26 March 2009

Lo squalo martello dell'atollo di Rashdoo alle Maldive

Lo squalo martello che ho fotografato a Rashdoo
Scendiamo nel silenzio assoluto e nel blu sempre più scuro, quasi non si vede più la superficie e se non fosse per le bolle d'aria che rilasciamo, e che inevitabilmente partono verso l'alto, si farebbe fatica a riconoscere l'alto dal basso, la superficie dell'acqua dall'abisso che qui sprofonda per centinaia di metri. Uniche presenze piccoli organismi fosforescenti che danzano disordinatamente a mezz'acqua. Arrivati sui trenta metri ci disponiamo per l'attesa, non troppo ravvicinati per non darci fastidio l'un l'altro ma neanche troppo dispersi per non spaventare gli squali con una presenza che potrebbero interpretare come aggressiva, una formazione d'attacco, e farli scappare.

Passano i minuti e restiamo così, appesi al nulla, perfettamente idrostatici, muti, ad aspettare, fermi. Poi, all'improvviso, arriva. Si comincia a distinguere una flebile ombra nel blu, una silhouette grigia che si muove sinuosamente, lentamente, verso di noi. A poco a poco comincia a definirsi la sua forma allungata, poi le pinne, infine l’inconfondibile muso, schiacciato con i due piccoli occhi attaccati all'estremità. Il signore di questo mare, lo squalo martello, ci viene incontro. Solitario, sui trentacinque metri di profondità, sarà lungo tre metri, gira intorno ai sub, ci scruta. Scendo un po' per portarmi alla sua stessa quota e fotografarlo davanti, ma devo stare attento, siamo al limite della profondità programmata. Due, tre scatti sui tre quarti, poi si gira e se ne va. Dopo pochi istanti torna da noi, un'altra perlustrazione, tranquilla, è chiaro che una mezza dozzina di esseri ricoperti di gomma che fanno un sacco di bolle d'aria non sono la sua preda abituale. Riesco a posizionarmi per fare ancora qualche scatto, senza flash per non spaventarlo. Profilo grigio su sfondo cobalto, poi lo squalo si gira e si inabissa, sparendo definitivamente nel blu. Sono contento come un bambino, è la prima volta che fotografo un martello! Ma non c'è più tempo per indugiare nella speranza che torni, sono passati già una trentina di minuti da quando siamo qui a oltre trenta metri sott'acqua, la lancetta del manometro mi avverte che ho consumato la metà dell'aria della mia bombola ed è tempo di cominciare la lenta risalita...

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22 March 2009

Le mante di Donkalo, atollo di Ari, Maldive

Questa mattina ci svegliamo prima dell'alba, siamo tutti subacquei e, per sfruttare al meglio i pochi giorni a disposizione, buttiamo giù il primo caffè all'alba e poi subito in acqua per la prima di quattro immersioni della giornata. Siamo su una delle pass di Ari, i canaloni sommersi dove, con le maree, l'acqua entra ed esce dall'atollo all'oceano, apportando ossigeno e nutrimento e asportando detriti e scorie. Le mante approfittano delle fortissime correnti che le maree generano nelle pass per attendere al varco i piccoli organismi che costituiscono il loro nutrimento.

L'entrata in acqua oggi si presenta complicata, dopo il tuffo la marea ci farebbe allontanare immediatamente dalla barca d'appoggio e quindi bisogna saltare con macchine fotografiche e torce in mano, non c'è possibilità di farsele porgere come al solito dall’equipaggio. Saltiamo giù dalla barca in rapida successione, con il giubbetto completamente sgonfio per minimizzare il galleggiamento. Ci buttiamo in acqua con Luca con un «passo del gigante», in pratica un ampio passo in avanti effettuato con le gambe tese, direttamente dalla murata della barca. Una tecnica di entrata in acqua che si usa quando non è possibile praticare la classica capovolta all’indietro dal bordo di una piccola barca o di un gommone. Imitiamo un po’ i lanci dei paracadutisti da un aereo, e via subito giù immersione rapida per guadagnare nel minor tempo possibile il fondo della pass, in una lunga fila indiana di silhouette nere nell'acqua che si fa rapidamente scura, fino a venticinque metri di profondità, senza farsi portar via dalla corrente. Ovviamente abbiamo aspettato la marea entrante, ricca di nutrimento, che attira le mante. Ed inoltre più sicura, infatti se si viene portati via comunque si finisce dentro l'atollo e non in oceano aperto, dove il recupero sarebbe molto più problematico.

