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25 May 1993

Conversazione sulla politica internazionale: nazionalismo, realpolitick, stabilità e cambiamento.

Oggi ho avuto una lunga conversazione con CM, un senior della dirigenza dello IAI, istituto dove lavoro come ricercatore. Si è parlato di stabilità e cambiamento negli scenari politici europei nei quali è chiamata a giocare le sue carte l'Italia.

Sonnenfeldt (al centro) con Kissinger

Il senior ragiona ancora con i criteri della guerra fredda. Pensa che la contrapposizione tra stabilità e cambiamento sia ancora una vera alternativa. In altre parole, favorire il cambiamento in Europa orientale, per esempio facilitando il loro accesso alla NATO, porterebbe a maggiore instabilità e rischio di conflitto con la Russia.

Penso che fosse così durante la guerra fredda, ed era facile (anche se un po' egoistico) per noi europei occidentali preferire la stabilità. Bastava ricordare cosa era successo nel 1956 in Ungheria, nel 1968 in Cecoslovacchia e nel 1981 in Polonia. Pensavo così anche io fino al 1989. Il cambiamento ci avrebbe portato pochi vantaggi, si diceva, e molti rischi. Quindi conveniva a noi lasciare l'Europa orientale prigioniera nel Patto di Varsavia, ma forse conveniva anche all'Europa orientale stessa, dato che l'alternativa sarebbe stata la repressione militare.

Mentre ovviamente di parere contrario erano quelli che, in Europa orientale, satelliti sovietici, avevano poco da perdere a rischiare il cambiamento.

Insomma era la "dottrina Sonnenfeldt", cui molti in Occidente credevano, ma pochi lo ammettevano allora e nessuno lo ammetterebbe oggi. Sonnenfeldt stesso non lo ammise mai in pubblico. Comunque, a torto o a ragione, il suo pensiero è stato così interpretato e da molti condiviso. Una volta lo incontrai ad una conferenza accademica e gli chiesi se lui veramente voleva lasciare l'Europa orientale ai russi in cambio della stabilità in Europa occidentale. Lui mi rispose un po' evasivamente, e poi purtroppo non ci fu tempo per approfondire.

Io penso però che oggi la contrapposizione tra stabilità e cambiamento sia diventata obsoleta. Oggi stabilità non vuol dire più mantenimento dello status-quo, ma gestione del cambiamento. In questo contesto, quindi, direi che la contrapposizione è piuttosto tra cambiamento e continuità.

In questo periodo va molto di moda parlare, o riparlare dopo tanto tempo, di interessi nazionali, della Realpolitik, anche da parte della sinistra che li ha sempre avversati nel nome dell'internazionalismo socialista. CM pensa ai nazionalisti come ai fautori della Realpolitik. Da questo punto di vista la Realpolitik è il legittimo perseguire dei propri interessi reali, concreti, a differenza di quelli ideali o morali. A questa Realpolitik, secondo lui, bisognerebbe contrapporre una politica multilaterale.

Bisogna invece dire che la Realpolitik italiana oggi richiede che si rafforzi il multilateralismo, perché un approccio unilaterale (cioè nazionalistico) sarebbe velleitario e perdente, soprattutto per un paese del peso dell'Italia.

In altre parole, è il nazionalismo ad essere idealista ed irrealista, mentre il multilateralismo offre le maggiori possibilità di raggiungimento di obiettivi di Realpolitik, cioè dei reali interessi dello stato italiano.

30 November 1992

Sviluppi in Russia e Yugoslavia

Comunità degli Stati Indipendenti

Nel periodo in esame si è assistito alla frammentazione dell'URSS e alla costituzione da parte di undici delle ex-repubbliche (escluse le tre baltiche e la Georgia) della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). La creazione della CSI è stata sin dall'inizio parvasa da ambiguità istituzionali: la sovrapposizione di competenze (ovvero il vuoto delle medesime) tra istituzioni della Comunità e dei singoli stati ha fatto sì che nel corso del 1992 siano rimaste in una sorta di limbo numerose e vitali questioni di carattere politico, economico e militare.

Dovendo semplificare, si nota come i problemi principali nella divisione hanno toccato in primo luogo il territorio e le minoranze etniche. Prima fra tutte si ricorda la contesa sulla Crimea tra Ucraina e Russia, ma nel sottofondo si intravvedono problemi ancora più gravi tra Russia e Kazakhstan e tra Moldova e Ucraina. La guerra tra armeni e azeri ha continuato a piagare il Caucaso meridionale, mentre in Georgia settentrionale sono esplose violentemente—anche se rimangono circoscritte—le rivendicazioni degli osseti e degli abkhazi.

In secondo luogo, le ex-repubbliche sovietiche hanno negoziato la ripartizione delle forze armate ex-sovietiche. In questo ambito si sono raggiunti accordi (la cui implementazione però richiederà tempo) sulla riassegnazione delle forze nucleari strategiche alla Russia (quelle tattiche sono state tutte trasferite in territorio russo durante la prima metà dell'anno) e sulla suddivisione delle quote di forze convenzionali cui aveva diritto l'URSS in base al trattato CFE.

Infine, numerose trattative sono state avviate sulla suddivisione delle infrastrutture ex-sovietiche, dei beni mobili e immobili e del debito estero. Alla fine del 1992, con tutte queste trattative ancora in fase di risoluzione o di implementazione, i rapporti tra gli stati della CSI rimangono caratterizzati da incertezza diffusa, anche se si prende atto che nessuna disputa connessa alla disgregazione sovietica è risultata ancora in guerra aperta tra le repubbliche. 

Per il 1993, le prospettive sono quindi contraddittorie. In alcuni settori, primo fra tutti quello militare, si prefigura una risoluzione del contenzioso sulla flotta del mar Nero ed una stabilizzazione del processo di ripartizione delle altre forze armate, che saranno comunque ridotte da tutti gli attori principali. Il problema più grave sarà invece quello di controllare l'esportazione del sovrappiù verso paesi terzi, che si sta già verificando e comporta seri problemi di proliferazione, specialmente in Medio oriente.

In altri settori il panorama è meno incoraggiante: si delinea chiaramente il fallimento della riforma economica in Russia, con gravi possibili conseguenze sociali. Il pericolo di un ritorno di fiamma autoritario, acceso da quella che sta diventando una bizzarra alleanza tra militari, burocrati ex-comunisti e nazionalisti di destra, potrebbe essere reso più grave dal disorientamento politico generale, dal crollo della popolarità di Eltsin, da contenziosi nazionalistici alla periferia della federazione e dalla mancanza di credibili alternative democratiche.

Relativamente stabilizzata la situazione nelle altre repubbliche europee, mentre verso est e verso sud si nota il ristabilimento, o meglio il mantenimento, di una forte influenza russa. In Asia centrale Mosca sta trovando una inaspettata intesa politica con la Turchia. In queste repubbliche, c'è un rafforzamento al potere degli apparati ex-sovietici, tutti contraddistinti, se pur in misura variabile, dall'inalberamento della bandiera nazionalista (o persino religiosa, si noti il battesimo del presidente goergiano Shevardnadze!) al posto di quella comunista.


Balcani

Contemporaneamente al disfacimento istituzionale dell'URSS, si ratifica nel gennaio 1992, con il riconoscimento europeo a Croazia e Slovenia, lo smembramento definitivo della Jugoslavia. Risolto il conflitto sloveno già nell'estate del 1991, quello croato si bloccava nel corso della prima metà del 1992 con un sostanziale stallo militare che vedeva le forze serbe occupare circa un terzo della Croazia e le forze del corpo di interposizione ONU (UNPROFOR) attestarsi in regioni contese della Croazia orientale e meridionale. 

Il riconoscimento senza condizioni, contrariamente a quanto raccomandato dallo stesso rapporto comunitario "Badinter", apriva la strada ad una complessa problematica regionale legata al rafforzamento del principio del diritto allo stato nazionale, precedente pericoloso e foriero di un'inestricabile matassa di irredentismi intrecciati. Il riconoscimento, voluto fortemente da Bonn, e contemporaneo all'inizio in dicembre di una politica monetaria tedesca generalmente percepita come in contrasto con gli accordi di Maastricht appena firmati, è stato un segnale importante anche in ambito intra-occidentale: ha segnato la prima decisa riasserzione della politica estera nazionale della Germania unificata.

In primavera si assisteva all'espansione del conflitto alla Bosnia-Erzegovina, riconosciuta dall'occidente in Aprile, con gli slavi musulmani stretti fra un'equivoca alleanza tra serbi, croati e milizie irregolari autoctone filo-serbe. Gli orrori di questo conflitto, particolarmente cruento e senza apparente solubilità, hanno fatto crescere un senso di frustrazione e di impotenza in Occidente, in contrasto con la motivazione che aveva spinto all'intervento contro l'Iraq nel 1991. Al crescente consenso sulla necessità di fare qualcosa, si abbinava infatti la realizzazione che un impegno militare sarebbe stato ben più impegnativo e pericoloso di quello in Kuwait dell'anno precedente.

Prospettive

L'Occidente ha sempre identificato la stabilità con il mantenimento dello status-quo: invece, appariva chiaro almeno dalla fine del 1990 che lo status-quo gorbacioviano non era stabilizzante ma comprimeva (ritardandola, ma allo stesso tempo rendendola più potente) una epocale esplosione dello stato e del partito. 

Gorbaciov ha svolto il suo ruolo storico nel dare il primo, decisivo scossone all' elefantiaco impero sovietico, ma non voleva (e comunque non avrebbe saputo) gestire la transizione verso la democrazia ed il mercato. 

Parimenti, l'Occidente appoggia oggi Eltsin nella convinzione che la sua caduta sarebbe foriera di destabilizzazione; ma Eltsin, che ha svolto il suo ruolo storico nel cancellare il regime sovietico, rivoluzionario di indubbie doti carismatiche e trascinatore di popolo, non è uno statista in grado di governare una democrazia. 

Il problema oggi per i democratici sovietici (che l'Occidente vorrebbe aiutare) non è mantenere al potere Eltsin ma trovare rapidamente un credibile successore.

Di fronte a queste difficoltà di Mosca, l'atteggiamento dell'Occidente è stato politicamente e soprattutto economicamente cauto. All'appoggio entusiasta verso l'ammorbidimento gorbacioviano del comunismo prima, e al colpo di grazia infertogli da Eltsin poi, non faceva infatti riscontro il massiccio impegno economico e finanziario che era stato richiesto dall'URSS prima e dalla Russia e dalla altre repubbliche poi. Gli aiuti economici sono stati esigui, e gli investimenti hanno stentato a decollare a causa dell'elevato rischio politico del paese.

17 November 1991

Mosca: incontro con E, deputato del Soviet Supremo russo

Mi racconta la sua visione del momento di trasformazione in corso:

Qui da noi la Russia vorrebbe fare società miste con l'Occidente per produrre beni poi esportabili nel Terzo Mondo. Abbiamo buone capacità tecniche ma mancano di conoscenze manageriali, di marketing, di finanza, pubblicità, ...

Presto la Russia toglierà all'URSS il controllo dell'emissione valutaria, Gorbaciov è irresponsabile a stampare moneta 24 ore su 24. La Russia accetterà tutto il debito estero dell'URSS, ma si prenderà anche tutti i crediti e tutte le proprietà all'estero.

I centro-asiatici vogliono restare nell'URSS più di quanto i Russi ce li vogliano tenere. Paura del fondamentalismo islamico, già in forte crescita. Problemi seri con le forti minoranze russe in quelle repubbliche, e specialmente in Kazakhstan, dove più della metà della popolazione è di madrelingua russa. (?)

L'islamismo naturalmente può avere idee democratiche, ma in pratica queste non prevalgono (vedi soprattutto Iran).

Non c'è pieno accordo oggi nel governo russo. Probabilmente sarà necessario un periodo di autoritarismo per governare. Questo sia contro le nazionalità ribelli sia per far accettare le riforme in Russia. Non si può continuare con il populismo che si è fatto finora. La volontà di riformare c'era in agosto, ma i nuovi democratici erano impreparati, non sono stati capaci di fare il loro lavoro. Successivamente è subentrata anche una mancanza di volontà politica, lo stesso Eltsin ha cambiato "cappello" (da comunista a capitalista) ma non la mentalità.

Molti non vogliono la privatizzazione perché preferiscono sfruttare una sorta di "privatizzazione illegale", si sta infatti vedendo come i vecchi direttori di fabbriche, di kolkhoz, ecc., possano ora governare di fatto (visto che manca l'autorità centrale) ma senza assumersi le responsabilità della proprietà che ricadrebbero su di loro in caso di privatizzazione. In pratica è una specie di mafia che sarà difficile spezzare.

