03 November 1991

5° g - 3 NOV: incontro con Sali Berisha, Presidente del Partito Democratico

Cardiologo, membro del ristrettissimo entourage di Hoxha, Sali Berisha viveva nel "blok" (isolato al centro di Tirana circondato da mura e protetto da guardia armata, lo abbiamo ancora visto noi con i nostri occhi) con 25 famiglie privilegiate del regime. Parla inglese e francese, capisce l'italiano. Lo abbiamo trovato grazie ad un ragazzo conosciuto in questi giorni che quando ha saputo che ci interessavamo della politica albanese si è offerto di portarci da lui. Berisha è già un personaggio importante, ma abita in una casetta senza pretese, senza guardie, la porta è praticamente aperta quando arriviamo.

02 November 1991

4° g - 2 NOV: incontri al Parlamento ed al Ministero degli Esteri, gita a Kruje

Andiamo con la nostra bella Mercedes blu a Kruje (Croia) per ua piacevole gita. Durante il percorso, su per la montagna, ad un certo punto l’autista fa un brusco scarto e investe un pollo che se ne andava tranquillo per la per strada. Io ho prima pensato che avesse cercato di evitare il pollo con quella sbandata volontaria al limite del pericolo. Ma mi sono dovuto ricredere quando l’autista è sceso dall’auto, ha recuperato il pollo con aria un po’ furtiva, e lo ha infilato nel portabagagli della Mercedes. Successivamente, duranta la pausa pranzo presso un ristorante locale, ho visto gli autisti accendere un falò nel parcheggio del ristorante e cucinarsi il pollo per il loro pranzo, sprizzavano gioia da tutti i pori!

01 November 1991

3° g - 1 NOV: Museo nazionale, moschea, istituto di geografia

Visitiamo la moschea, ci dicono che era stata quasi off-limits durante gli anni dell’ateismo di stato ma ora funziona di nuovo, l’Arabia Saudita dona tappeti, arredamenti... Comunque non ci sono in Albania molti integralisti islamici, anche prima del comunismo. Un funzionario del ministero degli esteri mi dice che oggi c’è una cauta rivalutazione dell'islam. Quest'anno 180 albanesi sono andati a La Mecca per la prima volta in 50 anni. Altri andranno l’anno prossimo. Relazioni eccellenti con la Turchia, per affinità religiosa e culturale dopo 500 anni di occupazione, per i circa 2 milioni di albanesi in Turchia, e nell'ambito della cooperazione balcanica multilaterale.

31 October 1991

2° g - 31 OTT: incontri con un italiano di Tirana e all’università

Dopo una misera colazione usciamo a piedi per le strade di Tirana, non c’è più la Mercedes blu. In questi giorni andremo a tutti gli appuntamenti sempre a piedi, per fortuna che Tirana non è molto grande, almeno il centro dove sono i luoghi dei nostri incontri, non c’è nessuno per strada ed il tempo è bello. Arriviamo subito piazza Skanderbeg, intitolata al glorioso personaggio della resistenza nazionale, che è totalmente deserta, solo alcuni mezzi pubblici abbandonati, senza carburante o con semiassi rotti, finestrini sfasciati. Fino a pochi mesi fa le auto private erano vietate, ora sono permesse ma ovviamente nessuno se le può permettere al momento. In compenso in questi giorni abbiamo incontrato, in piena città, qualche pastore con le sue pecore. Non ci sono semafori.

30 October 1991

1° g - 30 OTT: partenza da Roma per Tirana

Oggi parto per l’Albania con due colleghi L’idea della visita è nata nel marzo scorso quando ho incontrato a Roma il Prof. Sopot Cama, responsabile della cattedra di economia politica della facoltà di economia dell'Università di Tirana. Dopo decenni di isolamento l’Albania sti stava cominciando ad aprire, e Cama era stato tra i primi ad avere il permesso ed i fondi per venire a fare ricerca ed incontrare colleghi in Italia. Il regime comunista è caduto da pochi mesi, due anni dopo le rivoluzioni del 1989, e ora c'è un governo provvisorio in attesa di elezioni libere. Sarà una piccola avventura, un paese che è praticamente un buco nero politico e culturale proprio dietro l'angolo di casa...

24 September 1991

Il Dopo Golpe in URSS

Uno strano Golpe

Il colpo di mano non è stato portato avanti con convinzione. Non appare chiaro, neppure in prospettiva, cosa gli otto volessero fare. Molte domande probabilmente resteranno senza risposta. Perché non hanno arrestato Eltsin e gli altri leader progressisti (solo il KGB ha brevemente rapito il capo dei sindacati liberi la mattina del 19 Agosto), ma anzi li hanno lasciati liberi di muoversi ed organiz­zare la resistenza? Perché non hanno disturbato le trasmissioni radio occidentali, che si sono rivelate la fonte più preziosa di informazioni per i moscoviti ed i leningradesi (oltreché per lo stesso Gorba­ciov)? Perché non hanno interrotto le comunicazioni telefoniche nazionali ed internazionali? non hanno chiuso le frontiere? hanno lasciato operare indisturbati i media internazionali? e la lista potrebbe continuare. Pensavano forse, con questa parvenza di legalismo, di guadagnare una qualche legittimità interna o internazionale? Forse sí, e almeno nel secondo caso ci sono andati abbastanza vicino a giudicare dalle reazioni immediate dell'Occiden­te (vedi oltre).

Il golpe in sé però non è stato una completa sorpresa per gli addetti ai lavori. Un colpo di mano dei militari, dell'apparato del PCUS e del KGB era stato paventato da molti studiosi nella let­teratura scientifica da più di un anno, sia in URSS che fuori. Proprio alla luce di questo pericolo, il leitmotif dell'atteggiamento occidentale verso l'URSS era stato di allungare il più possibile il corso politico e la carriera personale di Gorbaciov, cospargendolo di allori. Motivo di ciò il grande coraggio, ed i successi, di Gorbaciov in politica estera. Ad essi si deve anche la distanza presa in Occidente, pur con differenze, dai golpisti; mai in passato i governi e le opinioni pubbliche avevano preso posizione contro un cambio di regime in URSS (o in altri paesi comunisti). Si ricordi il 1964 con la destituzione di Khrushchev, o gli intrighi tra i membri del politbjuro degli anni '50, gli intrighi di palazzo nella Cina del dopo-Mao che lasciavano il resto del mondo indifferente.

Questo atteggiamento occidentale forse è stato anche utile fino all'inverno 1989-1990, cioè fino a quando Gorbaciov, nonostante la crescente impopolarità, poteva farsi forza del fatto, che non si stancava mai di ripetere, che non c'erano alternative proponibili al suo programma "centrista". L'alternativa in realtà c'era, ed era la restaurazione che i più, in URSS e fuori, temevano. Tuttavia, fino alla risurrezione politica di Eltsin nel 1989, la disillusione prodotta dal fallimento delle riforme economiche si traduceva in un diffuso appoggio popolare a chi sosteneva che col vecchio sistema, per quanti problemi ci fossero, almeno c'era stabilità sociale, il paese era (anche se solo apparentemente e forzatamente) unito, e c'era un minimo di sicurezza per il sostentamento (anche se a livelli sempre più bassi). In questa situazione, il sostegno occidentale rafforzava la leva politica interna di Gorbaciov.

Con l'inverno 89-90, però, i successi di politica estera non bas­tavano più a frenare il crollo della popolarità di Gorbaciov, e la perestrojka economica, cioè il tentativo di tenere in vita il meccanismo comunista con iniezioni disordinate di mercato, appariva definitiva­mente fallita. Cresceva la nostalgia delle masse per il minimo garantito dal vecchio sistema agonizzante. Tuttavia si profilava, per la prima volta nella storia russa, un'alternativa alla res­taurazione: l'abbandono del comunismo, propugnato dal leader politico che rapidamente diveniva il più popolare del paese, Boris Eltsin. Nel corso del 1990 e del 1991 lo spazio del centrista Gorbaciov si restringeva di giorno in giorno, ma adesso a vantaggio di Eltsin, dapprima ostracizzato dal PCUS e poi uscitone al 28 Congresso del partito nel 1989, e non più dei restauratori.

Ciononostante, Gorbaciov continuava a trattare i proponitori di riforme più radicali (i vari Abalkin, Shmeliov, ecc.) come temerari, e li frenava. Il Congresso dei Deputati del Popolo, ancora dominato dai conservatori in base alle quote assicurate al PCUS e affiliati nelle elezioni del 1989, li considerava degli irresponsabili, e li bloccava. I pochi imprenditori che si avvantag­giavano degli striminziti meccanismi di mercato introdotti (per esempio le cooperative) erano tacciati di essere avventurieri o, peggio, in russo, "speculatori" cioè una sorta di nuovi sfruttatori del proletariato; le strutture statali li ostacolavano come potevano, amministrativamente e fisicamente.

In questo contesto, il golpe si interpreta come il colpo di coda dei restauratori che sapevano di essere già deboli ma sapevano anche che il fattore tempo giocava contro di loro. Il semplice tornare indietro diveniva, grazie al vaso di Pandora aperto dalla glasnost, che aveva rivelato i lati peggiori del Brezhnevismo, sempre più improponibile. Alternativamente, andare avanti sulla strada di Gorbaciov, ma magari più gradualmente per attutire l'impatto delle inevitabili dislocazioni sociali nel passaggio al capitalismo, non avrebbe risolto alla radice i problemi. Inoltre, non era abbastanza per convincere le masse, e con la glasnost le masse contano più nel 1991 che nel 1917. Infine, la violenza bruta per reprimere gli scontenti non bastava più. Non si sarebbe trattato qui di massacrare qualche centinaio di giovani audaci, come fu per i cinesi a Tiananmen: come dimostrato dai fatti d'agosto, una repressione armata portata avanti con convinzione non sarebbe stata né rapida né facile: si sarebbe scontrata con le masse di tutte le città dell'Unione, e sarebbe probabilmente stata la guerra civile.

Tuttavia, dalle elezioni di Eltsin a presidente del Soviet russo (aprile 90) in poi, era chiaro che c'è un'alternativa praticabile alle mezze riforme della perestrojka: non andare indietro, e neanche rallentare, ma andare avanti a tutto gas, fare il salto nel buio. I rischi erano e rimangono enormi, ma c'era la speranza di un cambiamento reale, di poter migliorare. Era anche chiaro che questa alternativa godeva di larghissimo consenso popolare che aumentava man mano che si continuavano a rimandare i passi decisivi. Oggi, questa speranza è in parte fondata sull'illusione che dalla situazione attuale non si può che migliorare; sull'importanza di questa illusione per il futuro ritornerò in seguito.

Reazioni internazionali

Nel complesso, a parte la patetica euforia espressa per poche ore da Gheddafi, Arafat, Castro e Saddam Hussein, e la malcelata soddisfazione dei cinesi, il golpe non ha raccolto i consensi e neanche l'acquie­scenza che forse gli autori si aspettavano. D'altro canto, non c'è stata neanche l'opposizione decisa che la sua illegalità avrebbe meritato. Nelle prime ore, l'Occidente, con l'eccezione di Gran Bretagna e USA, è stato a guardare, attonito.

Per esempio, si è registrata una certa passività da parte italiana, con De Michelis che la sera del lunedí del golpe, ad una domanda su che posizione avrebbe preso l'Italia, prudentemente rispondeva solo che Roma avrebbe "aspettato una decisione europea", senza peraltro neanche dire quale sarebbe stato il contributo italiano alla formazione di tale decisione. É stato probabilmente alquanto singolare, dal punto di vista degli osservatori stranieri, che siano stati la Presidente della Camera, la (ex-)comunista Iotti, ed il radicale Pannella ad elogiare il presidente (Repubblicano) Bush e il Premier (Conservatore) Major per essere stati i primi a prendere una posizione chiara contro l'inco­stituzionalità del golpe.

Neanche il giorno dopo i ministri degli esteri dei dodici prendevano una posizione netta, limitandosi alla sospensione degli aiuti economici promessi; si sarebbe almeno potuto dire che non si riconosceva la giunta (se questa avesse vinto si sarebbe sempre fatto in tempo a riconoscerla in seguito, così come si è fatto in passato con tanti regimi autoritari altrove). Invece, anche la posizione comunitaria è stata improntata al temporeggiamento. Se non sorprende la non inusuale passività italiana, deludente è stata anche quella tedesca, solo in parte giustificabile dalla necessità per Bonn di continuare, comunque e con chiunque, a far defluire le rimanenti 300.000 truppe sovietiche dal proprio territorio.

Più tempestività da parte americana e inglese, (giustifacata forse da maggiori informazioni sulla debolezza dei golpisti di quante non ne avessero gli altri europei?) che hanno forse contribuito ad indebolire ulteriormente la base di appoggio già traballante dei golpisti. Già poche ore dopo il golpe, Bush e Major sospendevano tutti gli aiuti all'URSS. Circa 24 ore dopo il golpe Washington dichiarava di non riconoscere il nuovo governo in quanto incostituzionale. Informato det­tagliatamente sugli sviluppi interni ed esteri tramite la BBC e Voice of America, il popolo russo è stato incoraggiato a seguire Eltsin in quello che è stato una sorta di contro-golpe, durante e subito dopo il quale il presidente russo si è subito arrogato molti dei poteri lasciati di fatto vacanti dalla prigionia di Gorbaciov.

Il controllo delle forze nucleari

Molto si è detto riguardo al problema del pericolo di un'even­tuale perdita di controllo centrale delle circa 30,000 testate nucleari sovietiche in caso di distacco delle repubbliche o di stravolgimenti al vertice politico del paese. In realtà questo pericolo è stato esagerato nella stampa italiana, mentre dopo un primo momento di smarrimento nei giorni del golpe è stato general­mente ridimensionato in quella internazionale.

