta qui di una funzione di prevenzione educativa, di cui è difficile da valutare l'efficacia ma che è indispensabile al consolidamento dello stato di diritto e quindi dei diritti umani e della stabilità politica. Il ruolo della CSCE può essere centrale a questi fini.
2) Inoltre, le istituzioni potrebbero fornire garanzie di sicurezza (intesa in senso lato) ai paesi (o ai popoli e minoranze) più minacciati. Non si tratta qui tanto di garanzie di protezione militare, quanto di attenzione ai problemi di sicurezza in senso lato: sociale, economica, ed in materia di diritti umani. La diplomazia preventiva della CSCE può essere fondamentale in questo contesto. In campo strettamente militare, la CSCE può altresì capitalizzare sui risultati ottenuti dal 1986 in poi in campo del "confidence-building".
3) Le istituzioni possono poi provvedere ad azioni di "peace-keeping" o "peace-making". Per tali azioni si deve pensare prima ad una fase di legittimazione politica e quindi ad una fase di implementazione militare, o operativa. Così come accade a livello nazionale, le due fasi non devono necessariamente essere affidate alla stessa organizzazione. Per la CSCE si prevede qui un ruolo essenzialmente legittimante, e solo marginalmente operativo.
4) Infine, le istituzioni possono favorire il processo di riconversione militare verso strutture meno onerose e più difensive, il che è reso necessario sia per motivi di bilancio che per favorire la stabilizzazione militare in Europa. Per quest'ultima funzione si ritiene che l'organismo più adatto, per competenze oggettive, sia il Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (NACC) e non si discuterà quindi del pur possibile impiego della CSCE.
Per una più chiara ed efficiente ripartizione dei compiti tra le istituzioni di sicurezza—necessaria per evitare dannose logiche competitive e spreco di risorse—è essenziale che ciascuna di esse tenda a sviluppare un suo campo specifico di intervento. La CSCE sembra particolarmente adatta a operare nei settori dell'early-warning e della diplomazia preventiva. A Helsinki le capacità dell'organizzazione sono state rafforzate soprattutto in questi settori. In effetti, le principali iniziative intraprese dalla CSCE dopo Helsinki hanno riguardato la prevenzione, più che la gestione dei conflitti. Quest'ultima funzione, per la quale la CSCE manca di una capacità operativa e di adeguate procedure decisionali, ha continuato a essere attribuita ad altre istituzioni più solide e collaudate.
Questa tendenziale specializzazione della CSCE non deve essere considerata negativamente. Essa andrebbe anzi ulteriormente promossa. Occorre sempre più valorizzare, in particolare, l'originale connessione che si realizza, in seno alla CSCE, tra controllo del rispetto dei diritti umani e prevenzione dei conflitti (connessione che una serie di decisioni assunte a Helsinki—creazione dell'Alto Commissario per le minoranze nazionali, nuove competenze dell'Ufficio di Varsavia, ecc.. - hanno contribuito a rafforzare).
La scelta della specializzazione dovrebbe favorire, come si è detto, il rapporto con le altre istituzioni con competenze nel campo della sicurezza. Sia per l'early-warning che per la diplomazia preventiva è essenziale che si sviluppi sempre più organicamente il rapporto di cooperazione con l'ONU, partendo dall'accordo raggiunto recentemente. Anche la cooperazione con la NATO sembra impostata su basi promettenti. Essendo sprovvista di proprie capacità militari, la CSCE dovrà necessariamente affidarsi a quelle di cui dispone la NATO o di cui potrebbe dotarsi in futuro l'UEO.
Rassicurazione politica
Non è un caso che tutti i paesi di nuova indipendenza dell'Europa orientale abbiano immediatamente chiesto di far parte della CSCE. L'appartenenza a questa camera di compensazione è unanimemente percepita come un requisito essenziale per la partecipazione alla vita politica del continente, e come preparatoria ad una più stretta integrazione in altre, più impegnative, istituzioni di sicurezza.
