04 August 1993

Ruolo futuro per la CSCE

Preparato all'Istituto Affari Internazionali

3 Agosto 1993


Introduzione


Questo appunto si propone di fornire alcuni spunti di riflessione sulle potenzialità della CSCE che potrebbero essere valorizzate dalla prossima presidenza italiana di questa organizzazione, e di indicare alcune priorità tra le svariate iniziative che si potrebbero intraprendere a questo fine. In linea generale, si possono individuare quattro modalità attraverso le quali le varie istituzioni preposte alla sicurezza in Europa possono oggi contribuire alla stabilizzazione del terremoto geopolitico succeduto alla Guerra Fredda. Queste modalità sono riassunte come segue:

1) Le istituzioni possono fornire un grado di rassicurazione politica che potrebbe contribuire a raffreddare i conflitti, specialmente tra i paesi di nuova indipendenza. Questa è una funzione importante soprattutto nell'attuale periodo di transizione, subito dopo il riconoscimento di molti nuovi stati, e serve a consolidare senso di identità statuale. Si deve registrare un sostanziale fallimento finora in Jugoslavia, mentre un certo successo è stato ottenuto in ex-URSS e Europa orientale.

Si tratta qui di una funzione di prevenzione educativa, di cui è difficile da valutare l'efficacia ma che è indispensabile al consolidamento dello stato di diritto e quindi dei diritti umani e della stabilità politica. Il ruolo della CSCE può essere centrale a questi fini.

2) Inoltre, le istituzioni potrebbero fornire garanzie di sicurezza (intesa in senso lato) ai paesi (o ai popoli e minoranze) più minacciati. Non si tratta qui tanto di garanzie di protezione militare, quanto di attenzione ai problemi di sicurezza in senso lato: sociale, economica, ed in materia di diritti umani. La diplomazia preventiva della CSCE può essere fondamentale in questo contesto. In campo strettamente militare, la CSCE può altresì capitalizzare sui risultati ottenuti dal 1986 in poi in campo del "confidence-building".

3) Le istituzioni possono poi provvedere ad azioni di "peace-keeping" o "peace-making". Per tali azioni si deve pensare prima ad una fase di legittimazione politica e quindi ad una fase di implementazione militare, o operativa. Così come accade a livello nazionale, le due fasi non devono necessariamente essere affidate alla stessa organizzazione. Per la CSCE si prevede qui un ruolo essenzialmente legittimante, e solo marginalmente operativo.

4) Infine, le istituzioni possono favorire il processo di riconversione militare verso strutture meno onerose e più difensive, il che è reso necessario sia per motivi di bilancio che per favorire la stabilizzazione militare in Europa. Per quest'ultima funzione si ritiene che l'organismo più adatto, per competenze oggettive, sia il Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (NACC) e non si discuterà quindi del pur possibile impiego della CSCE.

Per una più chiara ed efficiente ripartizione dei compiti tra le istituzioni di sicurezza—necessaria per evitare dannose logiche competitive e spreco di risorse—è essenziale che ciascuna di esse tenda a sviluppare un suo campo specifico di intervento. La CSCE sembra particolarmente adatta a operare nei settori dell'early-warning e della diplomazia preventiva. A Helsinki le capacità dell'organizzazione sono state rafforzate soprattutto in questi settori. In effetti, le principali iniziative intraprese dalla CSCE dopo Helsinki hanno riguardato la prevenzione, più che la gestione dei conflitti. Quest'ultima funzione, per la quale la CSCE manca di una capacità operativa e di adeguate procedure decisionali, ha continuato a essere attribuita ad altre istituzioni più solide e collaudate.

Questa tendenziale specializzazione della CSCE non deve essere considerata negativamente. Essa andrebbe anzi ulteriormente promossa. Occorre sempre più valorizzare, in particolare, l'originale connessione che si realizza, in seno alla CSCE, tra controllo del rispetto dei diritti umani e prevenzione dei conflitti (connessione che una serie di decisioni assunte a Helsinki—creazione dell'Alto Commissario per le minoranze nazionali, nuove competenze dell'Ufficio di Varsavia, ecc.. - hanno contribuito a rafforzare).

La scelta della specializzazione dovrebbe favorire, come si è detto, il rapporto con le altre istituzioni con competenze nel campo della sicurezza. Sia per l'early-warning che per la diplomazia preventiva è essenziale che si sviluppi sempre più organicamente il rapporto di cooperazione con l'ONU, partendo dall'accordo raggiunto recentemente. Anche la cooperazione con la NATO sembra impostata su basi promettenti. Essendo sprovvista di proprie capacità militari, la CSCE dovrà necessariamente affidarsi a quelle di cui dispone la NATO o di cui potrebbe dotarsi in futuro l'UEO.