Una notizia che forse più di ogni altra ha preoccupato gli Occidentali nelle prime ore del Golpe è stata che i golpisti avevano sottratto a Gorbaciov la valigetta con i codici per l'armamento delle testate nucleari sovietiche. Queste preoccupazioni sono state generalmente esagerate, ed infatti i comandi militari americani, i più interessati e dettagliatamente informati, hanno sempre negato che esistesse motivo di preoccupazione. I paragrafi che seguono vogliono fornire un sintetico inquadramento cronologico su come i sovietici hanno curato la custodia delle armi nucleari.

Il controllo delle testate nucleari sovietiche è stato nelle mani del KGB sin da quando l'URSS iniziò gli studi di fattibilità sulle armi nucleari nel 1943. Il controllo del KGB rimase assoluto fino al 1953. Alcune fonti dicono che sia stato Stalin in persona a volere ciò in quanto non si sarebbe fidato di altri. Nel 54 la produzione delle testate venne devolta al Ministero delle Macchine Utensili, ma il KGB continuava a custodire i prodotti finiti ed a curare il loro trasporto.

L'esclusività della custodia venne solo parzialmente diluita verso la metà degli anni settanta, quando i primi missili intercon­tinentali a combustibile solido furono messi in stato di allerta (e quindi dovettero essere caricati delle testate) 24 ore su 24. Gli ufficiali della Forza Missilistica Strategica (la più prestigiosa delle forze armate sovietiche) operavano i centri di controllo del lancio assieme agli ufficiali del KGB, che mantenevano ciascuno il proprio canale di comunicazione riservato con Mosca. Di norma, 2 ufficiali KGB e 2 della Forza Missilistica controllano ciascun centro di lancio. Fino agli anni settanta nessuna testata nucleare era spiegata fuori dal territorio dell'URSS, poi ne sono state spiegate in Europa orientale, anche se non si sa esattamente da quando.

Già nel 1962 gli USA offrirono ai sovietici i meccanismi di controllo elettronici che erano in via di installazione nelle testate nucleari americane in Europa (i cosiddetti PAL: Permissive Action Links), ma i sovietici rifiutarono. Nel 1965 la Commissione presi­denziale sulla proliferazione (Commissione Gilpatric), suggerì al presidente Johnson che sarebbe stato nell'interesse degli americani insistere che i sovietici adottassero i PAL, ma senza esito. Ancora nel 1971, durante i negoziati sull'Accordo per le Misure per Preveni­re gli Incidenti (Accident Measures Agreement) gli americani of­frirono e i sovietici rifiutarono. In conclusione, gli USA non fornirono mai aiuti tecnologici per i sistemi di controllo nucleare sovietici.

Questo non vuol dire che i sovietici non fossero preoccupati dal pericolo di uso accidentale (non autorizzato o involontario). L'ambasciatore all'ONU Sobolev, già nel 1958 aveva espresso preoc­cupazione che i piloti dei bombardieri nucleari delle due super­potenze (che allora operavano di routine una forza in stato di allerta in volo) potessero fraintendere manovre della parte avversa come preparazioni ad un attacco. Il telefono rosso, installato dopo la crisi di Cuba, avrebbe costituito un primo passo per evitare malintesi a questo riguardo.

I sovietici comunque provvedettero ad installare lucchetti elettronici nelle loro testate. Nel 1984 un articolo del comandante delle Forze Missilistiche V.F. Tolubko e nel 1986 un articolo nelle Izvestiya, indicavano l'esistenza di meccanismi che "assicurano la sicurezza delle operazioni" e "escludono completamente la pos­sibilità di operazioni non autorizzate" tramite "equipaggiamento elettronico e computerizzato" e sistemi di "controllo a distanza automatico" negli ICBM. Lucchetti anche in tutte le armi tattiche assegnate all'esercito, ed anche qui il KGB esercitava controllo fisico e custodia.

I sovietici criticano invece la mancanza di tali strumenti negli SLBM e nelle armi nucleari tattiche navali americane. Il generale Chervov, Capo del Dipartimento Affari Esteri del Ministero della Difesa sovietico, nel 1989 dichiarava a chi scrive che i sottomarini e le navi da guerra sovietici invece i lucchetti li hanno, e che quindi dovrebbero ricevere via radio i codici di lancio (per i sottomarini, questo potrebbe voler significare la necessità di emergere). Anche in marina è stato finora importante il ruolo degli ufficiali politici di bordo nella procedu­ra di lancio, che richiede sempre l'intervento di più individui. L'ufficia­le politico era il respon­sabile con le autorità locali del sot­tomarino che si arenò sulle spiagge svedesi nel 1981.

Il controllo centralizzato del KGB è dunque sempre stato assoluto e centralizzato per tutte le testate. Nessuna possibilità quindi per eventuali truppe ribelli o appartenenti a repub­bliche secessioniste di impadronirsi dei codici. In ogni caso, la armi nucleari tattiche erano già state ritirate da oltre due anni dalle repubbliche caucasiche e baltiche (a seguito dei disordini etnici nel primo caso e della paventata secessione nel secondo).

Diverso il problema di una eventuale usurpazione di potere da parte di autorità golpiste, centralizzate sì, ma non legittime. Bisogna tenere presente che non basta solo sottrarre la valigetta al presidente per ordinare un eventuale lancio di missili. Anche il Capo dello Stato Maggiore Generale dovrebbe essere coinvolto, e così pure tutti i livelli della catena di comando subordinati, fino agli ufficiali di ogni singolo centro di controllo; non ultimi, gli ufficiali addetti alla comunicazione dei codici stessi. Inoltre, tutte le esercitazioni sono basate su procedure che comportano una "generazione" della forza in base a informazioni di avvistamento lontano (early warning), e sarebbe quindi difficile per una qualsiasi autorità, anche legittima, ordinare un'allerta e un lancio nucleare come "un fulmine a ciel sereno": i subordinati probabilmente non eseguirebbero. Tali procedure esistono del resto anche negli USA, e sono state create per prevenire un lancio di missili da parte di un presidente che, pur legittimamente eletto, potrebbe improvvisamente impazzire. Nel caso del golpe sovietico, è apparso subito che le forze armate non erano compatte dietro ai golpisti, e quindi sarebbe stato estremamente improbabile che un eventuale ordine di lancio sarebbe stato eseguito.

Inoltre, per quale motivo avrebbe dovuto l'Occidente preoc­cuparsi in modo speciale di un controllo nucleare da parte di un regime sovietico golpista? Forse che in quanto illegittimo avrebbe più ragioni di usarle o di minacciarne l'uso? E' evidente che in una situazione di stravolgimenti istituzionali che coinvolgono i militari di una potenza nucleare è necessario porre massima atten­zione ad eventuali cambiamenti nel comportamento usuale (stato di allerta, movimenti di testate, approntamento di lanci di prova, comunicazioni, ecc.). Così gli americani (e forse altri) hanno fatto, e non ci sono stati comportamenti anomali che abbiano suscitato motivi di preoccupazione.

Prospettive in URSS

Tratterò qui delle prospettive nel breve e medio termine dell'URSS alla luce degli eventi delle scorse settimane. Per prima affronterò la questione dei nuovi rapporti tra le repubbliche, quindi quella della nuova struttura istituzionale che si sta creando nel paese ed infine il problema delle riforme economiche. L'ordine non è casuale, ma dettato dal rapporto di dipendenza causale che lega le riforme alle istituzioni e queste, a loro volta, ai rapporti di forza tra le repubbliche.

Grande Russia

Nei rapporti di forza e di grandezza tra le repubbliche, qualunque sia l'unità di misura adottata, il predominio della Russia è schiacciante. Si nota anche la forte presenza etnica dei grandi russi anche nelle altre repub­bliche, dove vivono 25 milioni di russi, e segnatamente in Ucraina e Kazakhstan, le due più impor­tanti repubbliche dopo la Russia stessa. Si deve peraltro ricordare come questa superiorità numerica sia in rapidissima diminuzione, visto che i Russi (così come del resto tutte le altre etnie slave, soffrono di una crescita demogra­fica fortemente negativa. Basti ricordare a questo proposito come secondo alcune autorevoli stime, dati i tassi di fertilità indicati nel grafico, entro l'anno 2000 il 30% dei coscritti delle forze armate sovietiche proverranno dall'Asia centrale. Ulteriori studi compiuti dopo le stime ufficiali del 1986 portano quella percentuale fino al 45%-50%.

Sembra dunque che, a meno di una separazione politica dell'A­sia centrale, si vada verso un'URSS più realmente multirazziale e quindi meno russificata, non molto diversa dagli USA dopo le immigrazioni soprattutto dall'America latina (ma anche dall'Asia) che si sono assommate a quelle precedenti dall'Europa e dall'Africa. Gli USA stanno diventando rapidamente uno stato bilingue; la diversità tra le lingue asiatiche sovietiche impedirà la formazione di un equivalente sovietico dello spagnolo in America, ma la derussificazione è già cominciata da qualche anno e subirà un'accelerazione.

Anche le risorse produttive e naturali sono principalmente concentrate in Russia (anche se la rete di trasporto delle medesime attraversa anche Ucraina e Bielorussia). Dal punto di vista del reddito, la Russia è di gran lunga non solo la repubblica più ricca, ma anche la finanziatrice dei consumi di tutte le altre repubbliche (fatta eccezione per la Bielorussia, il cui contributo netto di risorse al resto dell'Unione è però quantitativamente di importanza marginale, e le ex-repubbliche baltiche).

Questa centralità russa si è riflessa anche nell'interesse degli investitori stranieri verso la Russia. Da non sottovalutare a questo proposito la perdita dei baltici, nei quali la quantità di società miste fondate era molto più significativa del loro peso relativo nell'economia dell'URSS.

Rapporti tra le repubbliche

Partendo da questa centralità russa, quali rapporti si potranno instaurare con le altre repubbliche? Una possibilità cui molti hanno dato credito è una struttura multi-bilaterale a ragnatela, che in pratica sarebbe stellare con la Russia al centro, e con i contatti orizzontali tra altre repubbliche ridotti a livello marginale.
Questa sarebbe però estremamente inefficiente e farraginosa per la gestione delle risorse comuni e indivisibili (rete fer­roviaria e gasdotti, oleodotti, centrali nucleari...). Per la divisione dei beni reali, come le riserve auree, i crediti (e i debiti) con l'estero, le flotte aerea e rotabile, le forze armate, ecc. eventuali calcoli di compensazione sarebbero difficilissimi. Inoltre, eventuali divisioni sarebbero fattibili solo al prezzo di enormi inefficienze, sia per la perdita di economie di scala, sia per la necessità che insorgerebbe di duplicare le infrastrutture ed i quadri oggi in comune. Sarebbe problematica anche la "divisione" dei rapporti economici con l'estero.

Il problema si pone innanzitutto con i paesi baltici. Questi rivendicano il diritto ad essere compensati per quanto danno il sistema sovietico ha loro procurato e per quanto hanno esportato verso il resto dell'unione dei loro prodotti di qualità relativa­mente più alta. Mosca controbatte che i baltici hanno usufruito di materie prime a prezzi politici. Ci sarà probabilmente un accordo per cancellare le rispettive rivendicazioni, così come è stato tra l'URSS e gli ex-satelliti del Patto di Varsavia.

In alternativa all'ipotesi multibilaterale, prevarrà probabil­mente la più realistica ipotesi confederativa, verso la quale i più recenti avvenimenti, soprattutto in materia di politica di sicurez­za, sembrano puntare. Di fatto comunque rimarrà un ruolo preponderante per la Russia.

Nell'immediato futuro, inevitabilmente fluido, molto dipende dall'atteggiamento di Eltsin: sin dai primi momenti del dopo-golpe, la sua scelta è stata tra il rimanere come capo del più forte stato di una confederazione, che potrebbe forse dominare in virtù di accordi bilaterali che non potrebbero mai essere paritari. In alternativa, egli potrebbe aspirare, forte della nuova statura pansovietica ed internazionale conquistata durante il golpe, a diventare il nuovo Capo dell'URSS. Alcuni suoi atti fanno sembrare che preferisca rimanere capo della Russia (vuole una guardia nazionale, ha "nazionalizzato" alla repubblica russa le fabbriche nel territorio, la Pravda, ha "acce­ttato" le armi nucleari dislocate sul territorio dell'Ucraina, ecc. tutti atti dettati dall'emotività del momento e di dubbia legittimità.

Più probabile che prevalga il realismo e quindi l'ipotesi con­federativa, d'accordo con Gorbaciov. Lo Eltsin statista, al contrario dello Eltsin rivoluzionario, non è ancora formato, non può reggere il peso dell'unione da solo, e probabilmente neanche il peso internazionale del post-URSS. Ha quindi bisogno di Gorbaciov.

Ma anche Gorbaciov ha bisogno del carisma e del sostegno popolare di Eltsin, che lui non ha più in quantità sufficiente. Eltsin potrebbe inoltre servirgli anche da capro espiatorio quando si tratterà, fra molto poco, di mettere da parte le bandiere ed i cartelloni e rimboccarsi le maniche. Ci si deve chiedere infatti, se potrà l'entusiasmo della rivoluzione di agosto reggere sufficiente­mente a lungo per far sopportare non tanto lo smembramento del paese, quanto le dislocazioni sociali ed i sacrifici che, ancora una volta, i popoli sovietici sono inevitabilmente chiamati a soppor­tare?

Futuro ruolo delle istituzioni

Al fallimento del golpe è corrisposta una svalutazione immediata degli organi di stato creati da Gorbaciov negli ultimi anni, senza libere elezioni ed ancora dominati dal PCUS. Primo fra tutti il Congresso dei Deputati del Popolo, che pure aveva significato un notevole passo avanti in termini di rappresentatività popolare politica, ma che aveva rivelato i suoi limiti: in primo luogo perché non era stato capace di legiferare le riforme, e poi perché non ha né evitato e neanche condannato il golpe. Anzi, il presidente Lukyanov lo aveva quantomeno favoreggiato. Alla diminutio politica Gorbaciov corrispondeva anche il declino degli organi da lui preposti a coadiuvarlo alla presidenza (Consiglio di Sicurezza e Consiglio della Federazione).