Mentre tutti i paesi europei (al di fuori della ex-Jugoslavia) sono oggi membri della CSCE—assieme ad alcuni paesi asiatici la cui "europeità" è quanto meno opinabile—non tutti hanno dimostrato di averne fatto propri i principi ispiratori. È quindi importante che la CSCE continui ad insistere nel lavoro di formazione alla sicurezza collettiva e comprensiva (oltre che delle questioni militari anche degli aspetti economici e della dimensione umana) che nessun'altra istituzione è in grado di fornire. La rassicurazione politica va quindi vista in una duplice luce: sia come catalizzatrice di un "senso di appartenenza", che rafforzi la convinzione dell'inevitabile interdipendenza internazionale, sia come educazione politica vera e propria ai valori della democrazia.
A questo proposito, di potrebbe considerare anche l'ipotesi di stabilire delle condizioni per l'appartenenza alla CSCE, analogamente a quanto accade per il Consiglio d'Europa. Tuttavia, ci sembra che al momento convenga soprassedere, salvo situazioni assolutamente eccezionali come quella della Jugoslavia, mirando invece a mantenere la CSCE come camera di compensazione onnicomprensiva.
In questo contesto, si potrebbe anche pensare ad un allargamento verso Sud (Mediterraneo) della CSCE. Infatti, sia con lo status di osservatore conferito al Giappone (che, se non altro per motivi finanziari, è probabilmente destinato a rafforzarsi), sia con l'entrata dei paesi centro-asiatici ex-sovietici, la CSCE ha cessato di essere un'organizzazione rigorosamente europea. Il fallimento del'iniziativa CSCM, e le evidenti difficoltà del processo di pace tra Arabi e Israele, portano a ripensare all'opportunità di favorire anche per il Maghreb e per alcuni paesi del Medio Oriente l'adesione alla CSCE. In fondo, è senz'altro più europea la Tunisia del Kirgizstan.
Un problema collegato all'allargamento della CSCE durante la Guerra Fredda era che avrebbe diluito la sua missione fondamentale, che era quella di trovare il maggior denominatore comune tra i due blocchi contrapposti. Ma oggi la CSCE non deve più mediare tra blocchi contrapposti. Un altro ostacolo era che un maggior numero di stati, a ragione della regola del consenso, avrebbe fatto rischiare la paralisi. Ma il numero degli stati (e la reale indipendenza di molti) è già aumentato al punto che la regola del consenso deve comunque essere abbandonata, almeno in alcune circostanze.
Garanzie di Sicurezza
La CSCE è l'istituzione meglio equipaggiata a favorire una realistica, se pur limitata, diffusione di garanzie di sicurezza comprensiva. Non ci riferiamo qui, ovviamente, a garanzie di intervento per la difesa collettiva, del tipo di quelle contenute negli Artt. V dei trattati NATO e UEO.
In primo luogo, la CSCE dovrebbe capitalizzare sui notevoli risultati già ottenuti nel campo delle "confidence-building measures" (CSBM). Di queste c'è oggi più bisogno che mai, sia per prevenire percezioni aggressive, sia per ricomporre conflitti attualmente in corso quando cesseranno le ostilità. Si potrebbe inoltre pensare a dare alla CSCE una qualche misura di responsabilità per conflitti interni a paesi membri. A questo scopo, la CSCE è meglio equipaggiata del NACC, per due motivi: primo, del NACC non fanno parte molti stati che saranno invece interessati alle CSBM; secondo, gli attriti che si dovessero venire a creare attorno alla creazione o all'implementazione di tale regime non coinvolgerebbero la NATO.
Finito il tempo dei grandi accordi di disarmo su scala europea occorre concentrarsi soprattutto sulla dimensione sub-regionale, promuovendo accordi fra paesi della stessa area (per esempio, i Balcani o l'Asia ex-sovietica). La regionalizzazione del controllo degli armamenti è espressamente prevista nel programma di lavoro del Foro di cooperazione per la sicurezza creato a Helsinki. Più in generale, occorre stabilire una più stretta connessione tra controllo degli armamenti e prevenzione dei conflitti. Il sistema delle misure di fiducia e sicurezza (Csbm) può essere ulteriormente migliorato e allargato, ma è essenziale che le nuove misure siano collegate con gli altri meccanismi.