Rassicurazione politica

Non è un caso che tutti i paesi di nuova indipendenza dell'Europa orientale abbiano immediatamente chiesto di far parte della CSCE. L'appartenenza a questa camera di compensazione è unanimemente percepita come un requisito essenziale per la partecipazione alla vita politica del continente, e come preparatoria ad una più stretta integrazione in altre, più impegnative, istituzioni di sicurezza.

Mentre tutti i paesi europei (al di fuori della ex-Jugoslavia) sono oggi membri della CSCE—assieme ad alcuni paesi asiatici la cui "europeità" è quanto meno opinabile—non tutti hanno dimostrato di averne fatto propri i principi ispiratori. È quindi importante che la CSCE continui ad insistere nel lavoro di formazione alla sicurezza collettiva e comprensiva (oltre che delle questioni militari anche degli aspetti economici e della dimensione umana) che nessun'altra istituzione è in grado di fornire. La rassicurazione politica va quindi vista in una duplice luce: sia come catalizzatrice di un "senso di appartenenza", che rafforzi la convinzione dell'inevitabile interdipendenza internazionale, sia come educazione politica vera e propria ai valori della democrazia.

A questo proposito, di potrebbe considerare anche l'ipotesi di stabilire delle condizioni per l'appartenenza alla CSCE, analogamente a quanto accade per il Consiglio d'Europa. Tuttavia, ci sembra che al momento convenga soprassedere, salvo situazioni assolutamente eccezionali come quella della Jugoslavia, mirando invece a mantenere la CSCE come camera di compensazione onnicomprensiva.

In questo contesto, si potrebbe anche pensare ad un allargamento verso Sud (Mediterraneo) della CSCE. Infatti, sia con lo status di osservato­re conferito al Giappone (che, se non altro per motivi finanziari, è probabil­mente destinato a rafforzarsi), sia con l'entrata dei paesi centro-asiatici ex-sovietici, la CSCE ha cessato di essere un'organizzazione rigorosamente europea. Il fallimento del'iniziativa CSCM, e le evidenti difficoltà del processo di pace tra Arabi e Israele, portano a ripensare all'opportunità di favorire anche per il Maghreb e per alcuni paesi del Medio Oriente l'adesione alla CSCE. In fondo, è senz'altro più europea la Tunisia del Kirgizstan.

Un problema collegato all'allargamento della CSCE durante la Guerra Fredda era che avrebbe diluito la sua missione fondamentale, che era quella di trovare il maggior denominatore comune tra i due blocchi contrapposti. Ma oggi la CSCE non deve più mediare tra blocchi contrapposti. Un altro ostacolo era che un maggior numero di stati, a ragione della regola del consenso, avrebbe fatto rischiare la paralisi. Ma il numero degli stati (e la reale indipendenza di molti) è già aumentato al punto che la regola del consenso deve comunque essere abbandonata, almeno in alcune circostan­ze.


Garanzie di Sicurezza

La CSCE è l'istituzione meglio equipaggiata a favorire una realistica, se pur limitata, diffusione di garanzie di sicurezza comprensiva. Non ci riferiamo qui, ovviamente, a garanzie di intervento per la difesa collettiva, del tipo di quelle contenute negli Artt. V dei trattati NATO e UEO.

In primo luogo, la CSCE dovrebbe capitalizzare sui notevoli risultati già ottenuti nel campo delle "confidence-building measures" (CSBM). Di queste c'è oggi più bisogno che mai, sia per prevenire percezioni aggressive, sia per ricomporre conflitti attualmente in corso quando cesseranno le ostilità. Si potrebbe inoltre pensare a dare alla CSCE una qualche misura di responsabilità per conflitti interni a paesi membri. A questo scopo, la CSCE è meglio equipaggiata del NACC, per due motivi: primo, del NACC non fanno parte molti stati che saranno invece interessati alle CSBM; secondo, gli attriti che si dovessero venire a creare attorno alla creazione o all'implementazione di tale regime non coinvolgerebbero la NATO.

Finito il tempo dei grandi accordi di disarmo su scala europea occorre concentrarsi soprattutto sulla dimensione sub-regionale, promuovendo accordi fra paesi della stessa area (per esempio, i Balcani o l'Asia ex-sovietica). La regionalizzazione del controllo degli armamenti è espressa­mente prevista nel programma di lavoro del Foro di cooperazione per la sicurezza creato a Helsinki. Più in generale, occorre stabilire una più stretta connessione tra controllo degli armamenti e prevenzione dei conflitti. Il sistema delle misure di fiducia e sicurezza (Csbm) può essere ulteriormente migliorato e allargato, ma è essenziale che le nuove misure siano collegate con gli altri meccanismi.