Tre nuovi organi provvisori sono stati creati, che dovrebbero governare fino all'elezione diretta della prossima legislatura, che questa volta sarà su liste multiple e senza quote prefissate per nessuno. Il Consiglio di Stato, presieduto dal Presidente dell'URSS e comprendente i 10 presidenti delle repubbliche che hanno accettato di farvi parte (tranne i Baltici, Moldavia e Georgia), che dovrà governare gli affari inter-repubblicani. Il Comitato Economico Inter-repubblicano, costituito da rappresentanti delle repubbliche per la gestione delle riforme economiche. Il nuovo Soviet Supremo, bicamerale, formato da un consiglio delle repubbliche (20 rappresentanti per repubblica) e da un Consiglio dell'Unione (membri eletti da distretti di pari popolazione su tutto il territorio dell'Unione) che fungerà da legislatore.

I prossimi mesi diranno se queste istituzioni si consolideranno o se seguiranno il destino delle molte altre inaugurate negli ultimi due-tre anni ma poi arenate e disciolte sulle secche dell'inerzia burocratica prima di poter sortire effetto alcuno (e prima delle elezioni libere).

Il partito è stato stroncato, ma è probabile una qualche forma di partito socialista si riformerà presto, soprattutto tra i "perdenti" della ristrutturazione che potranno presto contare sull'appoggio di almeno una parte di quanti soffriranno delle dislocazioni inevitabili con le riforme.

Diminuito anche il ruolo politico delle Forze Armate, che si appoggiavano al partito, con cui erano tutt'uno. Il complesso militare-industriale (forze armate e industrie della difesa) rimane comunque un importante centro di potere, anche perché dovrà co-gestire la riconversione industriale. Il prestigio popolare coltivato per decenni sulla gloria della Grande Guerra Patriottica non si è eroso con la mezza complicità nel golpe; anzi ci si rende conto che è stato proprio grazie ai militari che non si sono associati al golpe che questo è fallito. Inoltre per l'URSS (o Russia o cos'altro) rimangono potenziali minacce militari concrete. Oltre alla potenza dei paesi NATO, rimane la Cina (cui si potrebbe risvegliare l'appetito riguardo alla Mongolia), potenzialmente l'Iran (specialmente se vanno in ebollizione i popoli centro-asiatici) ed in prospettiva il Giappone. Con l'inevitabile fine dell'accesso privilegiato alle risorse, è probabile una gestione più pragmatica e meno settaria delle forze armate. Dovrebbe essere imminente la nomina di un civile a ministro della difesa.

Anche nel caso del KGB la simbiosi con il partito era la sorgente del potere. A differenza del partito, tuttavia, è però ovvio che un servizio segreto dovrà pur riformarsi in tempi rapidi, anche se sarà diviso e quindi più debole. Già decisa la divisione tra responsabilità interne ed internazionali (all'occidentale), il KGB è stato anche già privato delle forze armate autonome (che erano ufficialmente truppe di frontiera ma potevano essere usate anche per scopi diversi). Gli sarà anche tolto il controllo delle testate nucleari, che passerà, anche qui secondo quanto avviene nelle potenze nucleari occidentali, alle Forza Armate interessate e sottoposte al comando dell'autorità civile.

Implicazioni per l'Occidente

Aiuti occidentali all'URSS

È necessario distinguere tra aiuti d'emergenza, per superare la possibile carestia di quest'inverno, e aiuti strategici, per aiutare il paese a porre le basi per una crescita duratura. Quanto ai primi si parla essenzialmente di aiuti alimentari (difficile pensare di dover aiutare il maggior produttore mondiale di energia a superare un inverno freddo, e neanche si può pensare, nell'immediato, di aiutarli a portare i gasolio dalle raffinerie alle case!). Questi saranno utili forse come palliativo nel breve termine, ma certamente non decisivi. Oltre un certo limite, che non è facile definire, potrebbero addirittura essere controproducenti, per esempio se porteranno ad una diminuzione del reddito del settore agricolo, che dovrà essere il motore principale della ripresa sovietica. Accanto ai sacchi di grano, sarebbe forse più utile inviare strutture di trasportatori e tecnici specialisti agroalimentari per aiutare i sovietici a raccogliere, trasportate, conservare e non far deperire i raccolti. E' cosa nota che di norma in URSS si spreca fino al 30% circa dei raccolti, più di quanto non se ne importi dall'estero. Per esempio, la produzione di grano dovrebbe essere quest'anno intorno alle 250 milioni di tonnellate, ma si stima che meno di 200 milioni saranno effettivamente utiliz­zabili; le stime delle importazioni sono nell'ordine delle 40 milioni di tonnellate, ma destinate ad aumentare a causa dell'accaparramento generalizzato che si sta verificando in tutto il paese.

L'idea di Delors, appoggiata dalla Francia, di finanziare acquisti sovietici di grano dall'Europa orientale potrebbe essere buona, ma chiarendo che si tratterebbe di una una tantum eccezionale per quest'anno, altrimenti si rischierebbe di dover istituzionalizzare i sussidi all'agricoltura dell'ex-Comecon, anche qui con pericolo di inibirne la ristrut­turazione.

Per quanto concerne gli aiuti "strategici" le cose stanno diversamente. In molti in occidente, e tra questi il nostro ministro degli esteri De Michelis, dicono che il golpe prova due cose: in primo luogo, che gli occidentali sono stati troppo cauti negli aiuti in passato, e che per questo motivo l'URSS è andata vicino alla catastrofe. I paesi in­dustrializzati dell'Occidente dovrebbero ora avere imparato la lezione ed essere più pronti a spendere e a rischiare. Questa asserzione si basa sul postulato, difficile da dimostrare, che maggiori aiuti, per esempio dal G7 di Londra, avrebbero impedito il golpe, che era stato invece preparato da molto tempo e per motivi ben più fondamentali che non la mancanza di aiuti occidentali.

Secondo, De Michelis sostiene che la perestrojka sia ormai irreversibile e che quindi bisogna iniettare risorse nell'economia sovietica e rischiare insieme a loro (fare cioè una "joint-venture come avventura comune" ha detto traducendo liberamente dall'inglese il ministro), altrimenti sarebbe troppo facile arrivare dopo, quando le riforme sono già consolidate, solo a raccogliere i frutti. Questa posizione si fonda sull'assunto che gli occidentali debbano in qualche modo "meritarsi" oggi l'accesso all'Eldorado che l'URSS rap­presenterà quando le riforme avranno sortito il loro effetto. Ma sarà proprio allora che i sovietici avranno maggiore bisogno delle risorse occidentali, che potranno mettere a buon frutto, non prima. Questo momento potrebbe essere, col crollo dei cardini del sistema pianificato, molto più vicino di quanto non potesse sembrare due mesi fa. Si può anzi sostenere che fino ad ora quegli aiuti che sono arrivati hanno contribuito a mantenere artificialmente in vita il vecchio sistema malato e quindi a ritardare le riforme.

In ogni caso, più che di risorse l'URSS ha bisogno di conos­cenze tecnologiche e soprattutto organizzative e manageriali, delle quali manca completamente. Anche i pochi settori dove la tecnologia sovietica è all'avanguardia (per esempio nello sfruttamento dello spazio, che gli occidentali potrebbero usare a fini commerciali nel breve termine) non sono stati sfruttati economicamente come potreb­bero per mancanza di imprenditorialità.

L'URSS (a differenza degli altri paesi ex-comunisti o di quelli in via di sviluppo del terzo mondo) dispone di ricchezze nazionali in abbondanza. Molti economisti sovietici lo ripetono da anni. Queste ricchezze sono immediatamente disponibili alla dirigen­za del Cremlino (russa o sovietica che sia) e a quelle delle repubbliche in varie forme. Prima di tutto come risorse naturali petrolio, gas, la cui produzione è in calo ma sempre elevata e che potrà aumentare rapidamente appena si creeranno le condizioni legislative per favorire il coinvolgimento delle industrie occidentali nell'esplorazione e nell'estrazione. Il risparmio energetico, tramite una più realistica politica dei prezzi, potrebbe inoltre far diminuire l'intensità energetica della macchina sovietica, rendendo maggiori quantità di idrocarburi disponibili per l'esportazione.

In retrospettiva, gli sviluppi nell'industria dell'energia rivelano come sia stata giusta la scelta europea, contro le obiezioni americane, di favorire l'allargamento della rete internazionale di idrocarburi provenienti dall'URSS come strumento per spingere il paese verso l'interdipendenza economica. Oggi l'URSS non può, qualunque sia il suo regime, fare a meno di vendere idrocarburi all'Occidente, e l'ipotesi americana di un ricatto politico con la minaccia di chiudere i rubinetti fa solo sorridere. In generale, gli europei rimangono i più forti investitori anche se ora, con la probabile definizione della disputa sulle Curili, verranno fuori i giapponesi.

In secondo luogo, l'URSS dispone di ricchezze sotto forma di beni di proprietà dello stato che sono sottoutilizzati da decenni (prima di tutti la terra nel settore produttivo e le case in quello privato) che potrebbero essere venduti ai privati, sia stranieri che locali (in quest'ultimo caso si otterrebbe anche il risultato di ridurre l'attuale eccesso di liquidità e quindi la pressione inflazionistica nel paese). Non è possibile stimare con esattezza gli introiti che deriverebbero da una massiccia vendita di tali beni, ma sarebbero sicuramente enormi.

Infine l'URSS potrà attingere risorse dalla riconversione dell'industria bellica, anche se non nel breve termine. La conver­sione è nella maggior parte dei casi costosa e quindi economicamente inefficiente, può essere infatti più costosa della costruzione di impianti civili da zero. Inoltre è costosa anche in termini sociali (dislocazione del corpo ufficiali e immissione sul mercato del lavoro dei coscritti, necessità di costruire abitazioni, ecc.). Con il ritiro dall'Europa orientale, le riduzioni negoziate nel CFE e quelle unilaterali, la probabile riduzione della ferma di leva, si possono stimare almeno 300.000 ufficiali (con annessi 600.000 familiari) e forse 1 milione di soldati.

Anche privatizzare l'industria "militare" (cioè sotto il controllo dei ministeri militari) che rimarrà (oggi occupa il 35% della manodopera) potrebbe portare a maggiori efficienze, anche se bisogna considerare che già oggi il 40% della produzione controllata dai ministeri dell'industria bellica è destinata al mercato civile (secondo i piani questa percentuale dovrebbe salire al 60% entro il 1995): dunque il cambiamento sarà importante ma non decisivo.

Dare troppo peso alla potenzialità della riconversione equivale a dare credito alla politica reaganiana di mettere l'URSS alle corde. Invece l'URSS ha cominciato a cambiare dopo che Reagan, a partire dal 1985, aveva assunto un atteggiamento più conciliante. Nel 1985 anche Gorbaciov al potere, ma è difficile dimostrare che avrebbe potuto far passare la sua politica estera distensiva se Reagan avesse continuato a parlare dell'URSS come "l'impero del male".

Riassumendo, a parte gli aiuti d'emergenza alimentari, gli aiuti occidentali devono essere di carattere più strategico e devono consistere più nel trasferimento di conoscenze tecnologiche e manageriali che non di risorse economiche e finanziarie. Un ulteriore allentamento dei controlli COCOM sembra indispensabile, anche se non sarebbe utile esagerare con l'ebbrezza da tecnologia che spesso ha colto paesi di rapida industrializzazione che hanno sperperato risorse per comprare tecnologie che poi non sapevano assorbire, duplicare o disseminare internamente. Comunque, sarebbe sbagliato aumentare gli aiuti senza insistere nelle riforme, unica garanzia del risanamento dell'economia e quindi di stabilità futura. La volontà politica di farle c'è, ma non sarà facile, e bisognerà vedere se il prestigio politico di Eltsin e l'entusiasmo generato dalla nuova garanzia di libertà saranno sufficientemente duraturi da far sopportare i duri e protratti sacrifici.

In conclusione, l'Occidente negli ultimi anni ha pensato che fosse più importante un'URSS accomodante sul piano internazionale con la quale fare accordi di disarmo e risolvere conflitti nel terzo mondo che un'URSS economicamente riformata e decisamente avviata sulla strada della democrazia al proprio interno.

Da qui la conces­sione di crediti governativi in misura sempre crescente (vedi Figura 9) anche se Gorbaciov, ai grandi accordi internazionali, non poneva le premesse per una riforma efficace. Questi soldi sono stati quindi sprecati, e hanno anzi probabilmente contribuito a prolungare l'agonia del sistema stalinista. Lo stesso non hanno fatto i privati, che a partire dal 1990 hanno ridotto drasticamente gli investimenti.

Invece, da quando è apparso chiaramente che a)la ristrut­turazione economica aveva fallito lo scopo di far funzionare il sistema socialista (1989-1990) e b) c'era un'alternativa al comunis­mo (già forse dal 1989 con Eltsin eletto al Congresso col 90% dei voti, ma certamente dal 1990 quando è stato eletto alla presidenza del Soviet supremo russo contro il parere ed il candidato del partito comunista, e platealmente dall'aprile 1991 quando è stato eletto liberamente e direttamente dal popolo a presidente della Russia), alcuni hanno sostenuto che Gorbaciov avesse compiuto il ciclo della sua opera storica e che l'Occidente democratico avrebbe dovuto sostenere i democratici in URSS.

Infatti, un'URSS conciliante sul piano internazionale ma destabilizzata all'interno può essere più pericolosa per la sicurezza internazionale di un'URSS più forte internazionalmente ma stabile internamente. Questo perché nel primo caso più facilmente potrebbe coinvolgere l'Occidente, e soprattutto l'Europa, in un conflitto che magari potrebbe cominciare come guerra civile o inter-etnica.