In secondo luogo, è in ambito CSCE che si dovrà perseguire una più strenua difesa dei diritti umani come fattore di sicurezza. Questa difesa si dovrà concretizzare prima di tutto con mezzi politici, ma anche, ove necessario, con mezzi militari. Durante la Guerra Fredda, l'Occidente ha dovuto accettare imbarazzanti compromessi in materia di diritti umani, sacrificati sull'altare di una "real-politik" che era in larga parte dettata dalla necessità di convivere pacificamente con l'impero sovietico. In altre parole, c'era una sorta di "trade-off" tra diritti umani e sicurezza.
Oggi, al contrario, l'Occidente ha più mezzi a disposizione per esercitare pressioni sui quei paesi che violano i diritti umani. L'uso di questi mezzi non sarebbe esente da costi. Ma evitare di far ricorso a questi mezzi oggi non permetterebbe di ottenere in cambio stabilità politica, come accadeva prima del 1989. Al contrario, svariati paesi che oggi violano i diritti umani sono anche portatori di instabilità politica internazionale: interessi di "real-politik" e principi umanitari convergono quindi nell'imporre all'Occidente una concreta difesa dei diritti umani, se necessario anche tramite lo strumento militare. A questo scopo, la CSCE dovrà essere dotata dei necessari strumenti decisionali di vertice che possano fornire, se possibile di concerto con l'ONU, la necessaria legittimazione agli interventi, nazionali ed internazionali, volti a difendere questi interessi.
Procedure decisionali: legittimazione del "peace-keeping/making"
L'obiettivo strategico centrale della presidenza italiana dovrebbe essere lo sviluppo di quel processo di razionalizzazione istituzionale della CSCE che è ormai unanimemente riconosciuto come un'esigenza inderogabile. Occorre affermare il principio che il rafforzamento della CSCE e la semplificazione della sua struttura e dei suoi meccanismi sono due aspetti non solo conciliabili, ma, in larga misura, interconnessi. Se ne tratta in questa sezione e nella seguente.
Si è detto che l'accresciuto numero di nuovi stati in Europa, ed il fatto che molti di essi siano effettivamente indipendenti, diluisce l'operatività della CSCE. La regola del consenso è sempre meno adeguata. Ciò sarebbe solo marginalmente più vero in caso si verificasse l'allargamento che si auspicava sopra. C'è quindi bisogno di passare all'approvazione a maggioranza (magari qualificata) almeno per alcuni tipi di decisioni ed interventi. Alternativamente, si potrebbe pensare ad ipotesi di maggioranza ponderata, che terrebbero conto delle ineludibili differenze di peso geopolitico tra i paesi membri.
É stata talvolta anche paventata l'idea di creare nella CSCE, parallelamente a quanto avviene all'ONU, un Consiglio di Sicurezza, che possa decidere operativamente senza aspettare il consenso di tutti gli stati membri e se necessario contro uno o più di essi. Tale Consiglio potrebbe una notevole utilità, in quanto porterebbe autorevolezza alle decisioni esecutive. Il rischio è che rischierebbe di duplicare il ruolo del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e quindi di indebolirlo. A questo rischio si potrebbe ovviare sottolineando che comunque, per statuto, il Consiglio CSCE rimarrebbe subordinato a quello dell'ONU.