15 November 1991

Incontro con O, ancora un politologo russo

Il coup dell'agosto 91 ha colto i democratici di sorpresa. Sono stati catapultati al potere, sono impreparati. Non hanno fatto molto finora, ma non si può semplicemente dire che abbiano perso tempo. C'è voluto tempo perché la gente digerisse gli eventi cataclismatici di agosto. Un po' di euforia è stata necessaria, è servita a far superare il trauma del golpe e a fornire nuova carica per andare avanti; ora però è svanita e bisogna lavorare.

La rivalità personale tra alcuni dei dirigenti Eltsiniani lo danneggia e fa perdere tempo. La sua "vacanza" di ottobre non è stata una buona idea, ma è servita a far maturare la decisione storica di procedere a "chirurgia (non semplice terapia) d'urto", e si dovrà anche fare a meno dell'anestetico!

Il complesso militare-industriale è ancora intatto, continua a consumare le stesse risorse di prima; la sua trasformazione è stata finora solo discussa, niente è stato però attuato.

Le cosa intanto peggiorano. C'è pericolo di un altro colpe? Non crede, non è così semplice. Non risolverebbe niente. Ora aspettiamo questo ultimo, disperato tentativo di implementare le riforme, ma non è sicuro che ci sarà tempo sufficiente. Non è neanche chiaro che ci sarà sufficiente accettazione da parte delle masse, anche se molti continuano a far riferimento alla infinita pazienza dei Russi. Potrebbero assorbire ancora sacrifici, sopportare ancora anche se sembra incradibile che già abbiano sopportato tanto.

Problema speciale per i militari. Il pericolo maggiore è che dalla disgregazione delle forze armate nascano gruppi scoordinati guidati da signori della guerra di tipo cinese.

14 November 1991

Incontro con O, politologo russo

Il centro sovietico è un ostacolo alle riforme. Per esempio, è irresponsabile continuare a stampare moneta 24 ore su 24 solo per finanziare (invece di curare) il deficit di stato, provocherà iperinflazione.

I prodotti agricoli spesso sono disponibili ma non raggiungono il mercato, le autorità locali sono deboli, non riescono a farsi rispettare dai produttori che preferiscono usare le merci per baratti, visto che il denaro è sempre più insignificante.

Oggi è utile solo un aiuto umanitario dall'Occidente, non altro. Il problema è la distribuzione, dovrebbe essere controllata direttamente dai donatori o saranno dispersi. Crediti finanziari sarebbero sprecati, non ci sono ancora le premesse di una efficace riforma economica.

Il centro sovietico potrebbe rimanere, ma con funzionalità minime: armi nucleari strategiche, coordinamento monetario, linee generali di politica economica, e relazioni economiche esterne. Gorbaciov insiste su una vera e propria politica economica interna comune, ma non è possibile, sta perdendo tempo.

Problemi ad una separazione pacifica dell'Ucraina. I confini attuali sono arbitrari, la Russia non li accetterà. L'Occidente deve essere cauto, non è stata una buona idea che la Turchia abbia "riconosciuto" l'Azerbaijan.

A febbraio organizzerà una conferenza internazionale sulla cooperazione tra i nuovi stati sovrani ex-sovietici, e richiederà l'apporto di esperti stranieri; ci farà sapere se ci può invitare come istituto italiano (IAI).

13 November 1991

Mosca: Incontro con P, esperto russo di disarmo

Mi racconta la sua visione della situazione in Europa.

Unione di sicurezza possibile con Ucraina e Belorussia, anche se ostacoli nel breve termine. Non è certo che Eltsin sarà adatto come leader politico, è un buon rivoluzionario ma non uno statista. Anche per Gorbaciov però non sarà possibile avere più che un ruolo simbolico. Più probabile una svolta autoritaria, oggi c'è molta richiesta per una "mano forte", ma non per un pensiero chiaro, che invece sarebbe più necessario.

Ruzkoi, il vice presidente, potrebbe succedere a Eltsin in primavera, Eltsin soffrirà politicamente dell'inverno difficile. Sarebbe stato più facile per lui iniziare le riforme prima, quando la popolarità era alle stelle, ora sarà più difficile.

La Russia e le repubbliche centro-asiatiche avranno difficoltà ad essere alleate nel lungo periodo. Ci sono troppe difficoltà nella visione dello sviluppo futuro nelle rispettive società. In Asia c'è un crecente fondamentalismo islamico, che porterà quelle repubbliche più vicino all'Iran. L'unione economica sarà più facile, gli interessi sono complementari.

La Russia ha ritirato non solo tutte le armi nucleari, ma anche tutto l'equipaggiamento corazzato pesante dal Caucaso. Dall'Ucraina sono state ritirate le testate dagli ICBM mentre si sta procedendo al ritiro delle tattiche che è ancora in corso. Nel Kazakhstan le testate nucleari tattiche sono custodite in zone popolate da russi, se i Kazaki tentassero di prenderne possesso si rischierebbe la spaccatura della repubblica, abitata in prevalenza da russi al nord e da kazaki al sud. I lucchetti di sicurezza esistono su tutte le testate (più o meno moderni), ma potrebbero essere neutalizzati da capaci ingegneri, mentre sarebbero efficaci contro eventuali furti da parte di terroristi o altri fanatici. É convinto che il presidente ucraino Kravchuk si debba mostrare più interessato alle testate nucleari di quanto non sia veramente per motivi politici interni. Difficile che insisterà troppo al di là del diritto di veto.

L'Occidente ha sbagliato a non insistere con i paesi baltici perché firmassero il TNP, e si impegnassero a non superare pro-rata le rispettive sotto-quote di zona per il CFE. Avrebbe costituito un precedente utile per l'Ucraina. Ciononostante la soluzione politica è probabile, perché è nell'interesse di tutti. La somma delle forze armate di tutte le repubbliche indipendenti sarà probabilmente inferiore al totale sovietico nel CFE.

12 November 1991

Incontro con S, politologo russo

Si parla della divisione dei beni sovietici tra le nuove repubbliche avviate all'indipendenza. L'Accademia della Russia (e non dei Russi, o russa), possiede il 95% delle risorse di quella sovietica, è logico che abbia assorbito la vecchia struttura.

Secondo lui Eltsin non è particolarmente interessato alla politica estera, i suoi consiglieri fanno fatica a fargli fare attenzione alla questione. La Russia dovrebe sostituire l'URSS nella maggior parte delle funzioni, ma non è chiaro se ci saranno veramente 15 stati indipendenti, secondo S. è più probabile un'aggregazione con molti di loro.

Quella di oggi in Russia è una vera rivoluzione, pacifica ma non per questo meno tale. Le cose sono destinate a peggiorare prima di migliorare, sia nelle relazioni tra le repubbliche che all'interno di esse. L'elemento determinante è l'Ucraina, ed è pericoloso perché la dirigenza è molto nazionalistica. Anche se potrebbe volere un deterrente nazionale in futuro, per ora Kiev vuole "acchiappare" le testate nucleari solo per avere una merce di scambio nel negoziato sull'indipendenza, e come status symbol. Si tratta in realtà di terrorismo di stato. Eltsin ad agosto aveva detto che avrebe "preso" le testate dislocate in Ucraina (altre fonti avevano detto che avrebbe "accettato" le testate offertegli da Kiev quando questi aveva detto di voler essere uno stato denuclearizzato).

Interessato a intensificare la collaborazione con l'Italia, ma non tramite i vecchi schemi dell'Accademia; si potrebbe invece fare del fund-raising insieme presso le fondazioni internazionali. Disposto anche a fare un'iniziativa multilaterale con Ucraina e Belorussia e magari altri.

Secondo S., se l'Ucraina si stacca uniltaeralmente dall'URSS, è la guerra. Non esiste, in realtà, l'Ucraina come tale, è stata una creazione artificiale dei Bolscevichi. Eltsin probabilmente ha i giorni contati, il suo successore sarà però ancora più debole e parimenti fallirà. Ciò creerà un'opportunità per una rinascita politica per Gorbaciov, visto che non ci sono peronaggi alternativi, e che potrebbe essere questa volta appoggiato dai militari, che vedrebbero in lui l'unica speranza di mantenere un ruolo preminente.

Il ruolo internazionale della Russia/URSS diminuirà, ma continuerà. Le repubbliche guardano alla Comunità europea per aiuti, staranno a sentire se Bruxelles dovesse minacciare sanzioni in caso di guerra. L'influenza che l'Occidente può avere è generalmente sottovalutata. Sta all'Occidente darsi da fare per auto-coinvolgersi di più degli affari interni sovietici.

C'è bisogno di allargare all'area ex-sovietica un sistema di sicurezza collettiva. Allargare la NATO fino agli Urali, anche senza magari integrare le forze sovietiche ed est europee nella struttura militare (á la francese o, meglio, alla spagnola). Altrimenti si dovrebbe irrobustire la Carta di Parigi.

Se il paese si frantuma, l'aiuto occidentale sarà ancora meno utile di oggi, si perderebbe nella inevitabile guerra economica tra le repubbliche. L'Ucraina lo sta capendo, è già più realistica di qualche settimana fa.

11 November 1991

Incontro con V e B, due economisti russi

Le riforme necessarie sono ben descritte nel programma di Eltsin. C'è chi dice che quelle dichiarazioni sono troppo belle per essere realistiche, ma ciò non toglie che siano comunque veritiere. Eltsin ha legato il suo destino politico alla realizzazione delle riforme, ed il fatto che tre mesi dopo il colpo di stato non abbia ancora realizzato un gran ché, e neanche si sia preparata una vera a propria tabella di marcia, potrebbe significare l'inizio della sua fine. La sua popolarità è già in rapido calo. Certo non lo ha aiutato l'aver (incomprensibilmente) pre-annunciato il recente aumento dei prezzi, che ha causato accaparramenti e risentimento. Lo stesso errore era già stato fatto da Rizhkov, ma la lezione non è bastata.

Gli ottimisti dicono che c'è oggi bisogno di una certa dose di autoritarismo per spingere le riforme. Per i pessimisti già è troppo tardi, si è perso tempo e le riforme sono inattuabili, si arriverà al crollo e forse allo stato d'emergenza.
Gli aiuti umanitari saranno molto importanti, ma non subito. Adesso servirebbero solo a rendere possibile ulteriori temporaggiamenti. Devono essere "sincronizzati" con le riforme. Gli investimenti occidentali continuano sotto forma di società miste, ma il loro numero è in diminuzione; inoltre solo un terzo circa sono effettivamente funzionanti, le altre esistono solo su carta.

Per il 1992 potrebbe non esserci più petrolio e prodotti in quantità sufficiente per l'esportazione. L'infrastruttura petrolifera è stata tascurata e danneggiata.
L'Ocidente fa bene a porre condizioni per cooperare in un mondo interdipendente, ma solo se le condizioni sono rilevanti alla cooperazione stessa, (rifiuto di linkage)

Rapporti con Giappone: rimane valida la proposta di Jakovlev, di internazionalizzare le isole e sfrutterne il potenziale economico insieme ai giapponesi: è una questione di creatività, serve salvare la faccia a Mosca (sovietica o russa) per poi dare comunque le isole ai giapponesi.

24 September 1991

Il Dopo Golpe in URSS

Uno strano Golpe

Il colpo di mano non è stato portato avanti con convinzione. Non appare chiaro, neppure in prospettiva, cosa gli otto volessero fare. Molte domande probabilmente resteranno senza risposta. Perché non hanno arrestato Eltsin e gli altri leader progressisti (solo il KGB ha brevemente rapito il capo dei sindacati liberi la mattina del 19 Agosto), ma anzi li hanno lasciati liberi di muoversi ed organiz­zare la resistenza? Perché non hanno disturbato le trasmissioni radio occidentali, che si sono rivelate la fonte più preziosa di informazioni per i moscoviti ed i leningradesi (oltreché per lo stesso Gorba­ciov)? Perché non hanno interrotto le comunicazioni telefoniche nazionali ed internazionali? non hanno chiuso le frontiere? hanno lasciato operare indisturbati i media internazionali? e la lista potrebbe continuare. Pensavano forse, con questa parvenza di legalismo, di guadagnare una qualche legittimità interna o internazionale? Forse sí, e almeno nel secondo caso ci sono andati abbastanza vicino a giudicare dalle reazioni immediate dell'Occiden­te (vedi oltre).