In secondo luogo, è in ambito CSCE che si dovrà perseguire una più strenua difesa dei diritti umani come fattore di sicurezza. Questa difesa si dovrà concretizzare prima di tutto con mezzi politici, ma anche, ove necessario, con mezzi militari. Durante la Guerra Fredda, l'Occidente ha dovuto accettare imbarazzanti compromessi in materia di diritti umani, sacrificati sull'altare di una "real-politik" che era in larga parte dettata dalla necessità di convivere pacificamente con l'impero sovietico. In altre parole, c'era una sorta di "trade-off" tra diritti umani e sicurezza.

Oggi, al contrario, l'Occidente ha più mezzi a disposizione per esercitare pressioni sui quei paesi che violano i diritti umani. L'uso di questi mezzi non sarebbe esente da costi. Ma evitare di far ricorso a questi mezzi oggi non permetterebbe di ottenere in cambio stabilità politica, come accadeva prima del 1989. Al contrario, svariati paesi che oggi violano i diritti umani sono anche portatori di instabilità politica internazionale: interessi di "real-politik" e principi umanitari convergono quindi nell'imporre all'Occidente una concreta difesa dei diritti umani, se necessario anche tramite lo strumento militare. A questo scopo, la CSCE dovrà essere dotata dei necessari strumenti decisionali di vertice che possano fornire, se possibile di concerto con l'ONU, la necessaria legittimazione agli interventi, nazionali ed internazionali, volti a difendere questi interessi.


Procedure decisionali: legittimazione del "peace-keeping/making"

L'obiettivo strategico centrale della presidenza italiana dovrebbe essere lo sviluppo di quel processo di razionalizzazione istituzionale della CSCE che è ormai unanimemente riconosciuto come un'esigenza inderoga­bile. Occorre affermare il principio che il rafforzamento della CSCE e la semplificazione della sua struttura e dei suoi meccanismi sono due aspetti non solo conciliabili, ma, in larga misura, interconnessi. Se ne tratta in questa sezione e nella seguente.

Si è detto che l'accresciuto numero di nuovi stati in Europa, ed il fatto che molti di essi siano effettivamente indipendenti, diluisce l'operatività della CSCE. La regola del consenso è sempre meno adeguata. Ciò sarebbe solo marginalmente più vero in caso si verificasse l'allargamento che si auspicava sopra. C'è quindi bisogno di passare all'approvazione a maggio­ranza (magari qualificata) almeno per alcuni tipi di decisioni ed interventi. Alternativamente, si potrebbe pensare ad ipotesi di maggioranza ponderata, che terrebbero conto delle ineludibili differenze di peso geopolitico tra i paesi membri.

É stata talvolta anche paventata l'idea di creare nella CSCE, parallelamente a quanto avviene all'ONU, un Consiglio di Sicurezza, che possa decidere operativamente senza aspettare il consenso di tutti gli stati membri e se necessario contro uno o più di essi. Tale Consiglio potrebbe una notevole utilità, in quanto porterebbe autorevolezza alle decisioni esecutive. Il rischio è che rischierebbe di duplicare il ruolo del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e quindi di indebolirlo. A questo rischio si potrebbe ovviare sottolineando che comunque, per statuto, il Consiglio CSCE rimarrebbe subordinato a quello dell'ONU.

I membri permanenti del Consiglio, con diritto di veto, potrebbero essere USA, Russia, Regno Unito, Francia e Germania. Italia, Spagna, Ucraina (e forse Kazakistan) potrebbero avere uno status di membri permanenti, o semi-permanenti, ma senza diritto di veto. Questo Consiglio eliminerebbe l'imprevedibilità della Cina nel Consiglio ONU, ed allo stesso tempo faciliterebbe l'essenziale coinvolgimento della Germania. I poteri del Consiglio potrebbero essere limitati, almeno all'inizio, all'area delle operazioni di prevenzione dei conflitti e di peace-making. Fino a che perdurerà l'attuale sostanziale convergenza di prospettive tra le maggiori potenze europee, eventuali risoluzioni del Consiglio avrebbero notevoli possibilità di influenzare favorevolmente lo sviluppo delle iniziative di risoluzione dei conflitti.