I membri permanenti del Consiglio, con diritto di veto, potrebbero essere USA, Russia, Regno Unito, Francia e Germania. Italia, Spagna, Ucraina (e forse Kazakistan) potrebbero avere uno status di membri permanenti, o semi-permanenti, ma senza diritto di veto. Questo Consiglio eliminerebbe l'imprevedibilità della Cina nel Consiglio ONU, ed allo stesso tempo faciliterebbe l'essenziale coinvolgimento della Germania. I poteri del Consiglio potrebbero essere limitati, almeno all'inizio, all'area delle operazioni di prevenzione dei conflitti e di peace-making. Fino a che perdurerà l'attuale sostanziale convergenza di prospettive tra le maggiori potenze europee, eventuali risoluzioni del Consiglio avrebbero notevoli possibilità di influenzare favorevolmente lo sviluppo delle iniziative di risoluzione dei conflitti.
Razionalizzazione Istituzionale della CSCE
Finora la moltiplicazione di organi e di strumenti non si è tradotta in un rafforzamento delle capacità operative dell'organizzazione. Le stesse decisioni di Helsinki hanno avuto, sotto questo profilo, un carattere contraddittorio: da un lato sono state gettate le basi per un'attività più ordinata e sistematica—soprattutto attraverso il potenziamento degli organi di direzione politica, coordinamento e supervisione (Caf, Presidente in carica). Ma si è ulteriormente accentuata la tendenza a una moltiplicazione degli organi. L'urgente necessità della razionalizzazione istituzionale è stata messa in evidenza anche dall'esperienza delle iniziative intraprese dopo Helsinki. Qualora questa contraddizione tra una struttura istituzionale iperestesa e una ridotta capacità operativa dovesse perpetuarsi, si rischierebbe un'erosione del consenso politico che è vitale per l'avvenire di ogni organizzazione.
Vanno pertanto sostenute le proposte miranti a una riorganizzazione della CSCE su basi più razionali:
1) La concentrazione di attività e istituzioni della CSCE in un'unica sede (la più adatta appare Vienna). La dispersione delle istituzioni in più sedi aveva senso all'indomani del 1989 come strumento per promuovere le nuove democrazie. Oggi appaiono invece prioritarie le misure intese a favorire più rapidità e sistematicità. Alcuni temono che la scelta di un'unica sede possa portare a quella burocratizzazione della CSCE che è stata finora sempre esclusa nei documenti ufficiali. Ma un certo rafforzamento dell'apparato burocratico—posto che sia funzionale a un effettivo potenziamento operativo—appare inevitabile e comunque preferibile, anche dal punto di vista dell'immagine, all'attuale dispersione in quattro capitali diverse (Vienna, Varsavia, Praga e Ginevra).
2) L'ulteriore potenziamento degli organi di direzione e coordinamento. A tal fine appaiono necessarie:
a) la sostituzione del Comitato degli Alti Funzionari con un comitato politico permanente (il primo passo in questa direzione è stato compiuto con la creazione del gruppo Caf di Vienna decisa dal Consiglio nella riunione di Stoccolma);
b) In questa luce, la designazione di un Segretario Generale della CSCE deve essere vista con favore. Anche se attualmente non è previsto un ruolo politico per il Segretario, egli dovrà essere in futuro dotato di più ampie responsabilità, ed anche di iniziativa politica. Altrimenti, si correrà il rischio che l'azione della CSCE sarà intralciata da ogni piccolo dissidio tra gli stati membri (che sarebbe inevitabilmente riflesso nelle discussioni del Caf). È fondamentale che la CSCE abbia un suo centro motore in grado di operare in maniera almeno parzialmente autonoma dagli organi in cui sono rappresentati tutti i governi e all'interno dei quali, anche se si riusciranno ad apportare delle modifiche alle procedure decisionali, sarà comunque sempre richiesto un consenso molto ampio. Il Segretario Generale potrebbe svolgere questo ruolo, in analogia a quello dell'Onu (o, se si vuole, della NATO). Durante il periodo di presidenza italiana si dovrebbe pertanto valorizzare, nei limiti del possibile, la funzione del Segretario Generale, stabilendo uno stretto rapporto di consultazione e cooperazione tra quest'ultimo e il Presidente in carica. Il timore che ciò possa portare a un condizionamento della Presidenza italiana da parte del Segretario Generale non appare giustificato. In ogni caso, sarebbe sbagliato sacrificare l'obiettivo strategico di dotare la CSCE di una figura istituzionale forte a interessi di prestigio di più corto respiro.