Sicurezza europea

Nel campo del controllo degli armamenti, ora è il momento di insistere nel processo cominciato degli anni passati, anche se l'argomento sembra marginale. Bisogna creare una gabbia dalla quale l'URSS, la Russia e quali altri successori potessero crearsi (ma anche gli altri paesi ex-satelliti) non saranno più in grado di uscire. In primo luogo, è necessario far pressione affinché tutti gli stati neo-indipendenti aderiscano al Trattato di Nonproliferazione Nucleare. Questa gabbia avrebbe anche l'effetto, collaterale ma non secondario, di contenere anche eventuali future tentazioni nazionalistiche da parte delle superpotenze emergenti dell'Occidente, ed in primo luogo la Germania ed il Giappone.

Allo stesso tempo, occorre evitare facili entusiasmi sulla scomparsa della minaccia. Non si tratta di avere o meno fiducia nelle inten­zioni pacifiche dell'attuale dirigenza sovietica (o russa), ma di cautelarsi verso possibili cambiamenti di dirigenze future che avranno comunque a loro disposizione opportunità e capacità militari enormi. Inoltre, in caso di successo delle riforme, in 15-20 anni l'URSS (o la Russia) potrebbe essere anche una nuova superpotenza economica, quindi con accresciute capacità di influenzare la politica internazionale. Quindi è necessario continuare con il rafforzamento delle strutture politiche di sicurezza europea (CSCE, integrazione della difesa europea occidentale) in parallelo al procedere degli accordi di disarmo.

Garanzie di sicurezza all'Est europeo

La questione non è accademica, potrebbero ripresentarsi pericoli da contrasti locali, per questioni di confine o di minoranze. Non abbiamo dato garanzie agli europei dell'Est per 45 anni perché sapevamo sarebbe stato un bluff; sono stati irresponsabili quelli che lo hanno detto o fatto capire (come gli USA nel 56 al tempo di Nagy in Ungheria). Non sarebbe diverso molto oggi, non possiamo fare la guerra con l'URSS se, per ipotesi probabilmente assurda, dovesse invadere nuovamente gli ex-satelliti. Sarebbe un "bluff" pericoloso e controproducente, e potrebbe instigare a destabilizzanti rivendicazioni nazionali, territoriali e non.
Inoltre, in un'ipotesi di garanzia estesa, per esempio da parte della NATO, bisognerebbe proteggere tutti contro tutti, e non solo tutti contro i sovietici. Il compito si complicherebbe: cosa fare in caso di scontri tra Ungheria e Romania? Tra Ucraina e Romania? Tra Ucraina e Cecoslovacchia? Tra Polonia e Lituania? La lista potrebbe continuare.

A questo proposito sarebbe meglio essere chiari subito, magari discretamente e privatamente, perché molti stati dell'Europa dell'Est (che si vogliono in qualche modo eufemisticamente promuovere di classe chiamando la regione "Europa centro-orientale", compresi i Baltici) probabil­mente prima o poi lo chiederanno.
Bisogna invece insistere nella CSCE, che include l'URSS stessa e includerebbe i suoi successori (o almeno quelli europei): prima dell'Europa orientale, sono infatti proprio i popoli ex-sovietici che bisogna pensare di difendere da un ancora possibile ritorno di fiamma repressivo.

05 June 1991

La situazione in Cecoslovacchia

Lo sfondo storico e culturale

La principale divisione storica, culturale e politica nel paese è tra i Cechi (termine anch'esso collettivo, dato che le terre ceche comprendono Boemia, Moravia e Slesia) e gli Slovacchi. Le terre ceche sono state storicamente più in contatto con l'Occidente, ed in particolare con Germania ed Austria. La Slovacchia, più piccola, costituisce circa un terzo del paese per popolazione. É la parte più povera, isolata, più compattamente cattolica e storicamente repressa da quasi mille anni di occupazione ungherese.

Entrambi i popoli che sostituiscono il paese hanno avuto una storia intrecciata tanto fra loro quanto con i popoli adiacenti. L'unione politica è cosa relativamente recente, e lo stato cecoslovacco come tale si è formato solo nel 1918. Recentemente, i due popoli sono stati però separati solo brevemente durante il dominio nazista, quando la Slovacchia era uno stato fantoccio mentre le terre ceche erano state completamente assorbite nel Reich.

Durante il periodo tra le due guerre la Cecoslovacchia conosceva una prima esperienze di indipendenza nazionale democratica, e si inseriva nel contesto dell'Europa occidentale industrializzata sia economicamente, sia culturalmente, sia diplomaticamente. Trattati di mutua assistenza con Jugoslavia e Romania (contro il revanscismo ungherese) e con Francia ed URSS (contro il pericolo della Germania) non servivano però a garantire la sopravvivenza alla giovane democrazia all'insorgere dell'ondata nazista in Europa.

Il paese nel "blocco sovietico"

La Cecoslovacchia si ritrovava alla fine della Seconda Guerra Mondiale in una situazione relativamente meno tragica di altri paesi vicini. Le distruzioni belliche erano state forse qualcosa meno che cataclismatiche, il paese non veniva trattato come un vinto o alleato dei nazisti, e le truppe sovietiche erano partite prima della fine del 1945.Il colpo di stato messo in atto dai comunisti, e facilitato dai sovietici, nel 1948 stroncava quella che più che altri paesi sembrava poter diventare una democrazia, se pur "finlandizzata", nell'Europa orientale occupata dall'Armata Rossa. Ogni forma di coalizione interna, e di legami esterni con l'Occidente, era cosí preclusa. Stalin imponeva ai cecoslovacchi persino di rifiutare gli aiuti del Piano Marshall, per timore (dal suo punto di vista giustificato) che questi avrebbero reso la Cecoslovacchia suscettibile all'influenza politica americana. 

Dopo i fatti del 1948 Praga rimaneva più o meno allineata su posizioni ortodossamente pro-sovietiche fino alla seconda metà degli anni sessanta. In quel periodo, sulla scia delle timide riforme economiche attuate da Kosyghin in Unione Sovietica, la dirigenza del partito ne avviava di proprie, più ampie e coraggiose, che si sarebbero poi sviluppate non solo sul piano strettamente economico ma anche, e soprattutto, su quello politico. 

Forte dell'esperienza dell'Ungheria del 1956, onde evitare "errori" di Imre Nagy, il nuovo segretario generale chiamato a gestire una difficile transizione nel 1968, Alexander Dubcek, evitava di abbandonare ufficialmente la struttura socialista da parte del partito e soprattutto non metteva neanche in discussione l'appartenenza del paese al Patto di Varsavia. Aboliva però la censura, e liberalizzava la vita sociale e culturale del paese, dando così l'impressione di avviare una radicale trasformazione del regime verso forme più articolatamente pluralistiche, se non proprio democratiche.

Questo veniva percepito anche all'esterno del paese, e soprattutto a Mosca e negli altri paesi socialisti più ortodossi (ad esempio in Germania Orientale) che vedevano nell'esperimento cecoslovacco un pericolo per i propri equilibri interni. L'unico paese del blocco che sosteneva il diritto di Praga a determinare le proprie scelte interne autonomamente era la Romania; anche se Ceausescu portava avanti un programma politico ed economico diametralmente opposto a quello di Dubcek, il mantenimento del principio della non-interferenza negli affari interni degli altri paesi socialisti (a dispetto del principio dell'internazionalismo proletario, o socialista, come veniva di volta in volta chiamato) era essenziale per la sopravvivenza della Romania nazionalista e capricciosa che adescava il corteggiamento dell'Occidente con una politica estera bizzarra ed imprevedibile, ma comunque spesso anti-sovietica.

Non è questa la sede per una trattazione dettagliata dei ben noti fatti del 1968. In breve, si nota che dopo una serie di pseudo-consultazioni tra Dubcek e Brezhnev, volte soprattutto a capire se fosse stato possibile far recedere i Cecoslovacchi dall'orlo del precipizio democratico sul quale erano finiti, Mosca dava alle proprie truppe ordine, a sorpresa, di invadere il paese. A differenza del 1956 in Ungheria, fu qui richiesto il contributo, se pur poco più che formale, degli  eserciti degli altri paesi del Patto (la sola Romania come suddetto, rifiutava) per poter così pateticamente presentare l'operazione come un'opera di soccorso collettiva dei paesi socialisti ad un fratello in difficoltà.

L'invasione della Cecoslovacchia, ed il successivo stazionamento "temporaneo" delle truppe sovietiche sul territorio, costituí l'occasione per Brezhnev di formulare in termini espliciti la cosiddetta "dottrina della sovranità limitata" che porta il suo nome, in base alla quale gli interessi del socialismo internazionale sono da anteporsi al diritto di ciascuno stato sovrano alla non-interferenza nei propri affari interni. La dottrina esisteva peraltro da almeno vent'anni prima, cioè da quando Stalin nell'occupare l'Europa orientale liberata dal nazismo aveva abbandonato la teoria del "socialismo in un solo paese", e si sarebbero dovuti aspettare altri vent'anni prima che i successori di Brezhnev l'avrebbero definitivamente ripudiata.

Dopo il 1968 la vita politica cecoslovacca è stata contrassegnata per due decenni da un costante grigiore, apaticamente allineata sulle posizioni di Mosca in politica estera e ostinatamente ancorata a principi che i fatti dimostravano sempre più chiaramente sbagliati in politica interna ed economica. Nel frattempo, la leadership di Husak, sotto la personale direzione di quello che sarebbe poi stato il suo successore Milos Jakes, procedeva alla prevedibile epurazione degli apparati di stato e di partito.

Le prime reazioni cecoslovacche alle sollecitazioni di riforma che dopo il 1985 provenivano dalla nuova URSS di Gorbaciov erano formalmente accondiscendenti ma praticamente tra le più inefficaci dei paesi satelliti. D'altra parte, le similitudini tra il programma di riforma economica perorato da Gorbaciov e quelle che avevano portato alla tragedia del 1968 erano troppo evidenti per essere negate. Anche se c'erano magari più differenze che similitudini tra gli scopi che si prefigge Gorbaciov e quelli che avevano animato Dubcek due decadi prima.

Durante la sua visita a Praga nella primavera del 1987, Gorbaciov rese omaggio formale ai successi della leadership di Husak, ma contemporaneamente egli ripetutamente sottolineava come la Cecoslovacchia avesse bisogno di intraprendere una sua strada di riforma economica. Alla vigilia del viaggio c'erano state speculazioni su un suo possibile incontro con Dubcek, che non ebbe poi luogo; ma quando alla fine del viaggio fu chiesto ad un portavoce sovietico cosa pensasse fossero le differenze tra le riforme di Dubcek e quelle di Gorbaciov, la risposta era emblematica: "diciannove anni", riconoscendo così che i tempi piuttosto che i modi erano stati l'errore di Dubcek ed ammettendo implicitamente che egli aveva anticipato i contenuti della perestrojka.1

Nel dicembre 1987 Husak lasciava definitivamente il potere assumendo la carica cerimoniale di capo dello stato. Milos Jakes, certo non un riformatore, diveniva segretario generale. Lo seguiva una generazione di apparatchiki più giovani nelle sfere più alte dello stato e del governo. Questi, senza essere stati formati nel periodo stalinista, vacillano. Tentano di mantenere l'ortodossia senza la convinzione dei cinesi e senza osare contrapporsi alla nuova linea sovietica. Questo porta ad un paradosso: l'ortodossia ideologica alla guida del centro del comunismo internazionale richiede abbandono dell'ortodossia stessa, e per essere ortodossi i partiti satelliti devono abbandonare l'ortodossia. Il partito cecoslovacco, e non è il solo, entra in crisi. La dirigenza del paese, dopo l'uscita di scena di Husak, era divisa. Alcuni dei nuovi dirigenti diventavano favorevoli alle riforme ma cauti, come il Primo Ministro Strougal; altri esponenti di spicco del partito, come Vasil Bilàk, erano invece apertamente contrari.

A parole Praga appoggiava le riforme, ma i semplici fatti provavano continuamente il contrario: per esempio, quando diverse migliaia di persone scesero in piazza, per la prima volta dal 1969, nel ventennale dell'invasione dell'agosto 1968, furono brutalmente aggredite da speciali unità poliziesche, che ferirono e arrestarono molti dei manifestanti. Un avvenimento molti simile ebbe luogo il 28 ottobre 1988, nel settantesimo anniversario dell'indipendenza del paese: a dimostrazione del fatto che, mentre il potere comunista aveva ancora le stesse caratteristiche, la gente cominciava ad uscire dall'apatia, e un numero crescente di persone provava interesse per la vita pubblica, noncurante della repressione.

Recenti sviluppi politici

Verso la fine degli anni ottanta, si erano consolidati nel paese molteplici gruppi politici di opposizione, composti in prevalenza da studenti, professionisti, scienziati. Questi lavorano soprattutto nella clandestinità ma dal 1988 cominciano a venire sempre di più allo scoperto. Un importante punto di riferimento rimaneva Carta 77, il ristretto gruppo di intellettuali che nel 1977 aveva, per la prima volta dopo i fatti del 1968, preso un'iniziativa politica in favore del rispetto dei diritti umani e politici.

Poi, all'inizio del fatidico 1989, la scintilla che innescava la rivoluzione. Durante una dimostrazione non autorizzata per il ventennale del suicidio di Jan Palach, in gennaio, il dissidente scrittore Vaclav Havel, tra gli altri, veniva arrestato. Havel fu processato assieme ad un gruppo di coimputati, e condannato il 21 febbraio a otto mesi di carcere. Questo provocò un'ondata di proteste in tutta Europa - anche nell'URSS soprattutto nel clima dell'appena conclusa conferenza di Vienna, che aveva segnato particolari progressi proprio nel campo della tutela dei diritti umani: il drammaturgo fu rilasciato il 17 maggio "per buona condotta", dopo aver scontato metà della condanna. Ne scaturiva una mobilitazione di massa in suo appoggio in varie città del paese, ed in parte anche in seno all'apparato ufficiale. Alcuni funzionari del partito arrivavano a scrivere un documento, intitolato "Alcune frasi", che richiedeva la fine della censura e riforme politiche radicali.