Razionalizzazione Istituzionale della CSCE

Finora la moltiplicazione di organi e di strumenti non si è tradotta in un rafforzamento delle capacità operative dell'organizzazione. Le stesse decisioni di Helsinki hanno avuto, sotto questo profilo, un carattere contraddittorio: da un lato sono state gettate le basi per un'attività più ordinata e sistematica—soprattutto attraverso il potenziamento degli organi di direzione politica, coordinamento e supervisione (Caf, Presidente in carica). Ma si è ulteriormente accentuata la tendenza a una moltiplicazione degli organi. L'urgente necessità della razionalizzazione istituzionale è stata messa in evidenza anche dall'esperienza delle iniziative intraprese dopo Helsinki. Qualora questa contraddizione tra una struttura istituzionale iperestesa e una ridotta capacità operativa dovesse perpetuarsi, si rischierebbe un'erosione del consenso politico che è vitale per l'avvenire di ogni organizzazione.

Vanno pertanto sostenute le proposte miranti a una riorganizzazione della CSCE su basi più razionali:

1) La concentrazione di attività e istituzioni della CSCE in un'unica sede (la più adatta appare Vienna). La dispersione delle istituzioni in più sedi aveva senso all'indomani del 1989 come strumento per promuovere le nuove democrazie. Oggi appaiono invece prioritarie le misure intese a favorire più rapidità e sistematicità. Alcuni temono che la scelta di un'unica sede possa portare a quella burocratizzazione della CSCE che è stata finora sempre esclusa nei documenti ufficiali. Ma un certo rafforzamento dell'apparato burocratico—posto che sia funzionale a un effettivo potenzia­mento operativo—appare inevitabile e comunque preferibile, anche dal punto di vista dell'immagine, all'attuale dispersione in quattro capitali diverse (Vienna, Varsavia, Praga e Ginevra).

2) L'ulteriore potenziamento degli organi di direzione e coordinamento. A tal fine appaiono necessarie:

a) la sostituzione del Comitato degli Alti Funzionari con un comitato politico permanente (il primo passo in questa direzione è stato compiuto con la creazione del gruppo Caf di Vienna decisa dal Consiglio nella riunione di Stoccolma);

b) In questa luce, la designazione di un Segretario Generale della CSCE deve essere vista con favore. Anche se attualmente non è previsto un ruolo politico per il Segretario, egli dovrà essere in futuro dotato di più ampie responsabilità, ed anche di iniziativa politica. Altrimenti, si correrà il rischio che l'azione della CSCE sarà intralciata da ogni piccolo dissidio tra gli stati membri (che sarebbe inevitabilmente riflesso nelle discussioni del Caf). È fondamentale che la CSCE abbia un suo centro motore in grado di operare in maniera almeno parzialmente autonoma dagli organi in cui sono rappresentati tutti i governi e all'interno dei quali, anche se si riusciranno ad apportare delle modifiche alle procedure decisionali, sarà comunque sempre richiesto un consenso molto ampio. Il Segretario Generale potrebbe svolgere questo ruolo, in analogia a quello dell'Onu (o, se si vuole, della NATO). Durante il periodo di presidenza italiana si dovrebbe pertanto valorizzare, nei limiti del possibile, la funzione del Segretario Generale, stabilendo uno stretto rapporto di consultazione e cooperazione tra quest'ultimo e il Presidente in carica. Il timore che ciò possa portare a un condizionamento della Presidenza italiana da parte del Segretario Generale non appare giustificato. In ogni caso, sarebbe sbagliato sacrificare l'obiettivo strategico di dotare la CSCE di una figura istituzionale forte a interessi di prestigio di più corto respiro.

3) L'eliminazione di alcune ridondanze. La più vistosa continua a essere quella tra il Comitato degli Alti Funzionari e il CPC per quanto attiene alla consultazione sulle situazioni d'emergenza. Si dovrebbe concentrare tutta l'attività di consultazione politica nel Caf e limitare il Cpc a una funzione più strettamente tecnico-operativa.

4) Una più solida struttura organizzativa per il sostegno operativo alle varie missioni CSCE. Tale compito tende sempre più ad essere attribuito al Centro di prevenzione dei conflitti. Si potrebbe pertanto decidere di trasformare il Cpc in una sorta di agenzia operativa per l'organizzazione delle missioni.


Capacità operative della CSCE: peace-keeping e peace-making

Il Centro per la Prevenzione dei Conflitti di Vienna è assoluta­mente inadeguato, disponendo solo di uno staff simbolico e di un bilancio irrisorio. Dovrebbe essere notevolmente ed immediatamente rafforzato. Il CPC è stato ingiustamente accusato di aver fallito nella crisi jugoslava: in realtà non ha avuto né i mezzi né il mandato per intervenire in tempo.