Bisogna pinneggiare poderosamente per contrastare la corrente e raggiungere nel punto prestabilito il fondo di sabbia bianchissima, quindi trovare un macigno dove fermarsi ed attendere le mante, agganciandoci con lo speciale uncino che abbiamo legato al giubbetto idrostatico, per formare una specie di trapezio e restare sospesi come aquiloni, senza sforzo, nella corrente.

Oppure semplicemente incastrando le pinne tra un masso e l’altro. Passano i minuti e stiamo lì a guardare in avanti verso il blu, fermi. Solo le colonne di bolle d'aria movimentano la scena. Non c'è che da aspettare, con l’occhio che salta dal manometro delle bombole, con l'ago che comincia a scendere, al computer, con i limiti di permanenza che si avvicinano.

Fortunatamente, in questa situazione piuttosto precaria e faticosa, non dobbiamo aspettare molto. Dopo qualche minuto ecco le mante! A piccoli gruppi di una mezza dozzina di esemplari, arrivano controcorrente, scivolando immobili, senza il minimo sforzo apparente, a qualche metro di altezza dal fondo. Hanno la bocca aperta a dismisura per catturare i piccoli animaletti che nuotano in corrente, si vedono chiaramente la gola e i due grandi rastrelloni di branchie in fondo alla cavità orale. Sicurissime di sé, evidentemente non si sentono minacciate e si avvicinano fino a sfiorarmi la testa. Faccio fatica ad inquadrare con la macchina fotografica, anche con un grandangolare spinto le grandi ali escono dall'inquadratura. Non c'è niente di peggio di una foto di un animale con le estremità tagliate fuori dal fotogramma.

Cerco di spostarmi per mettermi in posizione migliore per fotografare ma è difficilissimo con questa corrente. Devo reggere con una mano sola la macchina fotografica, già appesantita dalla scafandratura, e resa ancora più goffa e ingombrante dal grande flash esterno appeso alle staffe, mentre l'altra mano cerca di restare aggrappata alla roccia sul fondo. Inquadrare questi simpatici animali in movimento e sistemare zoom, apertura del diaframma, velocità dell'otturatore ed angolazione e potenza del flash richiede ripetute acrobazie e non poche goffaggini, ma alla fine riesco a produrre qualche scatto azzeccato. Tutto in modalità manuale. Infatti anche nell'era digitale sott'acqua ci sono valutazioni che si fanno meglio ad occhio che con gli strumenti. I movimenti delle mante sono abbastanza imprevedibili, quindi meglio trovare un buon punto ed aspettare che si avvicinino loro, il che succede abbastanza facilmente, sono bestiole curiose e modelle collaborative, anche se non possono immaginare che finiranno in un album fotografico a far bella mostra di sé in qualche salotto o appese al muro in una cornice, o ancora sul mio sito in internet ed in questo libro. Una guida sub maldiviana ha scoperto che alle mante piace il solletico delle bolle d'aria sulla pancia. Quando una bestia gli passa sulla testa si toglie l'erogatore e le scarica addosso una colonna di bolle...