A questo punto si intensificava l'azione di alcuni dei summenzionati gruppi di opposizione. Due tra questi avrebbero acquisito statura nazionale ed avrebbero guidato la rivoluzione dell'autunno. Primo fra tutti il Forum Civico (predominante nelle terre ceche), cui si affiancava il Pubblico Contro la Violenza (la controparte slovacca). Formatesi clandestinamente negli anni precedenti, i due movimenti consolidavano rapidamente l'estensione del loro appoggio popolare e l'efficacia della loro azione politica.

La canonica ultima goccia era costituita dalla caduta del muro di Berlino il 9 novembre. Evidenziando la rinuncia sovietica all'egemonia sui paesi occupati nel 1945, quell'episodio segnava la fine di un'epoca per l'Europa. Ciò che era chiaro soprattutto era che Mosca non avrebbe appoggiato più la gestione tradizionale del potere comunista. Il 17 novembre 1989 si sviluppavano in tutto il paese numerose dimostrazioni, sempre pacifiche, sulla scia dei cambiamenti già in atto in Polonia (paese con il quale le frontiere erano state chiuse da Husak dal 1981 per paura di "contaminazione" da parte di Solidarnosc, ed ora guidato dal primo governo non comunista del Patto di Varsavia) e Ungheria.

La manifestazione del 17 novembre veniva momentaneamente repressa con violenza dalla polizia, ma non aveva luogo una strage di tipo cinese. La cosiddetta "Rivoluzione di velluto" che ad essa seguiva era molto rapida. Dopo le dimissioni dell'incerto Milos Jakes, il partito rinunciava al monopolio del potere e in dicembre Havel viene eletto presidente della repubblica per un periodo di due anni. La transizione era stata tutto sommato rapida ed indolore, ed era una sorpresa per tutti, forse anche per gli stessi cecoslovacchi.

Seguiva a breve una prevedibile proliferazione dei partiti politici. Alla disgregazione del vecchio fronte nazionale tra comunisti, socialisti e partito popolare subentrava la ricomposizione delle posizioni di quei partiti su linee genuinamente autonome. Molti altri partiti erano ricreazioni di vecchi partiti dell'ante-guerra (come gli Agrari e i Socialdemocratici), altri ancora erano invece completamente nuovi. Ventitré partiti si sarebbero poi presentati alle elezioni del giugno 1990, su un totale di circa 60 formatisi subito dopo il novembre 1989.

Politica Interna

A seguito della "Rivoluzione di velluto" la vita politica cecoslovacca si fa rapidamente più sofisticata. Le posizioni delle forze democratiche si diversificano dopo che il nemico comune, il comunismo, è stato neutralizzato. Dopo poco più di un anno, lo stesso Forum Civico si sarebbe diviso in due: un partito politico vero e proprio ed un movimento di coloro che si opponevano alla trasformazione della natura originaria del Forum. Per decisione comune le due parti rimarranno comunque alleate, almeno fino alle prossime elezioni politiche.

Anche il Pubblico Contro la Violenza della Slovacchia si spacca in due all'inizio del 1991, con una parte che segue il programma originale di autonomia slovacca nell'ambito di uno stato unitario, e l'altra che invoca addirittura la precedenza delle leggi repubblicane su quelle federali.

Altre forme di nazionalismo si consolidano gradualmente anche nelle terre ceche. Alcune forze in Moravia e Slesia spingono per la creazione di una terza repubblica all'interno della federazione. Questa proposta, inizialmente appoggiata anche da Havel, incontrava però la decisa opposizione della Slovacchia che vede in essa il pericolo di perdere il proprio potere di veto sulla legislazione federale. Quanto questi timori siano realmente fondati non è però così chiaro, in quanto Moravia, Slesia e Slovacchia potrebbero, al contrario, fare fronte comune contro la più ricca Boemia per una più egalitaria distribuzione delle risorse nel paese. La creazione di una terza repubblica avrebbe invece in vantaggio di sbloccare l'impasse decisionale che si verifica ogni qual volta cechi e slovacchi si trovano su posizioni inconciliabili. Una possibile alternativa attualmente in considerazione è l'eventuale ripartizione delle terre ceche in regioni, così da non alterare il carattere duale della federazione.

In conclusione, la questione nazionale tra cechi e slovacchi, mai completamente assopita durante il regime comunista, si è acuita dopo la rivoluzione. Il nazionalismo slovacco continua a crescere, alcuni parlano addirittura di indipendenza mentre finora il problema era stato posto in termini di autonomia e adeguata compartecipazione al governo federale.

Ci sono altre questioni etniche "minori" in Cecoslovacchia. Episodi di intolleranza razziale si sono registrati verso gli immigrati da paesi "ex-fratelli", quali quelli dell'Africa o del sud-est asiatico, ma anche contro profughi romeni, e particolarmente verso gli zingari. Varie minoranze lottano poi per un maggiore rispetto delle loro autonomie culturale, come ucraini, moravi e ungheresi.

Da registrare infine la notevole e totale liberalizzazione culturale attuata dal nuovo governo, con piena libertà per l'editoria, l'espressione artistica, l'informazione. Alcuni hanno anche notato la crescita dei prezzi necessari alla produzione, pericolo della commercializzazione dell'arte e dell'informazione.


Politica Estera

La statura internazionale del paese è cresciuta notevolmente dal 1989, anche in funzione del prestigio e della notorietà evocata della nuova classe dirigente, e soprattutto di Havel e Dubcek. Forse per questo Praga è stata visitata da un numero impressionante di capi di stato occidentali, tra cui l'allora Premier britannico Margaret Thatcher, il presidente americano Bush, quello tedesco Weizsäcker e quello francese Mitterrand. Qualche piccolo insuccesso si deve comunque registrare, dovuto forse più che altro all'inesperienza, come il fallimento del tentativo di ospitare il summit Gorbaciov-Bush del 1990 a Praga ed il maldestro tentativo di Havel di mediare tra Israeliani e Palestinesi. A fronte di questi, tuttavia, la prima dirigenza post-comunista è riuscita a reinserire il paese come un partecipante attivo sulle scena politica europea. Anche in materia di politica estera gli attori principali sono ex-dissidenti che godono di appoggio molto ampio tra la popolazione e tra le forze politiche, e per il momento non esiste un vero dibattito su politiche alternative. Unica eccezione, anche in questo caso di radice nazionalistica, la formazione nell'agosto 1990 di un ministero degli esteri slovacco, che però sostiene di non voler inficiare in alcun modo la materia di competenza della federazione. Cosa questo vorrà dire in futuro rimane da vedere.

In materia di sicurezza, all'inizio Havel ed il ministro degli esteri Dienstbier sostenevano la necessità di sciogliere in breve tempo sia il Patto di Varsavia che la NATO, salvo poi cambiare idea in entrambi i casi dopo averne conferito con i paesi occidentali. La NATO viene ora vista in un'ottica molto più favorevole e Havel ha persino indicato che potrebbe essere utile in futuro per la Cecoslovacchia associarsi ad essa. 

Quanto al Patto, si riconosce che almeno per qualche tempo potrà avere un ruolo politico. Tuttavia dovrà cessare di essere semplice cinghia di trasmissione di direttive sovietiche ad organo per l'integrazione dell'URSS nel processo di costruzione di una nuova architettura di sicurezza europea. anche per continuare a trattare con la NATO in sede di negoziati sul controllo degli armamenti, particolarmente a Vienna, in materia di armi convenzionali.

Importanti cambiamenti riguardano il rapporto bilaterale con l'URSS e le organizzazioni dell'ex-blocco sovietico. Il vertice del Patto di Varsavia del 4 dicembre 1989 nella capitale sovietica ha apertamente ripudiato la dottrina Brezhnev e ha dichiarato l'invasione della Cecoslovacchia nel 1968 un grave errore. Questo ha spianato la strada per il rapido consolidamento delle relazioni tra Havel e Gorbaciov. Ritiro delle truppe dal territorio cecoslovacco. L'accordo firmato a Mosca nel febbraio del 1990 era uno dei primissimi atti della nuova dirigenza di Havel e del ministro degli esteri Jiri Dienstbier. Ritiro completato nel 1991.

Havel ha consolidato rapidamente ottimi rapporti bilaterali con gli Stati Uniti, meta di una delle prime visite ufficiali del presidente nel febbraio 1990. La focalizzazione principale della politica estera rimaneva comunque verso l'Europa, e soprattutto la Germania. Havel ha sostenuto subito l'unificazione, ed una commissione mista di storici è stata incaricata di appurare definitivamente la verità su alcune questioni aperte che ancora offuscano le relazioni tra i due popoli, come l'occupazione nazista e le deportazioni di tedeschi dai Sudeti dopo la guerra.

La Cecoslovacchia ha avuto anche un ruolo attivo nella Pentagonale, nella speranza che questa possa diventare una sorta di anticamera per la CEE. Più recentemente, la paura di un eccesso di arrivi di profughi, soprattutto dall'URSS ma anche dal Medio Oriente, è un indice di quanto ambita sai diventata la Cecoslovacchia come terra di democrazia e di potenziale economico. Alcune centinaia di Curdi sono arrivati in Cecoslovacchia negli ultimi mesi. Il problema potrebbe esplodere quando l'URSS aprirà effettivamente le proprie frontiere.

Nell'ambito delle organizzazioni internazionali, Praga ha fatto domanda di riammissione al Fondo monetario internazionale ed alla Banca mondiale, e sono state accettate nel 1990. É stata altresí riammessa al Consiglio d'Europa, secondo paese dell'ex-blocco socialista dopo l'Ungheria.


Politica economica

Anche se la crescita economica è stata ininterrottamente in declino dalla fine degli anni settanta, la crisi economica cecoslovacca non è mai stata cosí grave come quella di altri paesi in simili condizioni di transizione, quali la Polonia, ed il paese non ha mai raggiunto i preoccupanti livelli di indebitamento pro-capite come l'Ungheria. 

Il partito comunista aveva riconosciuto la necessità di riforme radicali nel corso degli anni ottanta ma, come da copione, le riforme che poteva proporre si dimostravano essere troppo poco e troppo tardi. Inoltre, quanto era stato approvato veniva spesso male applicato.


Riforme economiche

Dopo la "rivoluzione di velluto" il pacchetto di misure adottate in Cecoslovacchia era simile, per grandi linee, e con enfasi diverse, a quello messo in pratica da tutti gli altri paesi in fase di transizione dalla pianificazione al mercato. Punto essenziale è la privatizzazione delle ciclopiche industrie statali con capitale nazionale e straniero. Quindi la riduzione dei sussidi alle imprese poco efficienti ed il taglio delle spese sociali. Come immediata e prevedibile conseguenza si registrava un aumento dei prezzi, sia sul mercato, sia di quelli regolamentati dallo stato (benzina e generi alimentari nell'estate del 1990).

Nell'ambito del programma di privatizzazione, una menzione a parte merita la cosiddetta "legge sulle restituzioni", mirata a compensare quanti avessero subito espropriazioni dal regime comunista. La prima legge è stata approvata nell'ottobre 1990, e prevede di restituire proprietà espropriate tra il 1955 ed il 1961 (soprattutto piccole imprese e residenze, dato che le grandi erano già state nazionalizzate tra il 1948 ed 1955). Continua peraltro la discussione su come e a chi pagare, dato lo stato non si può certamente permettere di ripagare tutti a prezzi correnti. Si pone quindi il problema degli emigrati che hanno abbandonato il paese dopo essere stati espropriati oltre quarant'anni orsono. Ci sono state successive discussioni per restituire proprietà nazionalizzate tra il 1948 ed il 1955, ma spesso sarà difficile o impossibile farlo concretamente.

Nel febbraio 1991 è stato reso pubblico un documento stilato nel novembre 1990 sulla strategia per l'attuazione della trasformazione del sistema economico nazionale. Esso prevede quattro scenari, a secondo del grado di difficoltà che il programma di ristrutturazione potrebbe incontrare. Per ciascuno scenario, la strategia proponeva una terapia più o meno "d'urto" per superare più rapidamente possibile la fase più critica e facilitare la ripresa.

Nel suo rapporto al Parlamento del marzo 1991, il Primo Ministro Calfa, raro caso di personaggio ripescato dal passato comunista, dichiarava che l'inflazione era stata portata sotto controllo, e che la disoccupazione si era assestata intorno al 2%. A fronte di questi dati confortanti, sono invece preoccupanti la caduta della produzione, che nel 1991 sarà circa del 6%, ed il crescente indebitamento tra imprese che, dovendo investire e potendo vendere poco, hanno difficoltà ad ottemperare agli obblighi presi.

Consistenti voci, autorevoli anche se per ora di minoranza, chiedono ora una transizione più graduale. Altre, tra cui quella determinante del ministro delle finanze Klaus, chiedono invece di accelerare e rifiutano il concetto sovietico di "perestrojka" in quanto deleterio, perché perpetuerebbe l'economia socialista (o anche solo mista) che invece deve essere integralmente sostituita dal mercato.

Attenzione particolare veniva posta da Praga per le problematiche ambientali, ad esempio con l'emblematica sospensione di una importante diga che era in costruzione in collaborazione con l'Ungheria.


Rapporti economici con l'estero

La priorità fondamentale per i rapporti economici con l'estero per la Cecoslovacchia consiste nel riorientare il commercio verso Occidente ma allo stesso tempo tenendo conto della continuata necessità di commerciare con gli ex-paesi fratelli. L'URSS aveva qui una posizione preminente, con circa un terzo del commercio estero. Ora la Germania unita sta diventando il primo partner commerciale.