È infatti nel campo della prevenzione dei conflitti che la CSCE può sfruttare il proprio vantaggio comparato di camera di compensazione politica. In questo senso, il "peace-keeping" della pace deve essere qui visto nel suo senso più proprio, come obiettivo da perseguire prima che scoppi la guerra (early-warning). Finora, invece, il mantenimento della pace era stato interpretato in maniera ristretta, come mantenimento di più o meno fragili tregue che seguivano al conflitto armato tra i contendenti.

Se pur in misura limitata, le capacità operative della CSCE sono state già sperimentate, se pur con risultati deludenti, in varie parti della ex-Jugoslavia. Non crediamo che questo sia un ambito di competenza promettente per la CSCE, che dovrebbe invece attingere per questi scopi dalle risorse disponibili presso altre organizzazioni, quali la UEO e, soprattutto, la NATO.

Più in generale, a livello militare sono sufficienti gli strumenti già esistenti, e soprattutto l'infrastruttura della NATO. Ciò è ancora più vero se si considera che la NATO ha offerto esplicitamente i propri servizi alla CSCE (e all'ONU). La complementarità tra strumento militare NATO e mandato politico CSCE è evidente. Ogni duplicazione sarebbe dispersiva politicamen­te, costosa economicamente e controproducente militarmente.

25 May 1993

Conversazione sulla politica internazionale: nazionalismo, realpolitick, stabilità e cambiamento.

Oggi ho avuto una lunga conversazione con CM, un senior della dirigenza dello IAI, istituto dove lavoro come ricercatore. Si è parlato di stabilità e cambiamento negli scenari politici europei nei quali è chiamata a giocare le sue carte l'Italia.

Sonnenfeldt (al centro) con Kissinger

Il senior ragiona ancora con i criteri della guerra fredda. Pensa che la contrapposizione tra stabilità e cambiamento sia ancora una vera alternativa. In altre parole, favorire il cambiamento in Europa orientale, per esempio facilitando il loro accesso alla NATO, porterebbe a maggiore instabilità e rischio di conflitto con la Russia.

Penso che fosse così durante la guerra fredda, ed era facile (anche se un po' egoistico) per noi europei occidentali preferire la stabilità. Bastava ricordare cosa era successo nel 1956 in Ungheria, nel 1968 in Cecoslovacchia e nel 1981 in Polonia. Pensavo così anche io fino al 1989. Il cambiamento ci avrebbe portato pochi vantaggi, si diceva, e molti rischi. Quindi conveniva a noi lasciare l'Europa orientale prigioniera nel Patto di Varsavia, ma forse conveniva anche all'Europa orientale stessa, dato che l'alternativa sarebbe stata la repressione militare.

Mentre ovviamente di parere contrario erano quelli che, in Europa orientale, satelliti sovietici, avevano poco da perdere a rischiare il cambiamento.

Insomma era la "dottrina Sonnenfeldt", cui molti in Occidente credevano, ma pochi lo ammettevano allora e nessuno lo ammetterebbe oggi. Sonnenfeldt stesso non lo ammise mai in pubblico. Comunque, a torto o a ragione, il suo pensiero è stato così interpretato e da molti condiviso. Una volta lo incontrai ad una conferenza accademica e gli chiesi se lui veramente voleva lasciare l'Europa orientale ai russi in cambio della stabilità in Europa occidentale. Lui mi rispose un po' evasivamente, e poi purtroppo non ci fu tempo per approfondire.

Io penso però che oggi la contrapposizione tra stabilità e cambiamento sia diventata obsoleta. Oggi stabilità non vuol dire più mantenimento dello status-quo, ma gestione del cambiamento. In questo contesto, quindi, direi che la contrapposizione è piuttosto tra cambiamento e continuità.

In questo periodo va molto di moda parlare, o riparlare dopo tanto tempo, di interessi nazionali, della Realpolitik, anche da parte della sinistra che li ha sempre avversati nel nome dell'internazionalismo socialista. CM pensa ai nazionalisti come ai fautori della Realpolitik. Da questo punto di vista la Realpolitik è il legittimo perseguire dei propri interessi reali, concreti, a differenza di quelli ideali o morali. A questa Realpolitik, secondo lui, bisognerebbe contrapporre una politica multilaterale.

Bisogna invece dire che la Realpolitik italiana oggi richiede che si rafforzi il multilateralismo, perché un approccio unilaterale (cioè nazionalistico) sarebbe velleitario e perdente, soprattutto per un paese del peso dell'Italia.

In altre parole, è il nazionalismo ad essere idealista ed irrealista, mentre il multilateralismo offre le maggiori possibilità di raggiungimento di obiettivi di Realpolitik, cioè dei reali interessi dello stato italiano.