Il golpe in sé però non è stato una completa sorpresa per gli addetti ai lavori. Un colpo di mano dei militari, dell'apparato del PCUS e del KGB era stato paventato da molti studiosi nella let­teratura scientifica da più di un anno, sia in URSS che fuori. Proprio alla luce di questo pericolo, il leitmotif dell'atteggiamento occidentale verso l'URSS era stato di allungare il più possibile il corso politico e la carriera personale di Gorbaciov, cospargendolo di allori. Motivo di ciò il grande coraggio, ed i successi, di Gorbaciov in politica estera. Ad essi si deve anche la distanza presa in Occidente, pur con differenze, dai golpisti; mai in passato i governi e le opinioni pubbliche avevano preso posizione contro un cambio di regime in URSS (o in altri paesi comunisti). Si ricordi il 1964 con la destituzione di Khrushchev, o gli intrighi tra i membri del politbjuro degli anni '50, gli intrighi di palazzo nella Cina del dopo-Mao che lasciavano il resto del mondo indifferente.

Questo atteggiamento occidentale forse è stato anche utile fino all'inverno 1989-1990, cioè fino a quando Gorbaciov, nonostante la crescente impopolarità, poteva farsi forza del fatto, che non si stancava mai di ripetere, che non c'erano alternative proponibili al suo programma "centrista". L'alternativa in realtà c'era, ed era la restaurazione che i più, in URSS e fuori, temevano. Tuttavia, fino alla risurrezione politica di Eltsin nel 1989, la disillusione prodotta dal fallimento delle riforme economiche si traduceva in un diffuso appoggio popolare a chi sosteneva che col vecchio sistema, per quanti problemi ci fossero, almeno c'era stabilità sociale, il paese era (anche se solo apparentemente e forzatamente) unito, e c'era un minimo di sicurezza per il sostentamento (anche se a livelli sempre più bassi). In questa situazione, il sostegno occidentale rafforzava la leva politica interna di Gorbaciov.

Con l'inverno 89-90, però, i successi di politica estera non bas­tavano più a frenare il crollo della popolarità di Gorbaciov, e la perestrojka economica, cioè il tentativo di tenere in vita il meccanismo comunista con iniezioni disordinate di mercato, appariva definitiva­mente fallita. Cresceva la nostalgia delle masse per il minimo garantito dal vecchio sistema agonizzante. Tuttavia si profilava, per la prima volta nella storia russa, un'alternativa alla res­taurazione: l'abbandono del comunismo, propugnato dal leader politico che rapidamente diveniva il più popolare del paese, Boris Eltsin. Nel corso del 1990 e del 1991 lo spazio del centrista Gorbaciov si restringeva di giorno in giorno, ma adesso a vantaggio di Eltsin, dapprima ostracizzato dal PCUS e poi uscitone al 28 Congresso del partito nel 1989, e non più dei restauratori.

Ciononostante, Gorbaciov continuava a trattare i proponitori di riforme più radicali (i vari Abalkin, Shmeliov, ecc.) come temerari, e li frenava. Il Congresso dei Deputati del Popolo, ancora dominato dai conservatori in base alle quote assicurate al PCUS e affiliati nelle elezioni del 1989, li considerava degli irresponsabili, e li bloccava. I pochi imprenditori che si avvantag­giavano degli striminziti meccanismi di mercato introdotti (per esempio le cooperative) erano tacciati di essere avventurieri o, peggio, in russo, "speculatori" cioè una sorta di nuovi sfruttatori del proletariato; le strutture statali li ostacolavano come potevano, amministrativamente e fisicamente.

In questo contesto, il golpe si interpreta come il colpo di coda dei restauratori che sapevano di essere già deboli ma sapevano anche che il fattore tempo giocava contro di loro. Il semplice tornare indietro diveniva, grazie al vaso di Pandora aperto dalla glasnost, che aveva rivelato i lati peggiori del Brezhnevismo, sempre più improponibile. Alternativamente, andare avanti sulla strada di Gorbaciov, ma magari più gradualmente per attutire l'impatto delle inevitabili dislocazioni sociali nel passaggio al capitalismo, non avrebbe risolto alla radice i problemi. Inoltre, non era abbastanza per convincere le masse, e con la glasnost le masse contano più nel 1991 che nel 1917. Infine, la violenza bruta per reprimere gli scontenti non bastava più. Non si sarebbe trattato qui di massacrare qualche centinaio di giovani audaci, come fu per i cinesi a Tiananmen: come dimostrato dai fatti d'agosto, una repressione armata portata avanti con convinzione non sarebbe stata né rapida né facile: si sarebbe scontrata con le masse di tutte le città dell'Unione, e sarebbe probabilmente stata la guerra civile.

Tuttavia, dalle elezioni di Eltsin a presidente del Soviet russo (aprile 90) in poi, era chiaro che c'è un'alternativa praticabile alle mezze riforme della perestrojka: non andare indietro, e neanche rallentare, ma andare avanti a tutto gas, fare il salto nel buio. I rischi erano e rimangono enormi, ma c'era la speranza di un cambiamento reale, di poter migliorare. Era anche chiaro che questa alternativa godeva di larghissimo consenso popolare che aumentava man mano che si continuavano a rimandare i passi decisivi. Oggi, questa speranza è in parte fondata sull'illusione che dalla situazione attuale non si può che migliorare; sull'importanza di questa illusione per il futuro ritornerò in seguito.

Reazioni internazionali

Nel complesso, a parte la patetica euforia espressa per poche ore da Gheddafi, Arafat, Castro e Saddam Hussein, e la malcelata soddisfazione dei cinesi, il golpe non ha raccolto i consensi e neanche l'acquie­scenza che forse gli autori si aspettavano. D'altro canto, non c'è stata neanche l'opposizione decisa che la sua illegalità avrebbe meritato. Nelle prime ore, l'Occidente, con l'eccezione di Gran Bretagna e USA, è stato a guardare, attonito.

Per esempio, si è registrata una certa passività da parte italiana, con De Michelis che la sera del lunedí del golpe, ad una domanda su che posizione avrebbe preso l'Italia, prudentemente rispondeva solo che Roma avrebbe "aspettato una decisione europea", senza peraltro neanche dire quale sarebbe stato il contributo italiano alla formazione di tale decisione. É stato probabilmente alquanto singolare, dal punto di vista degli osservatori stranieri, che siano stati la Presidente della Camera, la (ex-)comunista Iotti, ed il radicale Pannella ad elogiare il presidente (Repubblicano) Bush e il Premier (Conservatore) Major per essere stati i primi a prendere una posizione chiara contro l'inco­stituzionalità del golpe.

Neanche il giorno dopo i ministri degli esteri dei dodici prendevano una posizione netta, limitandosi alla sospensione degli aiuti economici promessi; si sarebbe almeno potuto dire che non si riconosceva la giunta (se questa avesse vinto si sarebbe sempre fatto in tempo a riconoscerla in seguito, così come si è fatto in passato con tanti regimi autoritari altrove). Invece, anche la posizione comunitaria è stata improntata al temporeggiamento. Se non sorprende la non inusuale passività italiana, deludente è stata anche quella tedesca, solo in parte giustificabile dalla necessità per Bonn di continuare, comunque e con chiunque, a far defluire le rimanenti 300.000 truppe sovietiche dal proprio territorio.

Più tempestività da parte americana e inglese, (giustifacata forse da maggiori informazioni sulla debolezza dei golpisti di quante non ne avessero gli altri europei?) che hanno forse contribuito ad indebolire ulteriormente la base di appoggio già traballante dei golpisti. Già poche ore dopo il golpe, Bush e Major sospendevano tutti gli aiuti all'URSS. Circa 24 ore dopo il golpe Washington dichiarava di non riconoscere il nuovo governo in quanto incostituzionale. Informato det­tagliatamente sugli sviluppi interni ed esteri tramite la BBC e Voice of America, il popolo russo è stato incoraggiato a seguire Eltsin in quello che è stato una sorta di contro-golpe, durante e subito dopo il quale il presidente russo si è subito arrogato molti dei poteri lasciati di fatto vacanti dalla prigionia di Gorbaciov.

Il controllo delle forze nucleari

Molto si è detto riguardo al problema del pericolo di un'even­tuale perdita di controllo centrale delle circa 30,000 testate nucleari sovietiche in caso di distacco delle repubbliche o di stravolgimenti al vertice politico del paese. In realtà questo pericolo è stato esagerato nella stampa italiana, mentre dopo un primo momento di smarrimento nei giorni del golpe è stato general­mente ridimensionato in quella internazionale.

Una notizia che forse più di ogni altra ha preoccupato gli Occidentali nelle prime ore del Golpe è stata che i golpisti avevano sottratto a Gorbaciov la valigetta con i codici per l'armamento delle testate nucleari sovietiche. Queste preoccupazioni sono state generalmente esagerate, ed infatti i comandi militari americani, i più interessati e dettagliatamente informati, hanno sempre negato che esistesse motivo di preoccupazione. I paragrafi che seguono vogliono fornire un sintetico inquadramento cronologico su come i sovietici hanno curato la custodia delle armi nucleari.

Il controllo delle testate nucleari sovietiche è stato nelle mani del KGB sin da quando l'URSS iniziò gli studi di fattibilità sulle armi nucleari nel 1943. Il controllo del KGB rimase assoluto fino al 1953. Alcune fonti dicono che sia stato Stalin in persona a volere ciò in quanto non si sarebbe fidato di altri. Nel 54 la produzione delle testate venne devolta al Ministero delle Macchine Utensili, ma il KGB continuava a custodire i prodotti finiti ed a curare il loro trasporto.

L'esclusività della custodia venne solo parzialmente diluita verso la metà degli anni settanta, quando i primi missili intercon­tinentali a combustibile solido furono messi in stato di allerta (e quindi dovettero essere caricati delle testate) 24 ore su 24. Gli ufficiali della Forza Missilistica Strategica (la più prestigiosa delle forze armate sovietiche) operavano i centri di controllo del lancio assieme agli ufficiali del KGB, che mantenevano ciascuno il proprio canale di comunicazione riservato con Mosca. Di norma, 2 ufficiali KGB e 2 della Forza Missilistica controllano ciascun centro di lancio. Fino agli anni settanta nessuna testata nucleare era spiegata fuori dal territorio dell'URSS, poi ne sono state spiegate in Europa orientale, anche se non si sa esattamente da quando.

Già nel 1962 gli USA offrirono ai sovietici i meccanismi di controllo elettronici che erano in via di installazione nelle testate nucleari americane in Europa (i cosiddetti PAL: Permissive Action Links), ma i sovietici rifiutarono. Nel 1965 la Commissione presi­denziale sulla proliferazione (Commissione Gilpatric), suggerì al presidente Johnson che sarebbe stato nell'interesse degli americani insistere che i sovietici adottassero i PAL, ma senza esito. Ancora nel 1971, durante i negoziati sull'Accordo per le Misure per Preveni­re gli Incidenti (Accident Measures Agreement) gli americani of­frirono e i sovietici rifiutarono. In conclusione, gli USA non fornirono mai aiuti tecnologici per i sistemi di controllo nucleare sovietici.

Questo non vuol dire che i sovietici non fossero preoccupati dal pericolo di uso accidentale (non autorizzato o involontario). L'ambasciatore all'ONU Sobolev, già nel 1958 aveva espresso preoc­cupazione che i piloti dei bombardieri nucleari delle due super­potenze (che allora operavano di routine una forza in stato di allerta in volo) potessero fraintendere manovre della parte avversa come preparazioni ad un attacco. Il telefono rosso, installato dopo la crisi di Cuba, avrebbe costituito un primo passo per evitare malintesi a questo riguardo.

I sovietici comunque provvedettero ad installare lucchetti elettronici nelle loro testate. Nel 1984 un articolo del comandante delle Forze Missilistiche V.F. Tolubko e nel 1986 un articolo nelle Izvestiya, indicavano l'esistenza di meccanismi che "assicurano la sicurezza delle operazioni" e "escludono completamente la pos­sibilità di operazioni non autorizzate" tramite "equipaggiamento elettronico e computerizzato" e sistemi di "controllo a distanza automatico" negli ICBM. Lucchetti anche in tutte le armi tattiche assegnate all'esercito, ed anche qui il KGB esercitava controllo fisico e custodia.

I sovietici criticano invece la mancanza di tali strumenti negli SLBM e nelle armi nucleari tattiche navali americane. Il generale Chervov, Capo del Dipartimento Affari Esteri del Ministero della Difesa sovietico, nel 1989 dichiarava a chi scrive che i sottomarini e le navi da guerra sovietici invece i lucchetti li hanno, e che quindi dovrebbero ricevere via radio i codici di lancio (per i sottomarini, questo potrebbe voler significare la necessità di emergere). Anche in marina è stato finora importante il ruolo degli ufficiali politici di bordo nella procedu­ra di lancio, che richiede sempre l'intervento di più individui. L'ufficia­le politico era il respon­sabile con le autorità locali del sot­tomarino che si arenò sulle spiagge svedesi nel 1981.