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21 March 2009

Nuotata con lo squalo balena alle Maldive

Lo squalo balena che ho fotografato ad Ari
Finalmente incontro uno squalo balena. Sono anni che cerco di farci un’immersione insieme, ma solo adesso ci riesco. Siamo all’estremità meridionale dell’atollo di Ari, in un punto dove spesso questi giganti del mare vengono a nutrirsi, o forse a riscaldarsi nell’acqua calda e poco profonda, ma ai confini con l’oceano aperto, cui possono facilmente ritornare senza doversi preoccupare di passaggi obbligati tra i banchi corallini. Impossibile saperlo con certezza, di loro sappiamo ancora molto poco. Comunque con loro si nuota solo in superficie, con maschera e boccaglio, niente bombole. Per non disturbarli troppo, si rischierebbe di infastidirli e sconvolgerne le abitudini. Finirebbe magari che sparirebbero dalla zona. E comunque trovarlo non è stato facile. La zona che bisogna battere è estesa per molti chilometri ed ovviamente non è possibile prevedere con precisione le abitudini di animali selvatici.

Le barche dei subacquei pattugliano lentamente su e giù per la costa dell’atollo, cercando di scorgere la caratteristica forma dello squalo che qui nuota a pelo d’acqua. Sulle isole si nota il cantiere dove stanno costruento un nuovo aeroporto regionale. Servirà a portare più rapidamente i turisti ai resort di Ari, senza dover ricorrere alle barche o ai microscopici aerotaxi idrovolanti. Per costruire la pista, che sarà completata nel 2011, sono state necessarie 37.000 tonnellate di sabbia. Il governo assicura che l’impatto ambientale sarà minimo e non deturperà l’ambiente sottomarino. Speriamo che gli squali balena che nuotano proprio qui accanto siano d’accordo.

Quando ne vedono uno, di solito i capitani delle barche se lo segnalano a vicenda, e si aiutano l’un l’altro a portarci i rispettivi clienti. Dopo ore di paziente attesa, ad un certo punto arriva la chiamata da un’altra barca e ci dirigiamo velocemente sul punto segnalatoci. Non c'è competizione in questo caso ma collaborazione, con il risultato che alla fine siamo in quattro barche a scaricare sul bestione una trentina di scalmanati alla ricerca di un incontro ravvicinato davvero speciale con il pesce più grande del mondo. Il quale se ne sta, beato ed incurante, a 4-5 metri di profondità, assorbendo i raggi del sole di mezzogiorno. Sarà lungo circa otto metri, un cucciolo per un animale che può facilmente raggiungere più del doppio della lunghezza. Procede lentamente, muovendo appena la coda con movimento sinuoso che sembra alla moviola. La parola «lentamente» per un grande squalo, però, non vuol dire la stessa cosa per un umano, ed infatti fatico moltissimo per cercare di nuotargli dietro, in superficie, con maschera, pinne, boccaglio e macchina fotografica, nella speranza di poter fare qualche fotografia da vicino. Alla fine ci riesco ma con grande affanno, e mi sento un po' ridicolo mentre lui, praticamente immobile, sgonfia la vescica natatoria e scivola verso l'abisso.

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20 March 2009

La scuola di Dhigurah, atollo di Ari, Maldive

Passeggiata su questa placida isoletta. Al mio sbarco dal gommone sono lì ad accogliermi sulla spiaggia un paio di piccoli pescherecci in riparazione. Pendono melanconicamente su di un lato, aspettando con pazienza che qualcuno venga a sistemarli per tornare in mare. Un enorme lucertolone, più simile ad un'iguana, fa fugacemente capolino da dietro un albero del pane accanto al quale una semplice altalena, due corde ed una tavola di legno, dondola tristemente vuota. Passo davanti ad una scuola, che però è vuota, infatti oggi è venerdì, il giorno di festa per i mussulmani. Posso comunque entrare a vedere. La struttura è ordinata e pulita, le aule sono disposte su due file con in mezzo un giardino tropicale colorato e molto ben tenuto, circondato da un muretto viola con in cima una banda blu scuro. Un paio di stanze sono attrezzate con batterie di computer moderni a schermo piatto, non hanno niente da invidiare alle migliori scuole di casa nostra, anzi. Certo sarebbe sorpreso Pyrard de Laval, che trovò che i bambini scrivevano le loro lezioni su tavolette di legno bianche, che fungevano da lavagnette su cui si poteva cancellare e riscrivere, oppure su fogli fatti con fibra vegetale intrecciate ed essiccate (un po’ come i papiri egiziani) per gli scritti in bella copia, definitivi.