3) L'eliminazione di alcune ridondanze. La più vistosa continua a essere quella tra il Comitato degli Alti Funzionari e il CPC per quanto attiene alla consultazione sulle situazioni d'emergenza. Si dovrebbe concentrare tutta l'attività di consultazione politica nel Caf e limitare il Cpc a una funzione più strettamente tecnico-operativa.
4) Una più solida struttura organizzativa per il sostegno operativo alle varie missioni CSCE. Tale compito tende sempre più ad essere attribuito al Centro di prevenzione dei conflitti. Si potrebbe pertanto decidere di trasformare il Cpc in una sorta di agenzia operativa per l'organizzazione delle missioni.
Capacità operative della CSCE: peace-keeping e peace-making
Il Centro per la Prevenzione dei Conflitti di Vienna è assolutamente inadeguato, disponendo solo di uno staff simbolico e di un bilancio irrisorio. Dovrebbe essere notevolmente ed immediatamente rafforzato. Il CPC è stato ingiustamente accusato di aver fallito nella crisi jugoslava: in realtà non ha avuto né i mezzi né il mandato per intervenire in tempo.
È infatti nel campo della prevenzione dei conflitti che la CSCE può sfruttare il proprio vantaggio comparato di camera di compensazione politica. In questo senso, il "peace-keeping" della pace deve essere qui visto nel suo senso più proprio, come obiettivo da perseguire prima che scoppi la guerra (early-warning). Finora, invece, il mantenimento della pace era stato interpretato in maniera ristretta, come mantenimento di più o meno fragili tregue che seguivano al conflitto armato tra i contendenti.
Se pur in misura limitata, le capacità operative della CSCE sono state già sperimentate, se pur con risultati deludenti, in varie parti della ex-Jugoslavia. Non crediamo che questo sia un ambito di competenza promettente per la CSCE, che dovrebbe invece attingere per questi scopi dalle risorse disponibili presso altre organizzazioni, quali la UEO e, soprattutto, la NATO.
Più in generale, a livello militare sono sufficienti gli strumenti già esistenti, e soprattutto l'infrastruttura della NATO. Ciò è ancora più vero se si considera che la NATO ha offerto esplicitamente i propri servizi alla CSCE (e all'ONU). La complementarità tra strumento militare NATO e mandato politico CSCE è evidente. Ogni duplicazione sarebbe dispersiva politicamente, costosa economicamente e controproducente militarmente.
25 May 1993
Conversazione sulla politica internazionale: nazionalismo, realpolitick, stabilità e cambiamento.
Sonnenfeldt (al centro) con Kissinger |
Insomma era la "dottrina Sonnenfeldt", cui molti in Occidente credevano, ma pochi lo ammettevano allora e nessuno lo ammetterebbe oggi. Sonnenfeldt stesso non lo ammise mai in pubblico. Comunque, a torto o a ragione, il suo pensiero è stato così interpretato e da molti condiviso. Una volta lo incontrai ad una conferenza accademica e gli chiesi se lui veramente voleva lasciare l'Europa orientale ai russi in cambio della stabilità in Europa occidentale. Lui mi rispose un po' evasivamente, e poi purtroppo non ci fu tempo per approfondire.
Io penso però che oggi la contrapposizione tra stabilità e cambiamento sia diventata obsoleta. Oggi stabilità non vuol dire più mantenimento dello status-quo, ma gestione del cambiamento. In questo contesto, quindi, direi che la contrapposizione è piuttosto tra cambiamento e continuità.