Il controllo centralizzato del KGB è dunque sempre stato assoluto e centralizzato per tutte le testate. Nessuna possibilità quindi per eventuali truppe ribelli o appartenenti a repub­bliche secessioniste di impadronirsi dei codici. In ogni caso, la armi nucleari tattiche erano già state ritirate da oltre due anni dalle repubbliche caucasiche e baltiche (a seguito dei disordini etnici nel primo caso e della paventata secessione nel secondo).

Diverso il problema di una eventuale usurpazione di potere da parte di autorità golpiste, centralizzate sì, ma non legittime. Bisogna tenere presente che non basta solo sottrarre la valigetta al presidente per ordinare un eventuale lancio di missili. Anche il Capo dello Stato Maggiore Generale dovrebbe essere coinvolto, e così pure tutti i livelli della catena di comando subordinati, fino agli ufficiali di ogni singolo centro di controllo; non ultimi, gli ufficiali addetti alla comunicazione dei codici stessi. Inoltre, tutte le esercitazioni sono basate su procedure che comportano una "generazione" della forza in base a informazioni di avvistamento lontano (early warning), e sarebbe quindi difficile per una qualsiasi autorità, anche legittima, ordinare un'allerta e un lancio nucleare come "un fulmine a ciel sereno": i subordinati probabilmente non eseguirebbero. Tali procedure esistono del resto anche negli USA, e sono state create per prevenire un lancio di missili da parte di un presidente che, pur legittimamente eletto, potrebbe improvvisamente impazzire. Nel caso del golpe sovietico, è apparso subito che le forze armate non erano compatte dietro ai golpisti, e quindi sarebbe stato estremamente improbabile che un eventuale ordine di lancio sarebbe stato eseguito.

Inoltre, per quale motivo avrebbe dovuto l'Occidente preoc­cuparsi in modo speciale di un controllo nucleare da parte di un regime sovietico golpista? Forse che in quanto illegittimo avrebbe più ragioni di usarle o di minacciarne l'uso? E' evidente che in una situazione di stravolgimenti istituzionali che coinvolgono i militari di una potenza nucleare è necessario porre massima atten­zione ad eventuali cambiamenti nel comportamento usuale (stato di allerta, movimenti di testate, approntamento di lanci di prova, comunicazioni, ecc.). Così gli americani (e forse altri) hanno fatto, e non ci sono stati comportamenti anomali che abbiano suscitato motivi di preoccupazione.

Prospettive in URSS

Tratterò qui delle prospettive nel breve e medio termine dell'URSS alla luce degli eventi delle scorse settimane. Per prima affronterò la questione dei nuovi rapporti tra le repubbliche, quindi quella della nuova struttura istituzionale che si sta creando nel paese ed infine il problema delle riforme economiche. L'ordine non è casuale, ma dettato dal rapporto di dipendenza causale che lega le riforme alle istituzioni e queste, a loro volta, ai rapporti di forza tra le repubbliche.

Grande Russia

Nei rapporti di forza e di grandezza tra le repubbliche, qualunque sia l'unità di misura adottata, il predominio della Russia è schiacciante. Si nota anche la forte presenza etnica dei grandi russi anche nelle altre repub­bliche, dove vivono 25 milioni di russi, e segnatamente in Ucraina e Kazakhstan, le due più impor­tanti repubbliche dopo la Russia stessa. Si deve peraltro ricordare come questa superiorità numerica sia in rapidissima diminuzione, visto che i Russi (così come del resto tutte le altre etnie slave, soffrono di una crescita demogra­fica fortemente negativa. Basti ricordare a questo proposito come secondo alcune autorevoli stime, dati i tassi di fertilità indicati nel grafico, entro l'anno 2000 il 30% dei coscritti delle forze armate sovietiche proverranno dall'Asia centrale. Ulteriori studi compiuti dopo le stime ufficiali del 1986 portano quella percentuale fino al 45%-50%.

Sembra dunque che, a meno di una separazione politica dell'A­sia centrale, si vada verso un'URSS più realmente multirazziale e quindi meno russificata, non molto diversa dagli USA dopo le immigrazioni soprattutto dall'America latina (ma anche dall'Asia) che si sono assommate a quelle precedenti dall'Europa e dall'Africa. Gli USA stanno diventando rapidamente uno stato bilingue; la diversità tra le lingue asiatiche sovietiche impedirà la formazione di un equivalente sovietico dello spagnolo in America, ma la derussificazione è già cominciata da qualche anno e subirà un'accelerazione.

Anche le risorse produttive e naturali sono principalmente concentrate in Russia (anche se la rete di trasporto delle medesime attraversa anche Ucraina e Bielorussia). Dal punto di vista del reddito, la Russia è di gran lunga non solo la repubblica più ricca, ma anche la finanziatrice dei consumi di tutte le altre repubbliche (fatta eccezione per la Bielorussia, il cui contributo netto di risorse al resto dell'Unione è però quantitativamente di importanza marginale, e le ex-repubbliche baltiche).

Questa centralità russa si è riflessa anche nell'interesse degli investitori stranieri verso la Russia. Da non sottovalutare a questo proposito la perdita dei baltici, nei quali la quantità di società miste fondate era molto più significativa del loro peso relativo nell'economia dell'URSS.

Rapporti tra le repubbliche

Partendo da questa centralità russa, quali rapporti si potranno instaurare con le altre repubbliche? Una possibilità cui molti hanno dato credito è una struttura multi-bilaterale a ragnatela, che in pratica sarebbe stellare con la Russia al centro, e con i contatti orizzontali tra altre repubbliche ridotti a livello marginale.
Questa sarebbe però estremamente inefficiente e farraginosa per la gestione delle risorse comuni e indivisibili (rete fer­roviaria e gasdotti, oleodotti, centrali nucleari...). Per la divisione dei beni reali, come le riserve auree, i crediti (e i debiti) con l'estero, le flotte aerea e rotabile, le forze armate, ecc. eventuali calcoli di compensazione sarebbero difficilissimi. Inoltre, eventuali divisioni sarebbero fattibili solo al prezzo di enormi inefficienze, sia per la perdita di economie di scala, sia per la necessità che insorgerebbe di duplicare le infrastrutture ed i quadri oggi in comune. Sarebbe problematica anche la "divisione" dei rapporti economici con l'estero.

Il problema si pone innanzitutto con i paesi baltici. Questi rivendicano il diritto ad essere compensati per quanto danno il sistema sovietico ha loro procurato e per quanto hanno esportato verso il resto dell'unione dei loro prodotti di qualità relativa­mente più alta. Mosca controbatte che i baltici hanno usufruito di materie prime a prezzi politici. Ci sarà probabilmente un accordo per cancellare le rispettive rivendicazioni, così come è stato tra l'URSS e gli ex-satelliti del Patto di Varsavia.

In alternativa all'ipotesi multibilaterale, prevarrà probabil­mente la più realistica ipotesi confederativa, verso la quale i più recenti avvenimenti, soprattutto in materia di politica di sicurez­za, sembrano puntare. Di fatto comunque rimarrà un ruolo preponderante per la Russia.

Nell'immediato futuro, inevitabilmente fluido, molto dipende dall'atteggiamento di Eltsin: sin dai primi momenti del dopo-golpe, la sua scelta è stata tra il rimanere come capo del più forte stato di una confederazione, che potrebbe forse dominare in virtù di accordi bilaterali che non potrebbero mai essere paritari. In alternativa, egli potrebbe aspirare, forte della nuova statura pansovietica ed internazionale conquistata durante il golpe, a diventare il nuovo Capo dell'URSS. Alcuni suoi atti fanno sembrare che preferisca rimanere capo della Russia (vuole una guardia nazionale, ha "nazionalizzato" alla repubblica russa le fabbriche nel territorio, la Pravda, ha "acce­ttato" le armi nucleari dislocate sul territorio dell'Ucraina, ecc. tutti atti dettati dall'emotività del momento e di dubbia legittimità.

Più probabile che prevalga il realismo e quindi l'ipotesi con­federativa, d'accordo con Gorbaciov. Lo Eltsin statista, al contrario dello Eltsin rivoluzionario, non è ancora formato, non può reggere il peso dell'unione da solo, e probabilmente neanche il peso internazionale del post-URSS. Ha quindi bisogno di Gorbaciov.

Ma anche Gorbaciov ha bisogno del carisma e del sostegno popolare di Eltsin, che lui non ha più in quantità sufficiente. Eltsin potrebbe inoltre servirgli anche da capro espiatorio quando si tratterà, fra molto poco, di mettere da parte le bandiere ed i cartelloni e rimboccarsi le maniche. Ci si deve chiedere infatti, se potrà l'entusiasmo della rivoluzione di agosto reggere sufficiente­mente a lungo per far sopportare non tanto lo smembramento del paese, quanto le dislocazioni sociali ed i sacrifici che, ancora una volta, i popoli sovietici sono inevitabilmente chiamati a soppor­tare?

Futuro ruolo delle istituzioni

Al fallimento del golpe è corrisposta una svalutazione immediata degli organi di stato creati da Gorbaciov negli ultimi anni, senza libere elezioni ed ancora dominati dal PCUS. Primo fra tutti il Congresso dei Deputati del Popolo, che pure aveva significato un notevole passo avanti in termini di rappresentatività popolare politica, ma che aveva rivelato i suoi limiti: in primo luogo perché non era stato capace di legiferare le riforme, e poi perché non ha né evitato e neanche condannato il golpe. Anzi, il presidente Lukyanov lo aveva quantomeno favoreggiato. Alla diminutio politica Gorbaciov corrispondeva anche il declino degli organi da lui preposti a coadiuvarlo alla presidenza (Consiglio di Sicurezza e Consiglio della Federazione).

Tre nuovi organi provvisori sono stati creati, che dovrebbero governare fino all'elezione diretta della prossima legislatura, che questa volta sarà su liste multiple e senza quote prefissate per nessuno. Il Consiglio di Stato, presieduto dal Presidente dell'URSS e comprendente i 10 presidenti delle repubbliche che hanno accettato di farvi parte (tranne i Baltici, Moldavia e Georgia), che dovrà governare gli affari inter-repubblicani. Il Comitato Economico Inter-repubblicano, costituito da rappresentanti delle repubbliche per la gestione delle riforme economiche. Il nuovo Soviet Supremo, bicamerale, formato da un consiglio delle repubbliche (20 rappresentanti per repubblica) e da un Consiglio dell'Unione (membri eletti da distretti di pari popolazione su tutto il territorio dell'Unione) che fungerà da legislatore.

I prossimi mesi diranno se queste istituzioni si consolideranno o se seguiranno il destino delle molte altre inaugurate negli ultimi due-tre anni ma poi arenate e disciolte sulle secche dell'inerzia burocratica prima di poter sortire effetto alcuno (e prima delle elezioni libere).

Il partito è stato stroncato, ma è probabile una qualche forma di partito socialista si riformerà presto, soprattutto tra i "perdenti" della ristrutturazione che potranno presto contare sull'appoggio di almeno una parte di quanti soffriranno delle dislocazioni inevitabili con le riforme.

Diminuito anche il ruolo politico delle Forze Armate, che si appoggiavano al partito, con cui erano tutt'uno. Il complesso militare-industriale (forze armate e industrie della difesa) rimane comunque un importante centro di potere, anche perché dovrà co-gestire la riconversione industriale. Il prestigio popolare coltivato per decenni sulla gloria della Grande Guerra Patriottica non si è eroso con la mezza complicità nel golpe; anzi ci si rende conto che è stato proprio grazie ai militari che non si sono associati al golpe che questo è fallito. Inoltre per l'URSS (o Russia o cos'altro) rimangono potenziali minacce militari concrete. Oltre alla potenza dei paesi NATO, rimane la Cina (cui si potrebbe risvegliare l'appetito riguardo alla Mongolia), potenzialmente l'Iran (specialmente se vanno in ebollizione i popoli centro-asiatici) ed in prospettiva il Giappone. Con l'inevitabile fine dell'accesso privilegiato alle risorse, è probabile una gestione più pragmatica e meno settaria delle forze armate. Dovrebbe essere imminente la nomina di un civile a ministro della difesa.

Anche nel caso del KGB la simbiosi con il partito era la sorgente del potere. A differenza del partito, tuttavia, è però ovvio che un servizio segreto dovrà pur riformarsi in tempi rapidi, anche se sarà diviso e quindi più debole. Già decisa la divisione tra responsabilità interne ed internazionali (all'occidentale), il KGB è stato anche già privato delle forze armate autonome (che erano ufficialmente truppe di frontiera ma potevano essere usate anche per scopi diversi). Gli sarà anche tolto il controllo delle testate nucleari, che passerà, anche qui secondo quanto avviene nelle potenze nucleari occidentali, alle Forza Armate interessate e sottoposte al comando dell'autorità civile.