Vicino alle aule si stende uno spazio aperto con bacheche alle pareti, sulle quali sono attaccati manifestini con poesie, pensieri e disegni dei bambini. Un disegno, opera di Imaadh, Firushan e Nafiz, mostra un grande e famelico drago, con un enorme pancione, seduto per terra, che tiene in mano un piccolo globo terrestre. La didascalia dice, in inglese: «I bisogni dell’uomo sono illimitati ma le risorse per soddisfarli sono limitate. Noi studiamo economia per usare queste risorse con efficacia ed efficienza.» Magari le insegnassero nelle nostre scuole queste cose.

Subito oltre una breve composizione, intitolata «Nuove stelle», senza il nome dell’autore. Si legge: «Un giorno ho visto Jane che piangeva tristemente a scuola. Sono andato da lei e le ho domandato cosa fosse accaduto. Mi disse che aveva preso in prestito il libro di matematica di Lara e lo aveva portato a casa per fare i compiti. Il giorno dopo però aveva dimenticato di riportarglielo, e la professoressa di matematica aveva punito Lara che era senza libro. Per questo motivo Lara si era arrabbiata ed aveva detto a Jane che non le avrebbe più rivolto la parola. Chiesi a Jane se aveva chiesto scusa a Lara. Mi rispose che le aveva chiesto scusa infinite volte, ma Lara non voleva sentire ragioni. Il giorno dopo Lara dimenticò di portare a scuola la sua borsa e la professoressa la rimproverò di nuovo. Durante la ricreazione, Jane vide Lara che leggeva una storia tutta soletta, da una parte; allora Jane corse ad un vicino albergo, comprò un pacchetto di patatine ed una bottiglia di Coca Cola e le regalò a Lara. Da allora Jane e Lara diventarono ottime amiche.»

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19 March 2009

Al Museo Nazionale delle Maldive, Malé

Pur avendo un aspetto esteriore piuttosto miserello (NDA: nel 2009 il museo è ancora ospitato un un vecchio edificio, ma dall'anno prossimo sarà trasferito in uno nuovo, donato dalla Cina), il museo di Malé ospita reperti di importanza fondamentale per capire la storia dell'arcipelago. Qui sono custoditi gli unici reperti risalenti al periodo pre-islamico delle Maldive, un'eccezione che conferma la regola che fa divieto di custodire nel territorio della repubblica islamica oggetti di culto di altre religioni. Gli artefatti più significativi sono infatti i reperti buddhisti, trovati soprattutto durante la spedizione di Thor Heyerdahl nel 1982, di cui racconto in un altro post di questo blog.

Heyerdahl era un esploratore norvegese, famoso non tanto per il lavoro svolto qui quanto per aver portato a termine la traversata dell'oceano Pacifico orientale con il Kontiki, una zatterona di balsa con la quale voleva dimostrare che i primi abitanti della Polinesia vi erano arrivati dall'America meridionale. Costruì una barca con antiche tecnologie e materiali locali in Perù e la chiamò Kontiki, dal nome di un dio Sole degli Inca. Con altre cinque persone a bordo, partì dal Perù nell'aprile del 1947, per arrivare quattro mesi dopo nella Polinesia francese. Dimostrò così che gli abitanti dell'America pre-colombiana avrebbero potuto navigare il Pacifico, ma non che lo avessero effettivamente fatto. Successivi studi antropologici infatti convergono nell'ipotizzare che i Polinesiani discendano piuttosto dal sud-est asiatico. Ma Heyerdahl non si perse d'animo, fece buon viso a cattivo gioco e ripartì, stavolta con un aereo di linea, per un altro oceano.