Il petrolio sovietico, in particolare, che veniva acquistato con accordi di scambio senza esborso di valuta convertibile, deve ora essere in parte acquistato altrove, sia per le diminuite capacità esportative sovietiche, sia perché Mosca vuole oggi comunque essere pagata in valuta. Il problema è stata ovviamente accentuato a causa della crisi del Golfo. Altro motivo per continuare a guardare ad Est è chela  produzione del paese è in larga misura non competitiva sul mercato internazionale.

Il 17 dicembre 1990 i capi di governo di Praga e Mosca Calfa e Ryzhkov firmavano, nell'ambito di complesse trattative tra tutti i paesi del COMECON in fase di scioglimento, un accordo per la ristrutturazione degli scambi bilaterali, che sarebbero stati regolati in valuta convertibile dal 1◦ gennaio 1991, con l' abbandono del cosiddetto rublo convertibile (che in realtà convertibile non era affatto in quanto utilizzato solo come unità contabile). In un primo periodo di transizione le transazioni saranno gestite dalle banche commerciali dei due paesi, e successivamente saranno liberalizzati. L'accordo prevede anche la possibilità di riesportazione della merce scambiata, ma solo con il previo accordo del paese esportatore primario. 

C'è poi il problema dei crediti commerciali in rubli che la Cecoslovacchia detiene nei confronti dell'URSS, e questi ha accettato siano semplicemente trasformati in valuta convertibile al cambio di 1:1. L'URSS potrebbe quindi ripagare tra il 1991 ed il 1994 tramite la fornitura di beni e servizi definiti a titolo indicativo in una lista concordata tra le parti.

Accordo anche per condurre le operazioni non commerciali in valuta convertibile, salvo diverso accordo tra le parti per casi specifici in cui si potranno usare le valute nazionali. Per esempio, i pagamenti sovietici per l'utilizzo del settore cecoslovacco del gasdotto che collega l'URSS alla Germania sarà effettuato in valuta ai nuovi proprietari dello stesso dopo che il governo di Praga avrà completato il piano di privatizzazione. Anche il petrolio che l'URSS continuerà a fornire, anche alla Cecoslovacchia sarà (quasi tutto) pagato in valuta. Ulteriori acquisti dovranno poi essere regolati direttamente dagli enti preposti nei due paesi.

Negli ultimi anni l'URSS aveva peraltro già ridotto le forniture di greggio, costringendo la Cecoslovacchia ad intraprendere quella diversificazione delle fonti che era stata sempre rimandata grazie (oggi si direbbe "a causa") delle condizioni di favore risultanti dalla distorsione dei prezzi nel commercio tradizionale intra-Comecon. Da segnalare gli accordi con l'Iraq (congelato a seguito della crisi del Golfo), Arabia Saudita, Indonesia, Venezuela, Iran. Quanto detto per le materie energetiche si potrebbe ripetere anche per altre materie prime. Confermata peraltro  la scelta elettronucleare, nonostante le forti opposizioni ambientaliste e della vicina Austria, preoccupata della sicurezza degli impianti di tipo sovietico.

Nel COMECON, la Cecoslovacchia post-comunista ha spinto per una rapida ristrutturazione di principio dell'organizzazione su basi di mercato e contrattazioni in valuta, anche se ciò sta creando non pochi problemi agli esportatori. L'opinione di Praga è che comunque il futuro dell'inserimento economico internazionale del paese vada cercato ad Ovest, e quindi nella Comunità europea e/o nell'EFTA; conseguentemente, ed in modo simile a quanto fatto dagli altri paesi ex-socialisti, Praga tende a rifiutare forme di integrazione economiche, per quanto riformate, con altri paesi del COMECON. Questo atteggiamento potrebbe però cambiare non appena le difficoltà di una rapida integrazione ad occidente appariranno più chiare. 

Cenno a parte merita il commercio delle armi. La Cecoslovacchia ne ha tratto cospicui guadagni, e dopo alcune prime promesse di Havel sulla desiderabilità di porre fine a questo tipo di guadagno "sporchi" appare ora chiaro che invece questo commercio continuerà. É quindi importante che il paese sia inserito nell'attuale dialogo internazionale sulla regolamentazione del commercio di armamenti, particolarmente verso i paesi del Terzo Mondo.


Politica Militare

Del nuovo pensiero nazionale in materia di sicurezza internazionale si è detto sopra. Le gerarchie militari sono state più volte in tensione per la stabilità interna del paese, e hanno dichiarato di temere le ripercussioni delle divisioni nazionalistiche sulla stabilità del paese, anche se non sembrano avere intenzione di intervenire a questo proposito nella vita politica. In questo senso, la situazione è decisamente più stabile di quella di Jugoslavia o nella stessa URSS. Non ci sono al momento motivi di credere che questo cambierà in futuro. Comunque, si nota un appello di Havel alla stretta neutralità delle forze armate nelle dispute politiche della nuova democrazia.

Un problema potrebbe essere costituito in futuro, in caso di crisi economica o nazionalistica prolungata, dal background ideologico del corpo ufficiali, interamente addestrato ed indottrinato nell'Unione Sovietica. Oggi Praga sta cercando, così come tutti gli altri paesi dell'ex-patto, di ridurre questa dipendenza, ma per tutti sarà difficile trovare alternative. Sono peraltro già iniziati numerosi contatti con le accademie militari occidentali, soprattutto in Germania, ma ancora non ci sono programmi di cooperazione su vasta scala.

Lo stato maggiore sta elaborando una nuova dottrina militare cecoslovacca alla luce dello scioglimento dell'organizzazione militare del patto di Varsavia attuata quest'anno. I dettagli sono ancora riservati, ma si sa che alcune unità dell'esercito saranno spostate dai confini occidentali a quelli orientali del paese.


Prospettive

La Cecoslovacchia ha buone possibilità di superare l'attuale crisi fisiologica di transizione economica e politica e di consolidare la tradizione democratica per la quale può attingere alle sue più lontane radici storiche e culturali. La democrazia del paese è forse oggi già la più forte nell'Europa orientale, ed il suo orientamento verso occidente è totale. Mancano inoltre poli di attrazione alternativi (come la Chiesa in Polonia) che potrebbero intervenire dall'esterno per interferire con questo orientamento.

L'economia del paese è ovviamente alle prese con una difficile crisi, ma meno di altre della regione. I quadri sono generalmente (relativamente al contesto geografico) ben preparati, anche se poco preparati al confronto diretto con l'Occidente.

Il problema più grave, come in molte altre parti della regione, appare il crescente nazionalismo. La maggioranza della popolazione, secondo tutti i sondaggi disponibili, non vuole la scissione del paese in due stati indipendenti, ma forme diverse di federazione o confederazione. Questo è vero anche in Slovacchia, dove il nazionalismo è più forte. Tuttavia, i meccanismi delle rivalse nazionali sono difficilmente controllabili. Se si dovesse rimettere in discussione l'attuale assetto del paese, il pericolo del prevalere di forze disgregative sarebbe reale.

01 June 1991

Situazione in Bulgaria

Relazione preparata per GETECNA. Le valutazioni e le opinioni espresse in questo studio sono dell'autore, e non devono essere attribuite all'Istituto Affari Internazionali.


Lo sfondo storico e culturale

La Bulgaria ha storicamente avuto poca esperienza con la democrazia. Il paese ha conquistato l'indipendenza dall'impero ottomano nel 1878, dopo cinque secoli di sottomissione politica e culturale. Una consistente minoranza etnica turca rimaneva comunque nella Bulgaria indipendente. Il problema bilaterale con i turchi, di cui si dirà di seguito, ha dunque radici antiche. Nel nostro secolo, già nel 1934 ci fu un tentativo da parte di Sofia di bulgarizzazione forzata, con l'obbligo di cambiare i nomi delle città turche in nomi bulgari; il tentativo ebbe risultati limitati, ed il problema si sarebbe riproposto in seguito.

Subito dopo l'indipendenza si assisteva a vani tentativi di stabilire nel paese una monarchia costituzionale con parlamento eletto a suffragio maschile universale. Le classi medie, che tale sistema logicamente favorivano, erano però ancora deboli, e prevalevano quindi le tradizionali aristocrazie, autoritarie e conservatrici. Altri tentativi democratici vengono effettuati subito dopo la prima guerra mondiale (come quello dell'Unione Agricola), ma falliscono. I partiti democratici vincevano ancora un'elezione nel 1931 ma un colpo di stato provvedeva subito a restaurare l'autoritarismo monarchico.

Durante la seconda guerra mondiale i comunisti si univano al fronte popolare si alleavano nella lotta contro l'Asse, con cui invece si era schierato il governo. Subito dopo la guerra diveniva però chiaro che i comunisti consideravano l'alleanza con le altre forze politiche anti-fasciste solo come un primo passo verso la conquista di tutto il potere. Nikola Petkov organizzava un cosiddetto Blocco di Opposizione contro i comunisti, e riceveva quasi due terzi dei voti nelle elezioni generali dell'Ottobre 1946, nonostante la dura compagna di intimidazioni perpetrata dai comunisti.

L'Occidente è in questa fase generalmente indifferente, e non aiuta il Blocco in alcun modo. La Bulgaria cade nella sfera di influenza sovietica concordata tra le tre potenze vincitrici, e Stalin ha quindi mano libera. Petkov viene arrestato e condannato a morte per tradimento e con lui moriva ongi speranza di democrazia per il paese per i successivi 45 anni.

In sintesi, la Bulgaria è stata governata prima dall' autoritarismo monarchico che rifiutava la democrazia come "anarchica"; e poi dal comunismo che la rifiutava come "borghese". Non deve quindi sorprendere che le radici dell'attuale coalizione di forze democratiche non abbia radici profonde; al contrario, si deve rilevare che nonostante la mancanza di tradizioni democratiche si assiste nel paese ad una transizione sorprendentemente pacifica ed illuminata, che lascia ben sperare per il prossimo futuro.

Il paese nel "blocco sovietico"

Durante il quarantennio di regime comunista la Bulgaria è stata, per antonomasia, il paese più acquiescente con Mosca, l'unico "satellite" a non aver mai avuto problemi con nessuno dei leader che si sono avvicendati al Cremlino nel dopoguerra. Todor Zhivkov, segretario generale del Partito Comunista bulgaro (PCB) ininterrottamente dal 1954 al 10 novembre 1989, aveva detto, non a torto, che Bulgaria ed Unione Sovietica vivevano dello "stesso sistema circolatorio".

Con l'avvento al potere di Gorbaciov, Zhivkov, coerentemente a quanto detto sopra, inizia a seguirne le orme in materia di riforme, ma cade inevitabilmente nel paradosso: per essere ortodosso deve iniziare a smantellare l'ortodossia stalinista, principale bersaglio delle riforme gorbacioviane. Come altri leader comunisti nella regione, tenta un impossibile compromesso, cercando di democratizzare il socialismo reale e di avviare riforme verso un "socialismo di mercato". Nel luglio 1987 annuncia le prime elezioni con candidati multipli (ma sempre comunisti) e concede più libertà per i media.

Nel frattempo, il paese si sveglia da un lungo torpore politico e culturale. In mancanza di partiti politici, i "Club per Perestrojka e Glasnost", inneggianti a Gorbaciov, proliferano nel paese, e sfuggono presto ad ogni controllo da parte del centro, che non può certo reprimere chi inneggia alla guida del comunismo mondiale. Vengono ostacolati però dalle autorità locali. D'altra parte, il rinnovamento si sviluppa anche all'interno dello stasso partito, soprattutto nelle generazioni più giovani.

Infatti, è nel partito che si prepara l'avvio delle riforme "gorbacioviane", anche se probabilmente pochi ne prevedevano le conseguenze. Il giorno dopo la caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) al vecchio Zhivkov viene stato fatto capire che la sua epoca politica era finita. A rendere inevitabile la svolta, nella nuova epoca della glasnost sovietica, assumeva un tono grottesco il culto della personalità che Zhivkov aveva favorito, accrescendosi i meriti personali e il ruolo svolto durante la guerra di resistenza. I suoi discorsi sono stati pubblicati in 38 volumi, e sono stati esaltati al limite del ridicolo persino i suoi supposti contributi teorici all'ideologia marxista-leninista. A tutto ciò si è aggiunta un'inclinazione sempre più accentuata al nepotismo che ha privilegiato figli e nipoti, tutti - tranne forse Ljudmila, dotata di propria personalità - rivelatisi incompetenti e inadatti ai compiti loro assegnati.

Subito dopo la sua estromissione iniziava la prevedibile epurazione del suo clan, che si sgretolava sotto le accuse di corruzione. Gli succedeva alla massima carica del partito il suo ministro degli esteri (dal 1971!) Petar Mladenov, che (sembra dopo consultazioni con Mosca dove avrebbe segretamente fatto scalo di ritorno da un viaggio ufficiale a Pechino) che subito annuncia riforme economiche e politiche radicali. Nel gennaio 1990 si modifica addirittura l'articolo 1 della costituzione, in base al quale veniva assicurato al PCB il ruolo guida nella società.

Un cenno a parte meritano alcune caratteristiche peculiari della politica economica comunista in Bulgaria.1 A differenza della Romania, dove un ambizioso progetto riformatore imperniato sull'industria petrolifera è stato perseguito con decisione nonostante i suoi esiti si siano poi rivelati disastrosi, la Bulgaria ha mostrato sempre grande cautela nello sviluppo dell'industria pesante e si è sforzata di ricercare e di mantenere un equilibrio agro-industriale più consono alle caratteristiche del paese, Le ragioni, dunque, della sua crisi economica (e più tardi politica) debbono essere individuate piuttosto nella parzialità delle riforme avviate. La loro limitatezza era, infatti, inadeguata a sciogliere i nodi strutturali che pesavano sull'economia e sulle istituzioni del paese. Nonostante, insomma, una serie incalzante di piccole riforme, e due tentativi di maggior respiro perseguiti negli anni Sessanta e alla fine degli anni Settanta, i comunisti bulgari non sono stati capaci di mettere in discussione fino in fondo il ruolo dello Stato nell'economia e, in particolare, il suo controllo sul sistema dei prezzi e la sua politica fiscale e la rigidità dei meccanismi di pianificazione.