Implicazioni per l'Occidente

Aiuti occidentali all'URSS

È necessario distinguere tra aiuti d'emergenza, per superare la possibile carestia di quest'inverno, e aiuti strategici, per aiutare il paese a porre le basi per una crescita duratura. Quanto ai primi si parla essenzialmente di aiuti alimentari (difficile pensare di dover aiutare il maggior produttore mondiale di energia a superare un inverno freddo, e neanche si può pensare, nell'immediato, di aiutarli a portare i gasolio dalle raffinerie alle case!). Questi saranno utili forse come palliativo nel breve termine, ma certamente non decisivi. Oltre un certo limite, che non è facile definire, potrebbero addirittura essere controproducenti, per esempio se porteranno ad una diminuzione del reddito del settore agricolo, che dovrà essere il motore principale della ripresa sovietica. Accanto ai sacchi di grano, sarebbe forse più utile inviare strutture di trasportatori e tecnici specialisti agroalimentari per aiutare i sovietici a raccogliere, trasportate, conservare e non far deperire i raccolti. E' cosa nota che di norma in URSS si spreca fino al 30% circa dei raccolti, più di quanto non se ne importi dall'estero. Per esempio, la produzione di grano dovrebbe essere quest'anno intorno alle 250 milioni di tonnellate, ma si stima che meno di 200 milioni saranno effettivamente utiliz­zabili; le stime delle importazioni sono nell'ordine delle 40 milioni di tonnellate, ma destinate ad aumentare a causa dell'accaparramento generalizzato che si sta verificando in tutto il paese.

L'idea di Delors, appoggiata dalla Francia, di finanziare acquisti sovietici di grano dall'Europa orientale potrebbe essere buona, ma chiarendo che si tratterebbe di una una tantum eccezionale per quest'anno, altrimenti si rischierebbe di dover istituzionalizzare i sussidi all'agricoltura dell'ex-Comecon, anche qui con pericolo di inibirne la ristrut­turazione.

Per quanto concerne gli aiuti "strategici" le cose stanno diversamente. In molti in occidente, e tra questi il nostro ministro degli esteri De Michelis, dicono che il golpe prova due cose: in primo luogo, che gli occidentali sono stati troppo cauti negli aiuti in passato, e che per questo motivo l'URSS è andata vicino alla catastrofe. I paesi in­dustrializzati dell'Occidente dovrebbero ora avere imparato la lezione ed essere più pronti a spendere e a rischiare. Questa asserzione si basa sul postulato, difficile da dimostrare, che maggiori aiuti, per esempio dal G7 di Londra, avrebbero impedito il golpe, che era stato invece preparato da molto tempo e per motivi ben più fondamentali che non la mancanza di aiuti occidentali.

Secondo, De Michelis sostiene che la perestrojka sia ormai irreversibile e che quindi bisogna iniettare risorse nell'economia sovietica e rischiare insieme a loro (fare cioè una "joint-venture come avventura comune" ha detto traducendo liberamente dall'inglese il ministro), altrimenti sarebbe troppo facile arrivare dopo, quando le riforme sono già consolidate, solo a raccogliere i frutti. Questa posizione si fonda sull'assunto che gli occidentali debbano in qualche modo "meritarsi" oggi l'accesso all'Eldorado che l'URSS rap­presenterà quando le riforme avranno sortito il loro effetto. Ma sarà proprio allora che i sovietici avranno maggiore bisogno delle risorse occidentali, che potranno mettere a buon frutto, non prima. Questo momento potrebbe essere, col crollo dei cardini del sistema pianificato, molto più vicino di quanto non potesse sembrare due mesi fa. Si può anzi sostenere che fino ad ora quegli aiuti che sono arrivati hanno contribuito a mantenere artificialmente in vita il vecchio sistema malato e quindi a ritardare le riforme.

In ogni caso, più che di risorse l'URSS ha bisogno di conos­cenze tecnologiche e soprattutto organizzative e manageriali, delle quali manca completamente. Anche i pochi settori dove la tecnologia sovietica è all'avanguardia (per esempio nello sfruttamento dello spazio, che gli occidentali potrebbero usare a fini commerciali nel breve termine) non sono stati sfruttati economicamente come potreb­bero per mancanza di imprenditorialità.

L'URSS (a differenza degli altri paesi ex-comunisti o di quelli in via di sviluppo del terzo mondo) dispone di ricchezze nazionali in abbondanza. Molti economisti sovietici lo ripetono da anni. Queste ricchezze sono immediatamente disponibili alla dirigen­za del Cremlino (russa o sovietica che sia) e a quelle delle repubbliche in varie forme. Prima di tutto come risorse naturali petrolio, gas, la cui produzione è in calo ma sempre elevata e che potrà aumentare rapidamente appena si creeranno le condizioni legislative per favorire il coinvolgimento delle industrie occidentali nell'esplorazione e nell'estrazione. Il risparmio energetico, tramite una più realistica politica dei prezzi, potrebbe inoltre far diminuire l'intensità energetica della macchina sovietica, rendendo maggiori quantità di idrocarburi disponibili per l'esportazione.

In retrospettiva, gli sviluppi nell'industria dell'energia rivelano come sia stata giusta la scelta europea, contro le obiezioni americane, di favorire l'allargamento della rete internazionale di idrocarburi provenienti dall'URSS come strumento per spingere il paese verso l'interdipendenza economica. Oggi l'URSS non può, qualunque sia il suo regime, fare a meno di vendere idrocarburi all'Occidente, e l'ipotesi americana di un ricatto politico con la minaccia di chiudere i rubinetti fa solo sorridere. In generale, gli europei rimangono i più forti investitori anche se ora, con la probabile definizione della disputa sulle Curili, verranno fuori i giapponesi.

In secondo luogo, l'URSS dispone di ricchezze sotto forma di beni di proprietà dello stato che sono sottoutilizzati da decenni (prima di tutti la terra nel settore produttivo e le case in quello privato) che potrebbero essere venduti ai privati, sia stranieri che locali (in quest'ultimo caso si otterrebbe anche il risultato di ridurre l'attuale eccesso di liquidità e quindi la pressione inflazionistica nel paese). Non è possibile stimare con esattezza gli introiti che deriverebbero da una massiccia vendita di tali beni, ma sarebbero sicuramente enormi.

Infine l'URSS potrà attingere risorse dalla riconversione dell'industria bellica, anche se non nel breve termine. La conver­sione è nella maggior parte dei casi costosa e quindi economicamente inefficiente, può essere infatti più costosa della costruzione di impianti civili da zero. Inoltre è costosa anche in termini sociali (dislocazione del corpo ufficiali e immissione sul mercato del lavoro dei coscritti, necessità di costruire abitazioni, ecc.). Con il ritiro dall'Europa orientale, le riduzioni negoziate nel CFE e quelle unilaterali, la probabile riduzione della ferma di leva, si possono stimare almeno 300.000 ufficiali (con annessi 600.000 familiari) e forse 1 milione di soldati.

Anche privatizzare l'industria "militare" (cioè sotto il controllo dei ministeri militari) che rimarrà (oggi occupa il 35% della manodopera) potrebbe portare a maggiori efficienze, anche se bisogna considerare che già oggi il 40% della produzione controllata dai ministeri dell'industria bellica è destinata al mercato civile (secondo i piani questa percentuale dovrebbe salire al 60% entro il 1995): dunque il cambiamento sarà importante ma non decisivo.

Dare troppo peso alla potenzialità della riconversione equivale a dare credito alla politica reaganiana di mettere l'URSS alle corde. Invece l'URSS ha cominciato a cambiare dopo che Reagan, a partire dal 1985, aveva assunto un atteggiamento più conciliante. Nel 1985 anche Gorbaciov al potere, ma è difficile dimostrare che avrebbe potuto far passare la sua politica estera distensiva se Reagan avesse continuato a parlare dell'URSS come "l'impero del male".

Riassumendo, a parte gli aiuti d'emergenza alimentari, gli aiuti occidentali devono essere di carattere più strategico e devono consistere più nel trasferimento di conoscenze tecnologiche e manageriali che non di risorse economiche e finanziarie. Un ulteriore allentamento dei controlli COCOM sembra indispensabile, anche se non sarebbe utile esagerare con l'ebbrezza da tecnologia che spesso ha colto paesi di rapida industrializzazione che hanno sperperato risorse per comprare tecnologie che poi non sapevano assorbire, duplicare o disseminare internamente. Comunque, sarebbe sbagliato aumentare gli aiuti senza insistere nelle riforme, unica garanzia del risanamento dell'economia e quindi di stabilità futura. La volontà politica di farle c'è, ma non sarà facile, e bisognerà vedere se il prestigio politico di Eltsin e l'entusiasmo generato dalla nuova garanzia di libertà saranno sufficientemente duraturi da far sopportare i duri e protratti sacrifici.

In conclusione, l'Occidente negli ultimi anni ha pensato che fosse più importante un'URSS accomodante sul piano internazionale con la quale fare accordi di disarmo e risolvere conflitti nel terzo mondo che un'URSS economicamente riformata e decisamente avviata sulla strada della democrazia al proprio interno.

Da qui la conces­sione di crediti governativi in misura sempre crescente (vedi Figura 9) anche se Gorbaciov, ai grandi accordi internazionali, non poneva le premesse per una riforma efficace. Questi soldi sono stati quindi sprecati, e hanno anzi probabilmente contribuito a prolungare l'agonia del sistema stalinista. Lo stesso non hanno fatto i privati, che a partire dal 1990 hanno ridotto drasticamente gli investimenti.

Invece, da quando è apparso chiaramente che a)la ristrut­turazione economica aveva fallito lo scopo di far funzionare il sistema socialista (1989-1990) e b) c'era un'alternativa al comunis­mo (già forse dal 1989 con Eltsin eletto al Congresso col 90% dei voti, ma certamente dal 1990 quando è stato eletto alla presidenza del Soviet supremo russo contro il parere ed il candidato del partito comunista, e platealmente dall'aprile 1991 quando è stato eletto liberamente e direttamente dal popolo a presidente della Russia), alcuni hanno sostenuto che Gorbaciov avesse compiuto il ciclo della sua opera storica e che l'Occidente democratico avrebbe dovuto sostenere i democratici in URSS.

Infatti, un'URSS conciliante sul piano internazionale ma destabilizzata all'interno può essere più pericolosa per la sicurezza internazionale di un'URSS più forte internazionalmente ma stabile internamente. Questo perché nel primo caso più facilmente potrebbe coinvolgere l'Occidente, e soprattutto l'Europa, in un conflitto che magari potrebbe cominciare come guerra civile o inter-etnica.

Sicurezza europea

Nel campo del controllo degli armamenti, ora è il momento di insistere nel processo cominciato degli anni passati, anche se l'argomento sembra marginale. Bisogna creare una gabbia dalla quale l'URSS, la Russia e quali altri successori potessero crearsi (ma anche gli altri paesi ex-satelliti) non saranno più in grado di uscire. In primo luogo, è necessario far pressione affinché tutti gli stati neo-indipendenti aderiscano al Trattato di Nonproliferazione Nucleare. Questa gabbia avrebbe anche l'effetto, collaterale ma non secondario, di contenere anche eventuali future tentazioni nazionalistiche da parte delle superpotenze emergenti dell'Occidente, ed in primo luogo la Germania ed il Giappone.

Allo stesso tempo, occorre evitare facili entusiasmi sulla scomparsa della minaccia. Non si tratta di avere o meno fiducia nelle inten­zioni pacifiche dell'attuale dirigenza sovietica (o russa), ma di cautelarsi verso possibili cambiamenti di dirigenze future che avranno comunque a loro disposizione opportunità e capacità militari enormi. Inoltre, in caso di successo delle riforme, in 15-20 anni l'URSS (o la Russia) potrebbe essere anche una nuova superpotenza economica, quindi con accresciute capacità di influenzare la politica internazionale. Quindi è necessario continuare con il rafforzamento delle strutture politiche di sicurezza europea (CSCE, integrazione della difesa europea occidentale) in parallelo al procedere degli accordi di disarmo.