Stanco del Pacifico, approdò alle Maldive nel 1982 e riuscì ad ottenere dal presidente Gayoom uno speciale permesso per continuare nel sud dell'arcipelago le ricerche che l’inglese Bell aveva cominciato decenni prima. Il rilascio di questa apparentemente innocua autorizzazione non era affatto scontato, in quanto ogni immagine sacra che non sia islamica è vietata nel paese, e non si fanno sconti a nessuno. Rinvenire e magari mostrare in pubblico opere risalenti al periodo induista o al buddhismo poteva essere considerato sconveniente, anche se questi reperti fanno incontestabilmente parte del bagaglio storico delle isole. Comunque Gayoom acconsentì agli scavi.

Nel corso di vari mesi Heyerdahl trovò un vero e proprio tesoro di reperti archeologici. Gli scavi erano in parte facilitati dai precedenti studi di Bell, che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX aveva dimostrato senza ombra di dubbio che le Maldive erano buddhiste ed induiste prima di essere convertite all'Islam nel XII secolo. Il buddhismo arrivò con ogni probabilità durante il regno di Ashoka il Grande in India, durante il III secolo a.C., dunque più di mille anni prima della conversione all’Islam.

Ashoka era un re della dinastia indiana dei Maurya, ambizioso quanto illuminato, che regnò nel III secolo a.C. Si racconta che dopo aver vinto in una delle più cruente battaglie della storia indiana contro il regno di Kalinga, l'ultimo che non avesse ancora accettato la sua autorità, fu traumatizzato dal massacro di cui era stato artefice. Quindi, pur vittorioso, si convertì al buddhismo ed alla non violenza e fu molto attivo nel propagarne il credo, non solo nel suo regno ma anche al di là, fino addirittura all'Egitto e a Roma. Ma se la sua ambizione mondiale era forse eccessiva, egli convertì comunque al buddhismo quasi tutto il subcontinente indiano. Al di là della dimensione leggendaria di Ashoka, è certo però che questo fu l’unico periodo di affermazione continentale della religione buddhista, che qui era nata (Buddha era nato nell’odierno Nepal ma visse e morì in India) ma che poi sparì nel corso dei secoli per il risorgere dell’induismo più tradizionale, che lo fagocitò: Buddha è infatti considerato la nona reincanazione di Vishnu.
Dopo l'islamizzazione forzata dell’India poi, sotto la spinta dell’invasione di Tamerlano nel XIV secolo e culminata con l’impero Moghul duecento anni dopo, il retaggio buddhista fu quasi completamente dimenticato in tutto il subcontinente indiano. A tutt’oggi i pochi buddhisti rimasti trovano rifugio soprattutto nelle valli himalayane al confine con il Tibet. Della presenza buddhista alle Maldive, fino alle scoperte di Bell ed Heyerdahl non si seppe più nulla. Molte delle lastre di corallo utilizzate per i templi furono asportate e riciclate per abitazioni e moschee. Tuttavia gli scavi di Heyerdahl furono molto proficui, ed egli riuscì a raccogliere dalle sabbie una discreta collezione di sculture che erano scampate a razzìe e devastazioni dei secoli precedenti.

Nel museo di Malé ho potuto ammirare delle vere perle di quel periodo. Tra queste mi hanno colpito particolarmente alcune teste umane e teste di mucca in pietra di corallo, busti di Buddha e poi alcuni scrigni con simboli buddhisti, tutti risalenti al X secolo. Mi compiaccio della lungimiranza di Gayoom che ha permesso le ricerche e la conservazione di questi reperti nonostante non siano islamici. Mentre visito il museo, mi auguro che questa sua scelta sia di buon auspicio per gli studi futuri della regione. Ho letto che la Cina farà una donazione per ristrutturare il museo e valorizzarne le opere. Ma, come racconterò in seguito, sarò destinato ad una cocente delusione.

Nelle stanze successive sono esposti vestiti appartenuti ai sultani, con tanto di medaglie, pantofole finemente decorate e persino strumenti musicali, tra cui qualche vecchio bodu beru, il tipico tamburo che avrò la fortuna di ascoltare a Felidhoo, come racconterò in seguito. C'è persino un vecchio pianoforte di fabbricazione inglese. In un angolo, un ritratto di Ibn Battuta mi scruta intensamente. Bene! Sarà contento che stia utilizzando i suoi meticolosi appunti per il mio libro.