Ancora nel 1986 la Bulgaria respingeva ogni prospettiva di economia di mercato. Di conseguenza, le novità contenute nel "Nuovo Meccanismo Economico" introdotto alla fine degli anni Settanta, e che ambiva a collegare i salari delle aziende alla produttività, privandole dei sussidi di Stato per favorire l'individualizzazione autonoma di fonti di finanziamento o di reddito, si sono presto scontrate con il boicottaggio della burocrazia che ha reso difficoltosi i rifornimenti e ha mantenuto "temporaneamente " in azione tutti i preesistenti canali di intervento amministrativo nell'economia.

La stessa autogestione, lanciata nella primavera del 1986, da un lato ha permesso all'azienda di negoziare con gli organi centrali sulle caratteristiche della produzione, dall'altro ha attribuito però allo Stato la decisione finale. Si è continuato a fissare i prezzi in modo arbitrario, mentre la leva fiscale è stata utilizzata per mantenere elevato l'egalitarismo fra gli strati sociali, a scapito degli incentivi necessari a dinamizzare l'economia. Benché solo la piccola impresa (con meno di 200 dipendenti) sia riuscita nell'ultimo decennio a godere di una relativa autonomia ( pur in un quadro sottoposto alla "tutela" statale) e a ritagliarsi un proprio spazio di sviluppo, il quadro generale dell'economia bulgara non ne ha risentito in termini positivi. Anche la liberalizzazione dei rapporti di lavoro avviata nel 1987 ha circoscritto a tal punto le possibilità d'azione della micro-imprenditorialità da non permetterle di uscire dai limiti dell'iniziativa strettamente individuale.

Agli inizi degli anni Settanta, inoltre, la Bulgaria aveva provato a riorientare le proprie esportazioni verso l'area a valuta convertibile. Il risultato si è rivelato presto rovinoso e si è tradotto nella contrazione di un pesante debito con l'estero giunto nel 1989 a 10 miliardi di dollari. Con l'estate del 1985, e in concomitanza con un paio di annate (1984-1985) rivelatesi disastrose per l'agricoltura a causa delle alterate condizioni climatiche, l'Urss ha deciso di sospendere i privilegi concessi alla Bulgaria nel pagamento delle forniture di petrolio e gas, in quanto il nuovo spirito della perestrojka imponeva di abbandonare le considerazioni politiche e fondare invece le relazioni economiche sulla base della reciproca utilità. La Bulgaria ha dovuto così affrontare una pesante crisi energetica che si è riflessa negativamente tanto sull'industria quanto sull'agricoltura, disarticolando vieppiù un sistema produttivo ormai rivelatosi inadeguato ad assicurare lo sviluppo del paese.

Recenti sviluppi politici

Politica Interna

Al Congresso straordinario del partito in gennaio 1990, Mladenov lascia la segreteria generale ed assume il ruolo puramente cerimoniale di capo di stato mentre Andrei Lukanov, un rispettato apparatchik, è il nuovo Primo Ministro; Alexander Lilov, un comunista riformatore che era stato epurato da Zhivkov nel 1983, è il nuovo capo del partito.

Al Congresso segue la solita litania di riforme istituzionali e manifestazioni di ravveduta apertura politica. Il partito cambia nome e diventa "socialista", si denunciano le pratiche "totalitarie" del passato, si richiamano i collegamenti al socialismo democratico dell'Europa occidentale. Molti che avevano lasciato il partito vi ritornano e contribuiscono a rendere la vita politica al suo interno più vivace. Anche il giornale di partito abbandona la vecchia linea e diventa più interessante ed informativo.

Si forma intanto anche un altro partito socialista che si autodefinisce "alternativo", e spinge per una rapida occidentalizzazione del paese. Parallelamente, si attua una epurazione e una riforma strutturale anche di sindacati, dei movimenti studenteschi, dei partiti "alleati" dei comunisti.

Infine, si intavolano negoziati, sotto forma di "tavola rotonda", anche con le opposizioni non socialiste, un po' come era avvenuto nella primavera del 1989 in Polonia. La tavola rotonda giunge ad accordi su libere elezioni parlamento, che avrebbe carattere provvisorio, e resterebbe in carica solo per 18 mesi sia come legislatore che come costituente, fino a nuove elezioni politiche generali. Viene garantita la libertà di registrazione per tutti i partiti politici. Infine, per garantire la necessaria libertà di informazione, si abolisce definitivamente la censura.

Durante la campagna elettorale del 1990 si assiste al crollo politico di Mladenov, che il precedente novembre era stato ripreso da una telecamera a sua insaputa mentre incitava all'uso della forza per reprimere dimostrazioni di piazza a lui ostili durante un comizio. Imbarazzato, Mladenov prima negava di aver parlato ed accusava l'opposizione di aver manomesso il nastro, poi ammetteva che questo fosse autentico ma ne minimizzava l'importanza. Incoraggiato anche dal suo partito, Mladenov si dimetteva dalla presidenza dello stato alla vigilia delle elezioni, e veniva sostituito da Zhelev. Il presidente Zhelyuv Zhelev è un ex-dissidente.

Le elezioni hanno luogo nel giugno del 1990, e la tabella che segue ne riporta i risultati. Si nota la vittoria dei socialisti (ex-comunisti), che però non è stata cosí assoluta come spesso riportato dai media occidentali. Il PSB non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, anche se il meccanismo elettorale gli ha permesso di cumulare più della metà dei seggi nella Grande Assemblea Nazionale, come viene chiamato il Parlamento/Costituente. Si nota inoltre che ci sono stati seri problemi per tutti i neo partiti: mentre socialisti (ex-comunisti) hanno potuto appoggiarsi a strutture ed esperienze accumulate in 45 anni di monopolio del potere, gli altri dovevano incominciare da zero. Tuttavia, nonostante notevoli resistenze a livello locale, il governo centrale ottemperava agli obblighi assunti nella tavola rotonda e metteva a disposizione per la campagna elettorale i media statali (televisione e radio) e i mezzi per operare quelli privati (stampa).

Notevole, anche se inferiore alle aspettative, il risultato della coalizione di partiti presentatisi nella lista dell' Unione delle forze democratiche, (UFD) una coalizione di una decina di gruppi anti-comunisti formatasi subito dopo la caduta di Zhivkov, con crescenti problemi di coesione via via che si differenziava la vita politica del paese e spariva la "minaccia comune" rappresentata dallo spauracchio del comunismo.


Elezioni Politiche, 1990

voti percentuale seggi

Socialisti (ex-comunisti) 2.886.363 47,15 211

Unione Forze Democratiche 2.216.127 36,20 144

Unione Agraria Nazionale 491.500 8,03 16

Diritti e Libertà 368.929 6,03 23

Altri 158.279 2,59 6

Fonte: Duma, 25 giugno 1990

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Ma la vittoria nelle elezioni (tutto sommato abbastanza corrette, anche se sono state rilevate sporadiche manipolazioni) non apriva un periodo di stabilità, né per il partito, né per il paese. Per molti bulgari il PSB incarnava la continuità con il precedente regime, e frequenti erano le manifestazioni di insofferenza popolare dopo la vittoria elettorale; frutto, queste, dell'ancora acerba mentalità democratica del popolo bulgaro. Dopo aver richiesto la rimozione della grande stella rossa che troneggiava sul tetto dell'edificio del comitato centrale del partito a Sofia, il 26 agosto 1990 una folla metteva in atto una vera e propria invasione, seguita da saccheggio ed incendio del quartiere generale del partito. Questo sorge proprio accanto al mausoleo di Dimitrov (il fondatore del comunismo bulgaro, la cui salma imbalsamata, come quella di Lenin nel mausoleo di Mosca, era stata però già precedentemente rimossa e cremata). Il presidente Zhelev, rientrato d'urgenza a Sofia da Varna, non riesce a calmare la folla (spontanea o organizzata, e se così da chi, non si sa ancora di sicuro). La polizia, presente in forza, non interviene per diverse ore, e quando lo fa si limita a fermare pochi pregiudicati. Alla fine di tutto, ironicamente, la stella rossa aveva sopravvissuto sul tetto dell'edificio carbonizzato dalle fiamme.

Il processo di revisione costituzionale in Bulgaria è ancora in corso, forse la prima bozza della nuova costituzione si avrà a luglio. Le nuove elezioni politiche sono previste per l'Autunno. Parte delle opposizioni le avrebbe volute prima, allo scopo di gestire la fase costituente con un parlamento che si prevede sarà meno dominato dal PSB. Ma su questo si sono divise le precedentemente unite forze anti-comuniste.

Si sottolinea anche la nuova forza acquisita dal movimento monarchico, che è riuscito a riproporre il quesito sulla forma istituzionale dello stato ma difficilmente vincerà il referendum del 15 luglio sull'argomento.

Un cenno a parte merita il partito "Movimento dei diritti e delle libertà", conosciuto come il partito "dei turchi". Sono vietati in Bulgaria i partiti su base di religione e etnia, ma il movimento, fondato dal turco Dugan, di fatto rappresenta gli interessi dell'etnia turca. Si propone di ottenere che lo stato restituisca i beni e i posti di lavoro persi dai turchi bulgari emigrati nel 1989. Vuole processare i responsabili della scriteriata politica di assimilazione forzata, consentire l'insegnamento facoltativo del turco e della religione islamica nelle scuole frequentate da scolari turchi, favorire la restaurazione delle moschee chiuse o danneggiate dai comunisti.

Anche se il movimento difende nominalmente i diritti di tutte le minoranze, ed evita di identificarsi esplicitamente con quella turca, di fatto è diventata tale. Per questo motivo, il movimento è piuttosto isolato. Altre forze politiche che ne dividono gli ideali temono però che una collaborazione con loro potrebbe alimentare un nazionalismo bulgaro di reazione.

La campagna elettorale ha dimostrato un'altra caratteristica della nuova Bulgaria: libertà per i media è cosa ormai acquisita. Si è assistito in Bulgaria ad una proliferazione di giornali, molti però presto si sono trovati in difficoltà economiche e probabilmente dovranno chiudere. Si comincia insomma a vedere il funzionamento del normale gioco democratico, sottoposto alle leggi di mercato. Tagli quindi anche alle sovvenzioni per i media statali, molte stazioni radio locali dovranno chiudere. Comunque la competizione con i privati ha già fatto notevolmente migliorare la qualità dei media di stato, che godono oggi di maggiore stima che non in passato, quando avevano il monopolio.

Politica Estera

Le due linee principale della nuova politica estera del paese sono state di apertura ad Occidente e di mantenimento di buone relazioni con l'URSS. Grande attenzione anche alla politica regionale nei Balcani. Minore attenzione invece verso il Terzo Mondo, sia per la fine degli aiuti motivati ideologicamente del periodo comunista, sia perché è la Bulgaria che oggi si trova per molti versi nella posizione di un paese in via di sviluppo.

Il Primo Ministro Popov ha accettato di firmare un Trattato di "amicizia e cooperazione" con l'URSS, cosí come ha già fatto la Romania. Ma è stato riluttante ad accettare la clausola che obbliga i contraenti a "non far parte di alleanze che potrebbero essere giudicate ostili dall' altro contraente". Il problema è che la Bulgaria, dopo lo sciogliomento del Patto di Varsavia, sta ancora definendo una propria politica di sicurezza, e oscilla tra l'atteggiamento più occidentaleggiante di Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia (che cercano legami più stretti possibile con la NATO, con l'ambizione di poterne un giorno farne parte) e quello più nazionalista della Romania, mirante soprattutto ad evitare influenze esterne). Si ricerca attualmente un compromesso, ma è probabile che, se la questione non sarà risolta entro la legislatura, il prossimo governo, verosimilmente non gestito dai socialisti, assumerà un atteggiamento più orientato ad occidente ed il trattato con l'URSS non si farà più. Un elemento che ha causato qualche attrito nei rapporti diplomatici bilaterali è stata la reazione negativa della Bulgaria alla repressione nei paesi baltici all'inizio del 1991. I sovietici hanno dichiarato che l'atteggiamento bulgaro era un "interferenza negli affari interni sovietici".

In questo momento (giugno 1991) Popov vuole migliorare le relazioni (soprattutto commerciali) con l'URSS, ma non apparire politicamente sottomesso a Mosca, cosa che lo renderebbe vulnerabile alle prossime elezioni. La sola forza che appoggia Mosca senza riserve è il Fronte del Lavoro Patriottico. In ogni caso, le prospettive di un negoziato con la NATO sono ancora molto remote, in quanto quest'ultima non ha alcun interesse a creare problemi per Gorbaciov ed ha quindi escluso di poter allargare i propri ranghi ad oriente.

Come tutti gli altri paesi ex-socialisti, la Bulgaria cerca un'associazione più stretta possibile con la Comunità Europa, verso la quale cerca di orientare le proprie esportazioni (soprattutto agricole) e dalla quale sta già ottenendo importanti aiuti economici. Significativi anche i recenti viaggi del presidente Zhelev anche in USA e Giappone alla ricerca di aiuti economici e tecnologici.

La Bulgaria ha fatto domanda per l'ammissione nel Consiglio d'Europa, e stante il progresso nel rispetto dei diritti umani ha buone probabilità che venga accettata, probabilmente entro il 1992. Molto dipenderà dall'andamento delle prossime elezioni e dall'evoluzione della condizione della minoranza turca.