In questo periodo va molto di moda parlare, o riparlare dopo tanto tempo, di interessi nazionali, della Realpolitik, anche da parte della sinistra che li ha sempre avversati nel nome dell'internazionalismo socialista. CM pensa ai nazionalisti come ai fautori della Realpolitik. Da questo punto di vista la Realpolitik è il legittimo perseguire dei propri interessi reali, concreti, a differenza di quelli ideali o morali. A questa Realpolitik, secondo lui, bisognerebbe contrapporre una politica multilaterale.
In altre parole, è il nazionalismo ad essere idealista ed irrealista, mentre il multilateralismo offre le maggiori possibilità di raggiungimento di obiettivi di Realpolitik, cioè dei reali interessi dello stato italiano.
13 December 1992
Occidente e Turchia
Mi chiedono un appunto sulla Turchia per la direzione dello IAI. Eccolo.
Il crescente ruolo internazionale della Turchia pone l'Occidente di fronte ad una scelta: da una parte si potrebbe integrare sempre più il paese nelle istituzioni occidentali, per poterne influenzare quindi in modo decisivo la politica di potenza regionale verso forme democratiche, integrazioniste e secolarizzate.
Questa prima scelta comporterebbe però degli ovvi costi politici ed economici.
Oppure si può continuare a tenere la Turchia ai margini del sistema Occidente, comoda base militare per la NATO ma fuori dal circolo ristretto delle democrazie europee. Per esempio, da alcune parti si ritiene di non dover ammettere la Turchia nell'Ueo così da non far divergere la membership Ueo da quella della CE.
Questa scelta comporterebbe però il rischio di una progressiva nazionalizzazione della politica estera di Ankara e magari anche di una sua futura islamizzazione in senso integralista, con i rischi che questo significherebbe per la regione balcanica, per l'Asia centrale ex-sovietica e per il vicino oriente.
La recente ammissione del paese all'Ueo come membro associato sembra indicare una tendenza verso la prima soluzione, che deve essere ulteriormente incoraggiata in futuro.
30 November 1992
Sviluppi in Russia e Yugoslavia
Comunità degli Stati Indipendenti
Nel periodo in esame si è assistito alla frammentazione dell'URSS e alla costituzione da parte di undici delle ex-repubbliche (escluse le tre baltiche e la Georgia) della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). La creazione della CSI è stata sin dall'inizio parvasa da ambiguità istituzionali: la sovrapposizione di competenze (ovvero il vuoto delle medesime) tra istituzioni della Comunità e dei singoli stati ha fatto sì che nel corso del 1992 siano rimaste in una sorta di limbo numerose e vitali questioni di carattere politico, economico e militare.
Dovendo semplificare, si nota come i problemi principali nella divisione hanno toccato in primo luogo il territorio e le minoranze etniche. Prima fra tutte si ricorda la contesa sulla Crimea tra Ucraina e Russia, ma nel sottofondo si intravvedono problemi ancora più gravi tra Russia e Kazakhstan e tra Moldova e Ucraina. La guerra tra armeni e azeri ha continuato a piagare il Caucaso meridionale, mentre in Georgia settentrionale sono esplose violentemente—anche se rimangono circoscritte—le rivendicazioni degli osseti e degli abkhazi.
In secondo luogo, le ex-repubbliche sovietiche hanno negoziato la ripartizione delle forze armate ex-sovietiche. In questo ambito si sono raggiunti accordi (la cui implementazione però richiederà tempo) sulla riassegnazione delle forze nucleari strategiche alla Russia (quelle tattiche sono state tutte trasferite in territorio russo durante la prima metà dell'anno) e sulla suddivisione delle quote di forze convenzionali cui aveva diritto l'URSS in base al trattato CFE.
Infine, numerose trattative sono state avviate sulla suddivisione delle infrastrutture ex-sovietiche, dei beni mobili e immobili e del debito estero. Alla fine del 1992, con tutte queste trattative ancora in fase di risoluzione o di implementazione, i rapporti tra gli stati della CSI rimangono caratterizzati da incertezza diffusa, anche se si prende atto che nessuna disputa connessa alla disgregazione sovietica è risultata ancora in guerra aperta tra le repubbliche.