Nel museo ci sono anche preziosi esemplari dell'artigianato maldiviano così come si è sviluppato nei secoli. In particolare attirano la mia attenzione pregiati tappetini, oggetti laccati (con materia prima importata tradizionalmente dalla Birmania dato che qui non se ne produce) e gioielli finemente cesellati in oro. Una volta, leggo nel diario di Pyrard de Laval, i gioielli in oro erano prerogativa esclusiva del sultano e della moglie: chiunque altro volesse indossarne doveva comprare un permesso, portando così al Sultano un ricco e facile flusso di tributi. Non era però permesso a nessuna, neanche alla più nobile delle donne, indossare bracciali o alcun tipo di ornamento sulle caviglie. C’era poi una complicata regola gerarchica per cui gli anelli potevano essere indossati solo su certe dita e non altre, in modo che tutti fossero immediatamente riconoscibili per il proprio rango. Gli uomini potevano portare anelli solo sul pollice.

Purtroppo nel tempo queste arti (lacche, tappeti, gioielli) sono andate via via scomprarendo, e la produzione che oggi si trova in commercio risponde più a esigenze di turismo da paccottiglia, magari importata dall'India o dall'Indonesia, che a espressioni artistiche tradizionali del luogo. Si può solo sperare che un turismo più selezionato possa ricreare una domanda di qualità prima che questo artigianato sparisca per sempre. O forse che con lo sviluppo economico di fasce più ampie della popolazione si crei anche una domanda interna per questo tipo di merce pregiata, a volte di lusso, che permetta agli artigiani di continuare a produrla? Forse non è ancora troppo tardi.

Here are some of my own pictures of the Museum, taken in 2009 when it was still housed in the old premises and, of course, before the destruction of February 2012.





































Questo post è un estratto del mio libro sulle Maldive


17 March 2009

L'islam alle Maldive

Il muezzin richiama alla preghiera con la consueta regolarità, si sente da tutto il centro di Malé. Di regola, quando parte la registrazione di «Allah-u-akhbar», anche i negozi dovrebbero chiudere per consentire a tutti di pregare senza distrazioni, ma di fatto questo spesso non succede, anzi nel centro di Malé non l'ho mai visto fare. Magari si vede il cartello di prammatica «CLOSED» sulla porta, ma dentro le contrattazioni continuano.

La grande cupola dorata del centro islamico è una delle prime architetture che si vedono arrivando a Malé, il sole la fa brillare e si staglia prepotentemente e fotogenicamente, per dimensioni e colore, sulla monotonia urbanistica dell'isola e sul cielo blu. Il grande edificio di candido marmo bianco è stato inagurato nel 1984 e contiene un'enorme sala di preghiera che può contenere fino a cinquemila persone ed una sala per conferenze sull’Islam. I non mussulmani sono liberamente ammessi, tranne che durante la preghiera, ovviamente come tutti senza scarpe, e senza fotografare l'interno. Entrando noto che l'atmosfera è serena, anche molto fresca se paragonata al caldo esterno, accogliente. Quando arrivo non c'è nessuno, solo qualche bidello che fa le pulizie ed un impiegato che gentilmente mi scorta dentro per una visita.

Non mi fanno entrare, invece, nella vicina moschea antica, detta «del venerdì», per la quale mi dicono serva un permesso speciale, ma ho l'impressione che più semplicemente il guardiano di turno non fosse di buon umore. Forse ci potrò riprovare un’altra volta perché è la moschea più antica delle Maldive e pare che contenga mobili e suppellettili pregiati, con pannelli di legno su cui sono scolpiti i versi del Corano.