Garanzie di sicurezza all'Est europeo

La questione non è accademica, potrebbero ripresentarsi pericoli da contrasti locali, per questioni di confine o di minoranze. Non abbiamo dato garanzie agli europei dell'Est per 45 anni perché sapevamo sarebbe stato un bluff; sono stati irresponsabili quelli che lo hanno detto o fatto capire (come gli USA nel 56 al tempo di Nagy in Ungheria). Non sarebbe diverso molto oggi, non possiamo fare la guerra con l'URSS se, per ipotesi probabilmente assurda, dovesse invadere nuovamente gli ex-satelliti. Sarebbe un "bluff" pericoloso e controproducente, e potrebbe instigare a destabilizzanti rivendicazioni nazionali, territoriali e non.
Inoltre, in un'ipotesi di garanzia estesa, per esempio da parte della NATO, bisognerebbe proteggere tutti contro tutti, e non solo tutti contro i sovietici. Il compito si complicherebbe: cosa fare in caso di scontri tra Ungheria e Romania? Tra Ucraina e Romania? Tra Ucraina e Cecoslovacchia? Tra Polonia e Lituania? La lista potrebbe continuare.

A questo proposito sarebbe meglio essere chiari subito, magari discretamente e privatamente, perché molti stati dell'Europa dell'Est (che si vogliono in qualche modo eufemisticamente promuovere di classe chiamando la regione "Europa centro-orientale", compresi i Baltici) probabil­mente prima o poi lo chiederanno.
Bisogna invece insistere nella CSCE, che include l'URSS stessa e includerebbe i suoi successori (o almeno quelli europei): prima dell'Europa orientale, sono infatti proprio i popoli ex-sovietici che bisogna pensare di difendere da un ancora possibile ritorno di fiamma repressivo.

11 December 1990

Situazione in Polonia

Questa relazione si propone di fornire un quadro politico generale della situazione politica in Polonia alla luce della caduta del regime comunista nel 1989. Dopo una breve introduzione storica, darò una schematica descrizione del contesto interno ed estero del regime comunista all'interno del quale maturava la dinamica dei conflitti che avrebbe portato alla rivoluzione pacifica del 1989. Per una discussione più dettagliata delle politiche economiche si rimanda alla relazione sull'argomento presentata in questa stessa sessione. Concluderò con una trattazione delle possibili alternative per il futuro e delle implicazioni per l'Occidente. Questa relazione è stata presentata a Getecna oggi 11 novembre 1990.

Lo sfondo storico e culturale

L'elemento più importante nel retaggio storico polacco è probabilmente l'influenza pluri-secolare della Chiesa cattolica, che dall'undicesimo secolo occupa una posizione politica, oltre che culturale, senza rivali. Neanche il partito comunista, nei quarant'anni di dominio politico del paese, ha potuto ottenere una penetrazione nella società di livello paragonabile. Accanto al cattolicesimo, altro fattore storico della Polonia moderna è una certa tradizione di democrazia, anche se solo a livello embrionale, che si è sviluppata a partire dal tredicesimo secolo. In quel tempo, si formava il primo parlamento polacco, che peraltro, a differenza di quanto accadeva in Inghilterra, vedeva prevalere l'aristocrazia sulla borghesia. Il potere aristocratico impedisce la formazione di un regime parlamentare costituzionale ma anche il sorgere di una monarchia assoluta, ed infatti il re polacco veniva eletto dal parlamento in quella che per questo motivo, curiosamente, era chiamata la Repubblica di Polonia. Questa esperienza è oggi spesso richiamata alla memoria come la radice politica nazionale alla quale si vuole rifare la Polonia post-comunista.

L'impero polacco cresceva con vicissitudini alterne da quel periodo fino alla metà del seicento, ma diveniva poi sempre più inefficiente e si avviava al declino politico. In quei secoli, si sviluppava un'ostilità più o meno permanente contro la Russia, l'Ucraina e la Lituania a Est, ma anche con la Prussia e l'Austria ad Ovest ed a Sud. Il progressivo declino culminava, alla fine del settecento, con la scomparsa della Polonia come entità statale a seguito di tre successive partizioni a spese di Austria, Russia e Prussia.

In tutto questo periodo si sviluppava, forse più che in tutti gli altri paesi dell'Europa orientale, un forte legame culturale con l'Occidente del rinascimento e dell'umanesimo, particolarmente con la Francia ma anche con l'Italia. Anche grazie a ciò, l'integrità culturale del paese sopravvive al tentativo di russificazione nella parte orientale e di germanizzazione in quella orientale; il modus vivendi migliore i polacchi lo trovano con gli Austriaci, più tolleranti delle realtà indigene della loro fetta di Polonia.

La Polonia riesce a riguadagnare l'indipendenza approfittando della contemporanea sconfitta delle sue tre potenze occupanti nella Prima Guerra Mondiale. Il neonato stato polacco tenta addirittura una improbabile rivincita contro la neonata Unione Sovietica, approfittando della debolezza del nuovo regime di Mosca subito dopo la fine della Guerra, mentre imperversava ancora la guerra civile contro i Bianchi zaristi. Le forze armate polacche erano però sconfitte ed il paese rischiava quasi di essere riannesso all'URSS quando le armate sovietiche arrivavano fino a Varsavia.

Nel periodo tra le due guerre, la Polonia si trovava schiacciata ed impotente tra Unione Sovietica e Germania nazista, cercando invano garanzie di sicurezza dalle democrazie occidentali. Decidendo, al contrario della Cecoslovacchia, di combattere l'aggressione hitleriana, il governo di Varsavia porta Francia ed Inghilterra a dichiarare guerra alla Germania e fa così del paese la miccia della Seconda Guerra Mondiale.

Il paese nel "blocco sovietico"

La condizione politica della Polonia del dopoguerra è stata influenzata in modo determinante, così come quella degli altri paesi dell'Europa orientale, dal rapporto con l'Unione Sovietica. In quell'ambito, ha rivestito un'importanza politica cruciale il modo perverso in cui quei rapporti si erano sviluppati subito prima e durante la guerra. Perverso perché l'URSS staliniana non aveva mai voluto considerare la Polonia come un alleato, e persino i comunisti polacchi esiliati a Mosca, come del resto quelli di tanti altri paesi, cadevano sotto la scure delle purghe fratricide. 

Nel 1939 si stringeva quella che i polacchi hanno sempre considerato la vergogna del Patto Molotov-Ribbentrop, nonostante tutto, le armate polacche sopravvissute alla disfatta contro la Germania cercavano di riorganizzare le forze in URSS per poter proseguire la guerra, ma Stalin, convinto della non affidabilità di un corpo ufficiali nazionalista e certamente non comunista, procedeva alla loro sistematica eliminazione nelle foreste di Katyn, cercando poi di accollarne la responsabilità ai tedeschi. 

Altro episodio, non meno grave dal punto di vista polacco, fu il freddo cinismo con il quale l'Armata Rossa assistette all' annientamento della resistenza (non-comunista) di Varsavia da parte dei tedeschi alla fine del 1944. Per finire, i polacchi si sono anche visti imporre l'installazione forzata del governo provvisorio (comunista) di Lublino dopo la liberazione. Stalin approfittava dell'ambiguità contenuta nel testo dei Patti di Jalta per non indire libere elezioni ma porre il mondo davanti al fatto compiuto del regime comunista che si insediava al seguito dell'Armata Rossa. Non sorprende che il risultato di tutto ciò sia stato il rafforzamento dell'odio storico dei Polacchi contro i Russi, che sarà solo formalmente malcelato durante il regime comunista.

Dopo la presa del potere, il regime comunista procedeva alla statalizzazione dell'economia ed all'industrializzazione pesante forzata sul modello sovietico. Questo processo non è peraltro mai diventato completo. La collettivizzazione è stata particolarmente ridotta in agricoltura: mai più del 10% del terreno agricolo è stato di proprietà dello stato.

Questa tendenza subiva un brusco arresto nel 1956, quando nel corso del processo di destalinizzazione si diffondeva una rivolta popolare un po' in tutto il paese, e specialmente a Poznan. Questa veniva repressa dal regime, a differenza dell'Ungheria senza l'intervento sovietico, probabilmente perché considerata da Khrushchev una questione interna dei polacchi: nessuno aveva infatti messo in discussione il collocamento geopolitico del paese all'interno del Patto di Varsavia, come aveva invece fatto Nagy in Ungheria. Come in Ungheria, dopo i moti del 1956 saliva al potere un'élite comunista, guidata da Stanislaw Gomulka, che acquisiva una qualche rispettabilità in quanto poteva vantare un passato anti-staliniano.

Negli anni che seguivano, Gomulka poneva fine allo stalinismo ma non proponeva rimedi efficaci alle strozzature dell'economia pianificata, che deteriorava progressivamente. La crisi arrivava quando un aumento dei prezzi scatenava una protesta dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica nel 1970, brutalmente repressa dalla polizia con ingente spargimento di sangue. La dimostrazione di Danzica, anche se schiacciata, comunque costringeva Gomulka alle dimissioni. Gli subentrava Gierek, che negli anni settanta cercava la chiave della economica nell'apertura verso l'Occidente. Qui i comunisti polacchi ricercavano i capitali per ovviare alle manchevolezze del sistema pianificato senza doverlo cambiare. L'Occidente ricco di un forte eccesso di valuta si dimostrava incautamente prodigo, e forniva crediti senza porre condizioni.

Il risultato era un crescente indebitamento cui non corrispondeva un aumento della produttività, e quindi della capacità di esportazione. Gli investimenti si dimostravano inevitabilmente sterili perché non abbinati a riforme efficaci, mentre si lasciavano aumentare i consumi interni (che servivano a mantenere un minimo di supporto per il regime) anche quando si trattava di beni importati dall'Occidente a fronte di una bilancia commerciale sempre più passiva.

Il conseguente bisogno crescente di valuta portava ad una allentamento dei controlli, pionieristica nei paesi del socialismo reale, anche in materia valutaria. Ai Polacchi il regime concedeva di detenere liberamente valuta convertibile; di accedere ai negozi speciali di "esportazione interna" (PEWEX) dove si acquistavano beni di lusso, generalmente importati, solo per valuta; e persino di aprire conti correnti in valuta nelle banche dello stato, senza che a nessuno venga chiesto dove e come tale valuta fosse stata procurata. 

A parte le importanti rimesse ai parenti degli emigrati polacchi, specialmente dagli Stati Uniti, era conoscenza comune che questa valuta proveniva dall'enorme quantità di contrabbando che si era sviluppata in Polonia, frutto dell'esportazione clandestina di beni acquistati a prezzo politico per Zloty, e venduti poi a clienti occidentali per valuta. Spesso, questi beni non erano neanche di produzione polacca, ma venivano procacciati, quasi sempre illegalmente, in altri paesi dove potevano essere acquistati senza esborso di valuta pregiata. Era per esempio facile trovare nel mercato nero polacco caviale, pellicce, e persino oro di produzione sovietica.

Non a caso ho parlato di allentamento dei controlli, e non di liberalizzazione: si era infatti sviluppato non tanto un mercato valutario, quanto un'incontrollata anarchia, di cui era anche difficile stabilire le proporzioni. Inoltre, l'anarchia valutaria favoriva una fiorentissima economia sommersa, in cui aveva un ruolo importante il mercato nero dei beni sottratti dai dipendenti alle aziende collettive e di stato, o dai militari all'esercito. Ma l'indebitamento estero dello stato continuava a crescere, e diventava il più alto in Europa orientale. 

Alla fine del decennio Varsavia incontra difficoltà nel servizio di questo debito, per non parlare del ripagamento, anche perché nel frattempo si erano chiusi i rubinetti dell'Occidente, dove salivano i tassi di interesse. La situazione economica diventava sempre più politicamente insostenibile per il governo di Gierek.

La miccia per le trasformazioni degli anni ottanta era innescata ancora una volta dagli operai dei cantieri di Danzica. I loro scioperi nell'estate del 1980 erano ancora una volta causati dal progressivo deteriorarsi dello standard di vita, dopo le illusioni di benessere degli anni settanta. Il regime questa volta non reprime la manifestazione con la stessa brutalità di dieci anni prima, i sindacati ufficiali compromessi col partito non riuscivano a guadagnarsi un ruolo, e nei cantieri poteva nascere il sindacato libero di Solidarnosc. Dopo la sigla di precari accordi nell'Agosto, seguivano nuovi scioperi, e Gierek cadeva esattamente come Gomulka prima di lui. Seguiva un breve periodo di sbandamento del partito di cui approfitta Solidarnosc per consolidare la propria posizione non più solo sindacale ma anche sempre più chiaramente politica, con oltre dieci milioni di membri che aderivano in pochi mesi, più di quanti non ne avesse mai avuti il partito in trentacinque anni al potere. 

Questo successo portava ad una rapida politicizzazione di Solidarnosc, che da sindacato si trasformava in movimento politico e minacciava letteralmente di travolgere l'ordine socialista. Dopo che vari segnali facevano pensare ad un imminente intervento militare sovietico, nel Dicembre del 1981 il nuovo segretario generale del partito, generale Woiciech Jaruzelski, dichiarava lo Stato di Guerra, sospendeva Solidarnosc e fermava brutalmente il processo di democratizzazione in corso.