Per il 1993, le prospettive sono quindi contraddittorie. In alcuni settori, primo fra tutti quello militare, si prefigura una risoluzione del contenzioso sulla flotta del mar Nero ed una stabilizzazione del processo di ripartizione delle altre forze armate, che saranno comunque ridotte da tutti gli attori principali. Il problema più grave sarà invece quello di controllare l'esportazione del sovrappiù verso paesi terzi, che si sta già verificando e comporta seri problemi di proliferazione, specialmente in Medio oriente.
In altri settori il panorama è meno incoraggiante: si delinea chiaramente il fallimento della riforma economica in Russia, con gravi possibili conseguenze sociali. Il pericolo di un ritorno di fiamma autoritario, acceso da quella che sta diventando una bizzarra alleanza tra militari, burocrati ex-comunisti e nazionalisti di destra, potrebbe essere reso più grave dal disorientamento politico generale, dal crollo della popolarità di Eltsin, da contenziosi nazionalistici alla periferia della federazione e dalla mancanza di credibili alternative democratiche.
Relativamente stabilizzata la situazione nelle altre repubbliche europee, mentre verso est e verso sud si nota il ristabilimento, o meglio il mantenimento, di una forte influenza russa. In Asia centrale Mosca sta trovando una inaspettata intesa politica con la Turchia. In queste repubbliche, c'è un rafforzamento al potere degli apparati ex-sovietici, tutti contraddistinti, se pur in misura variabile, dall'inalberamento della bandiera nazionalista (o persino religiosa, si noti il battesimo del presidente goergiano Shevardnadze!) al posto di quella comunista.
Balcani
Contemporaneamente al disfacimento istituzionale dell'URSS, si ratifica nel gennaio 1992, con il riconoscimento europeo a Croazia e Slovenia, lo smembramento definitivo della Jugoslavia. Risolto il conflitto sloveno già nell'estate del 1991, quello croato si bloccava nel corso della prima metà del 1992 con un sostanziale stallo militare che vedeva le forze serbe occupare circa un terzo della Croazia e le forze del corpo di interposizione ONU (UNPROFOR) attestarsi in regioni contese della Croazia orientale e meridionale.
Il riconoscimento senza condizioni, contrariamente a quanto raccomandato dallo stesso rapporto comunitario "Badinter", apriva la strada ad una complessa problematica regionale legata al rafforzamento del principio del diritto allo stato nazionale, precedente pericoloso e foriero di un'inestricabile matassa di irredentismi intrecciati. Il riconoscimento, voluto fortemente da Bonn, e contemporaneo all'inizio in dicembre di una politica monetaria tedesca generalmente percepita come in contrasto con gli accordi di Maastricht appena firmati, è stato un segnale importante anche in ambito intra-occidentale: ha segnato la prima decisa riasserzione della politica estera nazionale della Germania unificata.
In primavera si assisteva all'espansione del conflitto alla Bosnia-Erzegovina, riconosciuta dall'occidente in Aprile, con gli slavi musulmani stretti fra un'equivoca alleanza tra serbi, croati e milizie irregolari autoctone filo-serbe. Gli orrori di questo conflitto, particolarmente cruento e senza apparente solubilità, hanno fatto crescere un senso di frustrazione e di impotenza in Occidente, in contrasto con la motivazione che aveva spinto all'intervento contro l'Iraq nel 1991. Al crescente consenso sulla necessità di fare qualcosa, si abbinava infatti la realizzazione che un impegno militare sarebbe stato ben più impegnativo e pericoloso di quello in Kuwait dell'anno precedente.
Prospettive
L'Occidente ha sempre identificato la stabilità con il mantenimento dello status-quo: invece, appariva chiaro almeno dalla fine del 1990 che lo status-quo gorbacioviano non era stabilizzante ma comprimeva (ritardandola, ma allo stesso tempo rendendola più potente) una epocale esplosione dello stato e del partito.