La moschea è un luogo preminente nella città. La fede islamica occupa infatti un ruolo preponderante in tutti gli aspetti della vita maldiviana dal tempo della conversione nel 1153. Come in molti altri paesi mussulmani, il ruolo dell'Islam acquisisce qui una dimensione che va al di là della religione per toccare la politica, la vita sociale ed anche quella personale. Ma la commistione tra potere religioso e temporale ha visto comunque, con poche eccezioni nella storia del paese, prevalere quest’ultimo, anche se spesso incarichi religiosi venivano usati per poi acquisire potere temporale. Ma come si è arrivati alla conversione all’Islam delle genti delle Maldive? Non lo sappiamo con precisione, anche se sappiamo che mercanti arabi frequentavano con assiduità i porti della regione a partire dal VII secolo. Ma, come spesso accade in tutto il mondo, dove la storia ci abbandona viene in soccorso la mitologia.

C’era una volta un demonio, chiamato Rannamari, che ogni mese veniva dal mare a minacciare e ricattare le genti delle isole...

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16 March 2009

Il mercato del pesce di Malé

Il mercato del pesce è molto vivo, piuttosto ricco, tutto sommato piacevole anche se non particolarmente variopinto come altri mercati del pesce che ho visto per il mondo. All’ingresso qualche camionetta un po’ insanguinata con secchi di pesce colorato in bella mostra e poi, entrando, un enorme salone maiolicato, non particolarmente pulito ma abbastanza ordinato, con pescatori e compratori in giro un po' alla rinfusa. L'atmosfera è alquanto sommessa, pacata, un po’ fredda per l’illuminazione al neon. Non si sente il gran vociare cui si è abituati in altri simili mercati asiatici, le trattative si svolgono in modo tranquillo. Dietro un lunghissimo bancone una dozzina di pescivendoli lavorano senza sosta con dei lunghi ed affilatissimi coltellacci per pulire il pesce. I tonni, che qui sono protagonisti, vengono prima allineati per terra e divisi per dimensione. Vanno dai più piccoli di qualche chilo a quelli enormi oltre il quintale. Uno alla volta vengono poi issati sul bancone e sfilettati sotto un sottile flusso d’acqua che cade da una fila di rubinetti installati ad intervalli regolari. I tranci rossi sono quindi accatastati di fronte alla clientela mentre le interiora, le pinne e gli altri scarti sono gettati in grandi barili di plastica. Gli avventori ritirano la merce e prima di andarsene infilano una mancia nel taschino della parannanza del pescivendolo che gli ha preparato i filetti. Sono tutti uomini, non si vede neanche una donna in tutto il mercato.

La pesca per secoli è stata la principale industria delle isole, superata solo negli ultimi anni dal turismo, ma rappresenta sempre un buon 15% dell’economia, ed impiega una percentuale ancora maggiore di lavoratori, tra pescatori ed indotto. Senza contare la grande parte della pesca di sussistenza delle famiglie degli atolli più lontani, che non è monetizzata e quindi difficilmente quantificabile. Al di là dell'aspetto meramente economico, la pesca è da sempre l'anima delle Maldive. Se va male la pesca, va male tutta l'economia. Ci mancò poco che si scatenasse una vera e propria rivoluzione quando nell'ottocento i mercanti indiani, spesso con l’aiuto degli inglesi, stavano per soppiantare i locali, o quando Ceylon impose controlli valutari che stavano per soffocare le vendite verso quel paese, principale sbocco delle esportazioni maldiviane di pesce.

I pescatori espongono la loro mercanzia, proveniente dalle barche di tutto l’arcipelago, su semplici banchetti, o semplicemente per terra, qualche volta solo pochi pesci modestamente allineati sulle maioliche bianche. La mattina è protagonista il pesce piccolo, di paranza diremmo noi, mentre nel pomeriggio arrivano i tonnetti, le cernie, le spigolone tropicali, qualche grande tonno d'altura. Ogni tanto qualche crostaceo fa la sua dignitosa figura, anche se essendo questo un paese mussulmano aragoste e granseole non figurano nelle ricette più comuni della cucina locale. Il tutto passa di mano rapidamente. La contrattazione è a tratti frenetica ma misurata nei toni.

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