In questo periodo, cresceva esponenzialmente il ruolo della Chiesa nella politica della Polonia, anche grazie al fatto che a Roma sedeva dal 1978 un papa polacco. La Chiesa cattolica era sempre stata l'unico polo politico d'opposizione tollerato dal regime, e per questo suo ruolo paradossalmente privilegiato attirava molti più consensi di quanti non fossero i veri credenti. D'altra parte, il clero era stato in passato costretto a moderare il proprio intervento politico per sopravvivere allo stalinismo. 

Quando fu imposto lo Stato di Guerra, il Primate Glemp invitava i Polacchi ad ottemperare alle disposizioni governative, allo scopo di evitare la guerra civile. Negli anni che seguivano, la Chiesa diveniva sempre più attiva come punto di riferimento dell'opposizione, e forniva un indubbio sostegno a Solidarnosc, anche se la cooperazione tra le due strutture era a volte molto difficile, perché Solidarnosc funzionava in base a principi democratici mentre la Chiesa rimaneva una struttura rigidamente gerarchica ed autoritaria.

In un'intervista con La Repubblica nel 1990 egli indica la sua graduale conversione al liberalismo nel corso degli anni ottanta, parallelamente al graduale fallimento di tutte le misure di compromesso sistemico. Al momento della salita al potere di Gorbaciov, alla metà degli anni ottanta, la Polonia è già, con l'Ungheria, il paese del blocco più avanzato sul terreno delle riforme economiche e delle libertà interne, compresa una libertà di viaggiare e di emigrazione limitata solamente dalla mancanza di valuta e dai limiti imposti dai paesi occidentali alla concessione di visti d'ingresso.

Ma crisi terminale del sistema è solo rimandata: comincia nella primavera del 1988, quando una nuova ondata di scioperi viene indetta per reclamare aumenti salariali di fronte all'inflazione galoppante. Negoziati prolungati portano all'accettazione da parte del governo di una "Tavola Rotonda" con Solidarnosc nel Gennaio 1989. 

Le discussioni cominciavano in Febbraio e duravano circa un mese, e culminavano con l'accordo ad indire elezioni che, anche se solo parzialmente libere, avrebbero portato alla creazione del primo governo a guida non comunista nell'Europa orientale del dopoguerra.

Recenti sviluppi politici

Politica Interna

Il problema di Jaruzelski, all'inizio del 1989, era come assicurare la transizione verso un'inevitabile maggiore rappresentatività nel sistema politico, senza provocare una guerra civile o un intervento sovietico, che a quel tempo non poteva ancora essere categoricamente escluso. A Mosca si cominciava a parlare di abbandono della "Dottrina Brezhnev" della sovranità limitata, ma delle decisioni definitive, se erano già state prese, non si era ancora presa piena coscienza all'estero.

A seguito degli accordi della "Tavola Rotonda", si aveva la piena ri-legalizzazione di Solidarnosc, cui si accompagnava un'amnistia politica incondizionata. Le prime elezioni semi-libere seguivano nella tarda primavera del 1989. In queste, il Partito Operaio Unificato Polacco (POUP) si era preventivamente assicurato il controllo del 65% della camera bassa (con più poteri legislativi) del Sejm (Parlamento). In una schiacciante dimostrazione di forza politica, i candidati appoggiati da Solidarnosc ottenevano il rimanente 35% e 99 dei 100 seggi disponibili nella camera alta (Senato) che non prevedeva quote pre-assegnate al POUP, ed il restante seggio andava ad un candidato indipendente (vedi tabella). Persino tra i candidati del POUP che erano in corsa senza opposizione la sconfitta era palese: solo il 2% otteneva il necessario 50% dei voti al primo scrutinio. 

Tutto ciò produceva un'umiliazione che equivaleva ad un colpo di grazia per il partito. Piuttosto bassa l'affluenza alle urne, forse testimonianza di un'apatia politica, o di timori reconditi, che neanche l'evidenza della fine del comunismo riuscivano ad eradicare: 62% dell'elettorato votava nel primo turno e poco più del 25% nel secondo, mentre il 42% prendeva parte alle elezioni amministrative del maggio 1990 che più o meno hanno confermato i risultati del 1989, compreso il fiasco per i due partiti "socialdemocratici". Alla prossima prova Solidarnosc probabilmente non sarà più più unita e gli ex-comunisti potrebbero anche scomparire completamente dalla scena parlamentare.

Dopo le elezioni parlamentari, ed a seguito di una febbrile trattativa, Jaruzelski veniva eletto presidente nel Luglio 1989 per sei anni (vedremo però che si dimetterà nel 1990) dopo essersi dimesso da segretario del POUP per diventare il presidente di tutti i polacchi. Jaruzelski si presenta oggi, al momento della sua definitiva uscita dalla scena politica, come un patriota che ha salvato la Polonia dalla guerra civile e dall'invasione straniera. Indubbiamente, il Cremlino di Brezhnev non avrebbe tollerato il pluralismo che di fatto Solidarnosc rappresentava nel 1981, e non lo avrebbero tollerato neanche Andropov o Chernenko. Ma è anche indubbio che tale pluralismo non era neanche in cima alla lista delle priorità di Jaruzelski.

Nell'estate si assisteva all'ultimo goffo tentativo del Partito di proporre un Primo Ministro nella persona del Generale Kiszczak, figura impopolare che aveva avuto un ruolo visibile nella repressione del post-1981. Solidarnosc rifiutava di entrare in un governo di coalizione a guida comunista, evidentemente per evitare di divenire corresponsabile degli inevitabili sacrifici e degli eventuali fallimenti senza essere realmente in grado di decidere la politica estera ed economica da adottare. Ma senza Solidarnosc, pur con la maggioranza assoluta artificiosamente assicurata, il POUP non poteva formare un governo che avesse un minimo di probabilità di affrontare i problemi del paese.

Sul finire dell'estate, quindi, il Presidente Jaruzelski è costretto a dare l'incarico per formare il nuovo governo a Tadeusz Mazowiecki, un intellettuale cattolico appoggiato da Solidarnosc. Figura molto vicina alla gerarchia della Chiesa, Mazowiecki era stato internato nel Dicembre 1981. In breve si poteva avere cosí un governo rappresentativo, il primo a guida non-comunista dell'Europa orientale post-bellica, nel quale venivano offerto al POUP il dicastero della difesa, forse più che altro per non dover mandare esponenti dichiaratamente anti-comunisti alle riunioni del Patto di Varsavia. Significativamente, il primo viaggio all'estero di Mazowiecki non era a Mosca, come da rito formale precedente, ma a Roma, per consultazioni tutt'altro che formali con il Papa polacco.

Nel Gennaio 1990 il POUP si trasforma nel Partito Social Democratico nel disperato tentativo di riacquistare un po' di credibilità e di presentabilità politica dissociandosi dal proprio passato. Ma anche questo gesto disperato ed un po' patetico fallisce miseramente e probabilmente senza appello, cosí come accaduto agli ex-comunisti ungheresi, tedeschi orientali e, pochi mesi dopo cecoslovacchi.

Alla departitizzazione del governo corrispondeva l'inizio di una capillare opera di depoliticizzazione dell'esercito e della polizia. Prima tutti gli ufficiali erano membri del partito; adesso, al contrario, non solo tale appartenenza è equivalente ad un marchio d'infamia, ma vi sono forti pressioni per vietare l'appartenenza degli ufficiali a qualunque partito. Lo stesso vale per la polizia di stato. La polizia politica, i famigerati Zomo che in Occidente siamo stati abituati a vedere per anni con il manganello in mano nei filmati sulle dimostrazioni anticomuniste, è stata sciolta; tuttavia, la struttura dei vecchi servizi segreti (Sluzba Bezpieczenstwa, o SB), o almeno frammenti di essa, rimane potente e capace di azioni intimidatorie al di là del controllo del capo del governo (ma forse con la connivenza del Ministro degli Interni comunista).1

La liberalizzazione politica interna in Polonia è oggi pressoché totale, cosí come non si registrano più violazioni dei diritti umani. Logica conseguenza di tutto ciò l'ammissione come osservatore al Consiglio d'Europa nel novembre 1990, a Roma. É certa l'ammissione a pieno titolo nel prossimo futuro, probabilmente non appena si saranno celebrate le prossime elezioni, completamente libere, per il Sejm.

Politica Estera

Si è detto come il rapporto con l'URSS avesse costituito il fulcro delle relazioni esterne della Polonia del dopoguerra. Come per tutti gli altri paesi della regione, con Gorbaciov si è avuta una graduale svolta in questi rapporti, che si sono indirizzati verso un canale sempre più paritetico e pragmatico. Naturalmente, questa svolta è stata condizione necessaria, se pur non sufficiente, alla svolta interna descritta sopra.

Un primo aspetto fondamentale del cambiamento nelle relazioni polacco-sovietiche, che lo ha contraddistinto da quello avvenuto in altri paesi ex-satelliti, è stato costituito dal succedersi di chiarimenti degli "spazi vuoti" della storia delle relazioni tra i due paesi. Come sempre nei paesi socialisti, la revisione storiografica è stata carica di significati politici. Si è trattato più che altro di una serie di successive ammissioni da parte sovietica di fatti già da tempo ben noti in occidente, ed anche in Polonia, ma non ancora disseppelliti dagli archivi staliniani a Mosca. In primo luogo si è parlato dell'uccisione dei capi del partito comunista polacco a Mosca negli anni trenta perché giudicati troppo nazionalisti da Stalin. Ha fatto seguito l'ammissione dell'acquiescenza sovietica nell'aggressione hitleriana del 1939 tramite il Patto Ribbentrop-Molotov. Quindi c'è stato, ma solo nel 1989, il sospiratissimo chiarimento della responsabilità sovietica nel massacro di Katyn del 1941.

Nonostante l'inevitabile astio provocato da queste rivelazioni, e forse in parte proprio grazie ad esse, continuano però in Polonia, più di quanto non avvenga in altri paesi dell'ex-blocco, gli interessi in comune con Mosca. In primo luogo, sia Mosca che Varsavia hanno condiviso un rapporto contraddittorio verso la Germania federale. Al timore del revanscismo tedesco per quanto concerneva i territori persi dalla Germania a favore di Polonia ed Unione Sovietica dopo la guerra si contrapponeva il desiderio di attingere ai proficui scambi economici (ed aiuti tecnologici e finanziari) che solo Bonn poteva offrire. Anche dopo la firma dell'Atto Finale di Helsinki nel 1975, nel quale l'allora Germania Occidentale si impegnava a non cercare di modificare i confini del momento con la forza, la questione rimaneva aperta. La Polonia perciò ha insistito nel 1990 per partecipare ai negoziati "Due più Quattro", tra le due Germanie e le quattro potenze vincitrici, che hanno stabilito i modi ed i tempi della riunificazione, per quello che concerneva la questione dei confini.

Solo nel novembre del 1990 il problema è stato risolto in modo prevedibilmente definitivo con l'unificazione tedesca e la conseguente firma di trattati con Polonia ed Unione Sovietica a questo riguardo che sanciscono la definitività dei confini tra i paesi interessati, e primo fra tutti quello dell'Oder-Neisse tra Polonia e Germania. É stato questo il motivo per cui, a differenza di Ungheria e Cecoslovacchia, i Polacchi non hanno richiesto la partenza delle truppe sovietiche dal proprio territorio e l'uscita dal Patto di Varsavia, anche se è probabile che ciò avverrà presto alla luce della definitiva risoluzione della questione dei confini.

Nei prossimi anni, la stabilizzazione delle relazioni con la Germania sarà di importanza cruciale per lo sviluppo economico del paese e per il suo aggancio politico all'Europa occidentale ed economico agli Stati Uniti, che anche in virtù della grande colonia polacca sono stati indicati dal governo come una priorità per il futuro prossimo; essa dovrà procedere parallelamente allo sviluppo di nuove relazioni anche con l'URSS. Il generale consenso che esiste tra tutte le principali forze politiche a questo riguardo fa pensare che questa difficile opera di bilanciamento sia alla portata di Mazowiecki e dei suoi successori.