Gorbaciov ha svolto il suo ruolo storico nel dare il primo, decisivo scossone all' elefantiaco impero sovietico, ma non voleva (e comunque non avrebbe saputo) gestire la transizione verso la democrazia ed il mercato.
Parimenti, l'Occidente appoggia oggi Eltsin nella convinzione che la sua caduta sarebbe foriera di destabilizzazione; ma Eltsin, che ha svolto il suo ruolo storico nel cancellare il regime sovietico, rivoluzionario di indubbie doti carismatiche e trascinatore di popolo, non è uno statista in grado di governare una democrazia.
Il problema oggi per i democratici sovietici (che l'Occidente vorrebbe aiutare) non è mantenere al potere Eltsin ma trovare rapidamente un credibile successore.
Di fronte a queste difficoltà di Mosca, l'atteggiamento dell'Occidente è stato politicamente e soprattutto economicamente cauto. All'appoggio entusiasta verso l'ammorbidimento gorbacioviano del comunismo prima, e al colpo di grazia infertogli da Eltsin poi, non faceva infatti riscontro il massiccio impegno economico e finanziario che era stato richiesto dall'URSS prima e dalla Russia e dalla altre repubbliche poi. Gli aiuti economici sono stati esigui, e gli investimenti hanno stentato a decollare a causa dell'elevato rischio politico del paese.
21 November 1992
Appunti da incontri a Malta
Bandiera di Malta |
Ne hanno le tasche piene del socialismo terzomondista di Dom Mintoff, dei vicini cugini arabi e della neutralità, oggi interpretata in materia restrittiva solo nel principio non ospitare forze armate straniere. Da quando il partito nazionalista (di nome ma non di fatto: è molto europeista) è andato al governo nel 1987 Malta si è proiettata anima e corpo verso la Comunità ed in particolare verso l'Italia. Ci manca poco che chiedano il ritorno della flotta NATO.
Il paese è però diviso esattamente a metà tra i laburisti che continuano ad essere in larga parte anti-UE e certamente anti-NATO e i nazionalisti che vogliono portare Malta in entrambe le istituzioni. Negli anni a venire questa spaccatura, che polarizza fortementeil paese, rischia di diventare destabilizzante e comunque sarà al centro del dibattito politico sul futuro del paese.
21 May 1992
Diploma di C d'Argento in aliante
Brevetto fregiato di insegna C d'argento per il pilota che ha raggiunto i seguenti obiettivi nell'ambito di due soli voli:
- Permanenza in volo per almeno 5 ore consecutive calcolate dall'orario dello sgancio in quota
- Effettuazione di un trasferimento di almeno 50 km
- Guadagno quota dal punto di sgancio di almeno 1000 metri (lo sgancio deve essere effettuato ad una quota massima di 500 metri sul punto di partenza).
Eccolo!
09 May 1992
Stage aliante a Rieti
20 February 1992
Letter on nuclear proliferation to the Editor of the International Herald Tribune
While nothing in history is forever, nonproliferation policies have made a difference. It was commonly believed in the early 1960s that there would be at least 25 nuclear states in 20 years' time. Today there are only six. Whether deterrence may work or not in the future does not depend on the size of the parties concerned but on their political stability, their interest in not altering the status quo, and their leaders' rationality, some or all of which would be wanting in most new nuclear aspirants. An "isolated event" like a nuclear war somewhere in the Third World that might hit cities, or nuclear power plants, would surely not be as tragic as an all-out nuclear superpower confrontation. But immediate and delayed effects could cause death and destruction quite comparable to the holocaust. By far most non-nuclear states do believe that they are better off without nuclear weapons, and they are making no effort to acquire them. A few, significant ones do, but they are increasingly isolated because of that. Nonproliferation policies have proved to be far from flawless, but they have contributed to slowing down the spread of nuclear weapons. Recent revelations about incipient nuclear programs around the world call for the further tightening of those policies.
Published on the IHT on 20 February 1992