Ed è proprio con la Turchia, che ultimamente Sofia è riuscita a migliorare le relazioni, seriamente danneggiate dall'atteggiamento provocatorio ed irragionevole del regime di Zhivkov. Si è detto della bulgarizzazione dei nomi delle città nel 1934. Nel 1981 una legge eliminava l'indicazione di nazionalità nei passaporti interni, cercando di creare l'impressione di una avvenuta omogeneizzazione della popolazione. Nel 1984, a tutti i cittadini dello stato veniva fatto obbligo di bulgarizzare i nomi e cognomi. La campagna di assimilazione forzata delle minoranze turche assumeva nuova intensità nel 1984-1985, aggravando un problema annoso, e ravvivando l'astio reciproco secolare tra i due popoli e tra i due stati.

La situazione diventava esplosiva nel 1989, con scioperi della fame e repressioni brutali. Zhivkov, ormai quasi farneticante, sosteneva che in realtà le minoranze turche erano solo bulgari forzatamente convertiti all'islamismo durante l'impero ottomano. Quando la Turchia apre le frontiere si assiste a fughe in massa (più di 300.000 persone) non molto diverse da quelle cui più o meno contemporaneamente si assisteva tra le due Germanie. Dopo che la Turchi ammassava truppe in Tracia si è temuto anche il pericolo di un conflitto armato. L'esodo conquistava comunque l'attenzione del mondo, da cui veniva una condanna generale per la violazione dei diritti umani in Bulgaria.

Dopo il cambio di regime a Sofia, parallelamente alla graduale revoca della politica di assimilazione forzata, migliorano le relazioni bilaterali, in parte con l'utile mediazione del Kuwait (fino alla primavera del 1990!). Ci sono scambi di visite ufficiali, anche a livello militare. La Turchia concede prestiti (100 milioni di dollari), e petrolio (50.000 tonnellate), di cui la Bulgaria privata dell'approvvigionamento iracheno ha disperato bisogno. Nel 1991 si ha addirittura l'abolizione dei visti per i turisti. 100.000 dei turchi emigrati dal 1989 ritornano in Bulgaria. Zhelev estende anche un invito ad Ozal a visitare Sofia, che potrebbe significare la definitiva normalizzazione dei rapporti bilaterali.

Problemi annosi anche con la Jugoslavia sulla questione macedone. La Macedonia è terra di etnia mista, assegnata alla Bulgaria all'atto della fondazione dello stato bulgaro dal trattato russo-turco di S. Stefano nel 1878, ma divisa al Congresso di Berlino, pochi mesi dopo, con Serbia, Grecia e Albania. Fu occupata brevemente dai bulgari durante le guerre balcaniche subito prima della Prima Guerra Mondiale. A differenza della Jugoslavia, Bulgaria e Grecia non le riconoscono lo stato di etnia slava distinta. 2 I nazionalisti post-comunisti accusano il BCP/BSP di aver trascurato gli interessi nazionali bulgari nella questione macedone, concedendo troppo alla Jugoslavia che non rispetta i diritti dei bulgari in Macedonia. Belgrado, ed il governo repubblicano di Skopije, invece accusano Sofia di assimilazione forzata dei Macedoni.

Politica economica

Riforme economiche

Delle riforme economiche si parla in altra relazione in questo progetto. Ci si limita qui a fornire una sintesi delle principali misure adottate per quella che è la loro valenza politica. Durante il 1990 l'introduzione del meccanismo di mercato veniva sostenuta a parole ma non eseguita in pratica. Sul finire dell'anno scorso, il nuovo governo del Primo Ministro Dimitur Popov (un avvocato politicamente indipendente) iniziava a mettere in pratica quanto i suoi predecessori si erano limitati ad annunciare, ma la numenklatura ancora al potere negli strati intermedi e bassi dell'apparato continuava ad ostacolarlo. Ciononostante, veniva lanciato un ambizioso programma, incentrato sulla riduzione drastica della domanda per equilibrarla con l'offerta. Si assisteva quindi ad un innalzamento dei tassi d'interesse, alla liberalizzazione dei prezzi, alla liberalizzazione del cambio con l'estero. Il programma, una vera terapia d'urto, è comprensibilmente ancora in via di definizione.

Prevedibile la caduta iniziale dello standard di vita. Negli ultimi mesi del 1990 il Lev perdeva i 2/3 del suo valore, la benzina diventatava quasi introvabile, i prezzi dei beni di prima necessità raddoppiavano e quelli dei servizi triplicavano. A ciò si aggiungeva un'inflazione galoppante. Dal settembre 1990 si è dovuto procedere al razionamento di zucchero, farina, olio e detersivi e i sindacati (quello filo governativo e quello di opposizione) per la prima volta uniti minacciavano lo sciopero generale

L'aspetto più grave era però forse quello della crisi energetica. Con la caduta delle forniture sovietiche, e la fine dei sovvenzionamenti pubblici. il consumatore bulgaro ha risentito di notevoli difficoltà di approvvigionamento, materiale ed economico. L'embargo delle Nazioni Unite ha impedito l'arrivo del petrolio quello iracheno (inoltre, l'Iraq doveva alla Bulgaria 1,5 miliardi di dollari, pari al 55% di tutti i crediti concessi da Sofia ai paesi in via di sviluppo, che avrebbe dovuto pagare in petrolio). Seri problemi sono stati incontrati con il programma di incremento degli nucleari.

Si provvede ora a forniture alternative da Iran e Regno Unito. Il razionamento della benzina per uso privato era stato già adottato verso la fine del 1990, poi c'è stato anche un embargo totale delle vendite per due settimane a gennaio. C'è oggi un consenso nazionale sul bisogno di ristrutturazione radicale del settore energetico, ma il problema principale è di trovare i finanziamenti necessari

Importanti progressi nella riforma agricola: la privatizzazione è incominciata presto per gli appezzamenti più piccoli, fino a 30 ettari. Difficile invece il processo di restituzione delle terre espropriate dal regime comunista. Per gi appezzamenti più grandi si è solo in fase di programmazione.

Il processo è ostacolato anche in questo caso dalla burocrazia a livello locale. Ci sono però anche problemi di costi, perché è difficile per i nuovi proprietari terrieri trovare i fondi per finanziare le necessarie attrezzature, mentre il credito è ancora troppo costoso (45% dal febbraio 1991).

Infine il problema della sanità. In passato il regime comunista aveva ottenuto risultati rispettabili (mortalità infantile tra le più basse d'Europa, ospedali e medici in quantità sufficienti). Ma lo sperpero di risorse caratteristico del sistema assistenziale aveva danneggiato la qualità dei servizi. Oggi, anche in questo settore, ci sono problemi di risorse per le medicine e per le moderne tecnologie terapeutiche e diagnostiche.

Rapporti economici con l'estero

Nel corso dei decenni i legami commerciali del paese si sono sviluppati soprattutto con gli stati del Comecon. Come per altri casi di cui si è trattato in questo progetto, ciò era dovuto da una parte alla pressione sovietica per la formazione di un blocco socialista integrato, e dall'altra alla mancanza di capacità da parte delle Bulgaria di importare merci da Occidente (troppo costose e, nel caso delle alte tecnologie, controllate) e dall'altra all'impossibilità di penetrare i mercati occidentali con merci bulgare (di qualità troppo scadente o contingentate).

Come suaccennato, c'è grande interesse nella maggioranza delle forze politiche per incrementare i contatti con l'Occidente, ed in paticolare con la CE, di cui la Bulgaria vorrebbe al più presto far parte. Si registra peraltro una certa delusione per il fatto che la maggiore attenzione degli occidentali è stata finora accordata a Cecoslovacchia, Polonia ed Ungheria. Aiuti economici comunitari hanno cominciato ad arrivare da quest'anno, ma non ancora il quantità molto rilevanti. Il Fondo Monetario Internazionale ha però stanziato 100 milioni di dollari, a testimonianza degli enormi passi avanti fatti nella riforma del sistema economico verso il mercato.

Il principale partner commerciale occidentale della Bulgaria è, e probabilmente continuerà ad essere, la Germania.

Politica Militare

A causa della sottomissione alla Turchia, manca forte tradizione militare, esercito crea una propria fisionomia politica e aristocratica solo verso la fine del XIX secolo. guerre del ventesimo secolo perse per alleanza con la Germania

Le forze armate bulgare ammontano intorno ai 150.000 uomini. Ottanta percento esercito, 15% forze aeree e solo 5% marina. Equipaggiamento obsoleto. La Bulgaria non mai ospitato truppe sovietiche sul proprio territorio, unico paese all'interno del Patto di Varsavia oltre alla bizzarra Romania di Ceausescu. Ciò è potuto accadere in gran parte perché il paese è lontano dalla zona più critica ai confini della NATO in Europa centrale. Ma probabilmente anche perché Mosca non ha mai ritenuto di dover aver bisogno di usare la forza per controllare il docile paese cosí come invece era il caso degli altri più a nord. Partecipazione simbolica all'invasione della Cecoslovacchia nel 1968, e minima alle manovre militari del patto.

Considerata tra le più affidabili alleate dell'URSS, sia per motivi ideologici, che etnici e culturali. molto sentito il fatto che fu la Russia a liberare il paese dall'impero ottomano nel 1878. Inoltre, le forze armate erano strettamente controllate dal partito. Oggi la maggioranza degli ufficiali cerca di professionalizzare la carriera militare, anche se non ci sono richieste di creare un'esercito professionale volontario.

I militari hanno assunto un ruolo propriamente controllato durante la trasformazione, e non si sono mai registrati tentativi di influenzare il corso degli eventi politici con l'uso della forza.

La sola minaccia militare dall'estero oggi potenzialmente rilevante per la Bulgaria viene dalla Yugoslavia, in caso di conflitto sulla questione della Macedonia. Secondo alcune fonti c'è oggi un riorientamento dottrinale delle Forze Armate in questo senso, mentre finora si erano limitate solo ad un allineamento incondizionato alle direttive sovietica emanate attraverso il Patto di Varsavia. Appare invece improbabile un conflitto con la Turchia, politicamente più stabile ed inquadrata nel contesto della NATO che probabilmente ne preverrebbe potenziali reazioni unilaterali. Diventa quindi essenziale ai fini della politica di sicurezza nazionale bulgara dirimere la questione macedone con le autorità federali e repubblicane della Jugoslavia.

La Bulgaria si è fatta anche promotrice di disarmo, e si segnala un'iniziativa in campo navale, quando il paese ha ospitato una conferenza delle Nazioni Unite su questo tema a Varna nel settembre del 1990. Queste iniziative appaiono soprattutto tese, dopo quarant'anni di grigiore diplomatico, a guadagnare al paese una certa visibilità nella politica internazionale. Dopo che per anni aveva speso per la difesa proporzionalmente di più della maggior parte degli alleati (6% circa) ora il bilancio militare è in diminuzione. Non è in verità chiaro di quanto, anche perché sussistono gravi problemi di contabilità e di calcolo dei costi, ma ufficialmente la riduzione è del 12%. Le forze armate nel loro complesso dovrebbero essere ridotte fino a 107.000 uomini, con l'eliminazione di 200 carri armati.

Prospettive

In generale, l'inizio della transizione alla democrazia in Bulgaria, pur se sviluppatosi senza il fragore internazionale di altri paesi della regione, promette bene. Sono stati raggiunti importanti risultati politici, ora si aspettano quelli economici.

Il problema più grave del paese nel medio periodo è quello dei conflitti etnici, che potrebbero compromettere l'opera di riforma economica e politica coraggiosamente intraprese. I recenti miglioramenti dei rapporti con la Turchia, ed il maggiore rispetto per la minoranza turca in Bulgaria, promettono una nuova fase potrebbe portare al superamento di diatribe ancestrali che molto danno hanno fatto in passato. Meno appariscente da una prospettiva occidentale, ma potenzialmente più grave, il problema della Macedonia, che potrà pero essere risolto solo con la collaborazione delle competenti autorità jugoslave.

Molto rimane da fare nella privatizzazione delle imprese, soprattutto per quanto riguarda quelle di più grandi dimensioni. Un altro problema è che con la liberalizzazione dei viaggi all'estero, si assiste ad una massiccia emigrazione di quadri qualificati, come avviene per altri paesi in condizioni simili quali la Polonia. Se si vorranno evitare pericolose "fughe di cervelli", il governo dovrà fornire ai quadri più qualificati del paese opportuni incentivi per farli rimanere e contribuire alla rinascita della nuova Bulgaria.

Altro fatto positivo è che esiste un buon grado di cooperazione tra le forze democratiche. L'anti-comunismo si è rivolto soprattutto al passato, molti anti-comunisti favoriscono invece la cooperazione con gli attuali socialisti. Non si vede in Bulgaria l'ostracizzazione di tutti quanti hanno avuto a che fare con il passato regime, e questo potrebbe costituire un elemento di costruttività nella fase di transizione.

Bibliografia

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Larrabee, F. Stephen: "Long Memories and Short Fuses: Change and Instability in the Balkans" in International Security, Vol. 15, No. 3, Winter 1990‑1991.

Shashko, Philip: "The Past in Bulgaria's Future" in Problems of Communism, Vol. XXXIX, No.5, September‑October 1990.

Braun, Aurel: "Small‑State Security in the Balkans" (Totowa, NJ: Barnes & Noble Books, 1983)

Moore, Patrick: "Bulgaria" in Rakowska‑Harmstone, Theresa (Ed.): Communism in Eastern Europe (Bloomington, IN: Indiana University Press, 1984, Second Edition).

1     I paragrafi che seguono si traggono in parte dalla relazione presentata da Stefano Bianchini al convegno "Europa 90", organizzato dall'Istituto Affari Internazionali a Roma il 25 novembre 1990.

2     Ci fu un'eccezione all'epoca di Dimitrov, quando questi si dichiarò disponibile a riconoscere l'esistenza della nazionalità macedone in vista della Confederazione balcanica con la Jugoslavia accarezzata negli anni 1944-1947. Ciò spiegherebbe perché ancora nel censimento del 1956 venne registrata la presenza di 187.789 Macedoni (più del 95% dei quali residenti nella regione del Pirin, dove costituivano il 63,8% della popolazione), mentre nel censimento del 1965 solo 8.750 persone si dichiararono Macedoni.