Altra questione è quella della minoranza polacca in Lituania, che è oggetto di discriminazioni cosí come quella russa. Lamentele a questo riguardo sono state fatte proprie dal nuovo governo, che non è inibito, come lo poteva essere il precedente, dal considerare la politica di Vilnius come un affare interno sovietico. Si deve ricordare che la capitale lituana Vilnius (Wilno in polacco) è lituana solo dal 1939, a seguito della spartizione della Polonia conseguente agli accordi Molotov-Ribbentrop. L'università della città era stata fondata dai polacchi, e nonostante ciò non c'è oggi una cattedra di lingua polacca; Varsavia non è stata autorizzata (nonostante l'assenso di Mosca) ad aprire un consolato nella città ed è persino vietato celebrare la Messa in polacco nella cattedrale di San Stanislao.2 Esiste quindi una comunanza di interessi tra Russi e Polacchi che potrebbe essere rinvigorita da una eventuale indipendenza lituana, che potrebbe indebolire la posizione delle minoranze russa e polacca, che peraltro sono numericamente le più piccole dei paesi baltici (oltre l'80% degli abitanti della Lituania è lituano).

Nell'immediato periodo dopo la liberalizzazione, nella politica estera polacca sussiste un forte pericolo di rigurgiti nazionalistici, principalmente anti-russo e anti-tedesco, ma anche diretto contro le minoranze bielorusse ucraine e lituane. A queste si aggiungono preoccupanti risvolti anti-semitici anche a causa dell'olocausto e dell'emigrazione dopo l'ondata anti-semitica fomentata in seno al POUP nel 1968 ci sono pochissimi ebrei in Polonia (la recente polemica con la Chiesa cattolica sul convento delle Carmelitane ad Auschwitz era sostenuta da ebrei stranieri). La recente campagna presidenziale ha messo in evidenza con graffiti e slogan diretti contro ebrei e minoranze etniche.

Tutti questi aspetti del nazionalismo polacco, a lungo repressi, si sono, alla fine del 1990, almeno temporaneamente assopiti. Ma, seppure in forma diversa, potrebbero risorgere; per esempio, c'è astio in Polonia per il trattamento non sempre signorile riservato agli emigranti polacchi in Germania, ricambiato dall'astio tedesco per un'ondata di stranieri, spesso entrati illegalmente, in un momento in cui la nuova Germania deve pensare a sistemare civilmente 17 milioni di stranieri in patria. Parimenti, la questione dei polacchi in Lituania è stata convenientemente messa da parte nel momento in cui Varsavia era concentrata ad ottenere il definitivo riconoscimento dell'Oder-Neisse, ma potrebbe cambiare se Vilnius dovesse far ricorso alla mobilitazione di energie nazionalistiche per ottenere l'indipendenza.

Nonostante il nazionalismo, si riscontra in Polonia una maggiore sensibilità per il potenziale di una continuata collaborazione con gli altri paesi neo-democratici della regione e particolarmente con la Cecoslovacchia e l'Ungheria. Finora questo atteggiamento non è stato però corrisposto, in quanto tutti gli altri paesi dell'ex-comunità socialista sono preoccupati quasi esclusivamente di rescindere i legami con Mosca ed allacciarli con l'Occidente.

Politica economica

Per una trattazione più dettagliata delle riforme economiche in Polonia si rimanda alla relazione a questo preposta in questo stesso convegno. Ci si limita qui ad alcune considerazioni di particolare valenza anche politica. La situazione economica al momento del cambio di governo nel 1989 poteva essere senza esagerazione definita come disperata. L'inflazione nel 1989 era di oltre il 700%, il PIL era in crescita negativa, il debito estero, di cui non si poteva più neanche pagare gli interessi, era salito ad oltre 43 miliardi di dollari, di gran lunga il più grande in Europa orientale (anche se, pro capite, inferiore a quello dell'Ungheria). Non c'era praticamente stata alcuna forma di competizione tra i produttori nazionali, quindi nessun incentivo ad innovare e la cosa era degenerata ancora da quando la crisi economica aveva quasi obbligato ad eliminare le importazioni dall'Occidente.

Riforme economiche

Più decisamente che in tutti gli altri paesi est-europei in via di democratizzazione, in Polonia è stata adottata all'inizio del 1990 una terapia d'urto, concordata con alcuni autorevoli economisti stranieri, che ha cominciato ad essere messa in pratica nonostante l'impopolarità di alcuni suoi aspetti essenziali. Un ulteriore problema per Mazowiecki è stato che non ci sono stati precedenti storici su cui basarsi, per cui si può asserire che il suo governo sta coraggiosamente affrontando acque pericolose senza carta nautica. Alla drastica svalutazione della moneta è corrisposta la liberalizzazione dei cambi (passo importante verso la convertibilità) che ha spinto lo Zloty in basso fino a fargli raggiungere il valore reale d'acquisto, per cui è scomparso quasi di colpo il fiorente mercato nero della valuta, soppiantato da uffici di cambio autorizzati in tutte le città; oggi c'è praticamente in Polonia una convertibilità piena.

Tutto ciò ha prodotto un notevole salto di "inflazione correttiva" all'inizio del 1990, ma questo è stato un fenomeno una tantum, poi il livello dei prezzi si è assestato, anche grazie a un'indicizzazione dei salari molto ridotta (generalmente dal 20 al 30% dell'inflazione, con penalità fiscali per le aziende che li aumentassero di più). L'aumento prezzi è stato peraltro compensato dalla maggiore disponibilità di beni di consumo e da file più corte; per questo tipo di vantaggi è difficile avere una misurazione esatta della caduta del potere d'acquisto cosí come è tradizionalmente definito, ma a chi conosce quanto pesasse sulla vita dei Polacchi non il costo dei beni quanto la fatica di trovarli il salto qualitativo appare notevole.

Contemporaneamente, si è avuta sia l'eliminazione di quasi tutte le sovvenzioni statali alle aziende in perdita, sia l'apertura al commercio estero, entrambe le misure allo scopo di stimolare la concorrenza e quindi premiare la produttività delle imprese migliori. Infine, si è avuta l'apertura della Borsa di Varsavia nel novembre 1990, la seconda in Europa orientale dopo quella di Budapest che si era aperta in Agosto, ancora con strutture rozze, solo qualche PC per organizzare il lavoro di un piccolo, ma il seme è stato gettato su terreno fertile.

Più del 90% dell'industria polacca era stata statalizzata dai comunisti, e Mazowiecki, nel privatizzare, deve ora cercare la classica quadratura del cerchio. Il governo si oppone alla proprietà dei lavoratori per motivi di efficienza, anche alla luce del cattivo esempio della Jugoslavia. Si è offerto invece un compromesso in alcune industrie dove è stata offerta agli operai una partecipazione minoritaria. 

Per le stesse industrie i passi da compiere sono di portata enorme: l'efficienza degli input era pessima, particolarmente per quanto concerne l'energia, causa questa non solo di bolletta energetica gravosissima (soprattutto dopo la cessazione delle vendite a prezzo agevolato da parte dell'URSS) ma anche di inquinamento. Il settore servizi era sottosviluppato, occupando solo il 35% della forza lavoro e solo ora si cerca di renderlo adeguato ad una moderna economia post-industriale quale la Polonia aspira a diventare.

La filosofia che sottende tutto ciò è che non si può superare un precipizio in due salti, bisogna farlo in un salto solo. Si sapeva che i disagi immediati sarebbero stati notevoli, nella forma di inflazione e di disoccupazione, ma all'inizio sono stati accettati dalla popolazione in quanto proposti da un Primo Ministro appoggiato da Solidarnosc, poi è cominciato il malcontento. Il governo Mazowiecki è stato finora in grado di far sopportare sacrifici facendosi forte dell'entusiasmo politico suscitato dalla rivoluzione, senza il quale difficilmente i Polacchi sarebbero stati cosí accondiscendenti. Ma presto il carattere populista dell'organizzazione è emerso, e si è concretizzato nella sfida vincente di Walesa per la presidenza.

Rapporti economici con l'estero

Si è detto della liberalizzazione dei commerci; grazie ad essa, beni di consumo esteri sono oggi largamente disponibili sul mercato, sebbene a prezzi molto elevati. Questo sta creando le condizioni per un maggiore intervento delle imprese occidentali sulla piazza polacca, oggi finalmente diventato potenziale mercato pagante in valuta.

Alla liberalizzazione commerciale si è accompagnata quella degli investimenti, con l'apertura a capitali stranieri, cui sono state vendute persino colossali imprese statali di importanza strategica, quali i cantieri navali di Danzica. Politicamente, questo tipo di iniziative

Grazie alla buona volontà dimostrata dalla Polonia, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno attestato l'incapacità della Polonia di pagare, e tutti i prestiti commerciali in scadenza fino alla primavera del 1991 sono stati rifinanziati.

Politica Militare

Per quarant'anni la Polonia era stata sostanzialmente una via di transito per il mantenimento della roccaforte sovietica sui confini della NATO in Germania Est. Ci sono sempre state poche truppe sovietiche stazionate permanentemente in Polonia, circa due divisioni negli anni ottanta, nulla se paragonate alle venti nella piccola RDT. Ma questa cifra nasconde l'importanza strategica della Polonia per le comunicazioni con il potenziale fronte. Dopo il 1980, quando l'affidabilità di Varsavia vacillava sotto l'incalzare di Solidarnosc, i sovietici avevano anche predisposto comunicazioni militari dirette via mare tra l'URSS e la Germania.

Oggi il Patto di Varsavia è in fase di scioglimento, almeno nella forma che siamo stati abituati a riconoscere per quarant'anni. Nella regione c'è indubbio sostegno per l'idea che il Patto e la NATO debbano essere sostituiti da una nuova organizzazione di sicurezza pan-europea, che dovrebbe scaturire presumibilmente dal processo di Helsinki II avviato dal Summit di Parigi del novembre 1990. 

In ogni caso, la Polonia, insieme all'Ungheria, già dalla fine del 1989 aveva iniziato a stabilire contatti diretti con la NATO in materia di controllo degli armamenti, non nascondendo l'interesse ad una più stretta collaborazione bilaterale con questa organizzazione quando le condizioni politiche generali del continente lo renderanno opportuno. Nel breve termine, la Polonia ha proposto di riformare il Patto a cominciare dalla struttura di comando, assegnando più poteri ai comandanti dell'alleanza in quanto tali, eliminando l'attuale subordinazione alla gerarchia militare sovietica.

Sul piano interno, l'ultimo governo comunista aveva già iniziato alcune riduzioni e riorganizzazioni nel 1989, che continuano oggi. Non è stato ridotto il livello nominale delle divisioni, ma è stato ulteriormente ridotto il loro già relativamente basso livello di mobilitazione in tempo di pace. Infine, autorevoli esponenti militari hanno scritto sulla desiderabilità di una ristrutturazione che prescinda dalle unità pesanti predisposte per lo scenario passato di conflitto con la NATO a favore di unità più agili, armate più leggermente e logisticamente autosufficienti.3 

Tutto questo si è tradotto in una riduzione di circa 100.000 unità negli effettivi delle forze armate. Riduzioni consistenti anche nei mezzi corazzati e nell'artiglieria, con centinaia di pezzi obsoleti distrutti, e nell'aviazione. Modernizzazioni invece in marina, con l'acquisizione di nuovi mezzi da sbarco, e nelle forze aeree, con l'entrata in servizio dei primi MiG-29.

La spesa militare è stata tagliata di circa la metà, in termini reali, nel 1989 rispetto all'anno precedente. É poi rimasta stabile nel 1990, anche se è difficile fare paragoni con il passato in quanto l'elevato livello e l'aleatorietà dell'inflazione non consentono di valutare con precisione il variare effettivo dell'onere della spesa militare sull'economia.

Prospettive

La democratizzazione politica in Polonia, anche se ancora da perfezionare, è ormai un fatto acquisito e non reversibile a meno di sconvolgimenti cataclismatici non solo nel paese, ma nel continente europeo nel suo insieme. L'unica minaccia residua è quella di una ricaduta autoritaria in caso di prolungata crisi economica e tentazioni di escamotage nazionalistico. Anche se improbabile, questa eventualità non è impossibile.

La riforma economica procede coerentemente ed a ritmo forzato, più che altrove nella regione e invero come da manuale di economia. Walesa sarà però probabilmente costretto ad abbandonare l'attuale populismo, diventare più pragmatico ed usare tutto il suo carisma per far accettare i necessari sacrifici ai polacchi. Nonostante ciò, c'è da temere che, alla luce dei problemi ancora all'orizzonte, forse il carisma di Walesa non basterà. C'è da augurarsi che egli continui a seguire la strada imboccata da Mazowiecki. 

Se lo farà, due sono le alternative più probabili: o i Polacchi lo seguiranno, o ci potrebbe essere una nuova crisi politica ed istituzionale, in quanto non ci sono altri che possano riuscire più di lui a spendere capitale politico per il successo della transizione all'economia di mercato. D'altro canto, ci sarà un serio pericolo per il processo di riforma nel suo insieme se egli cercherà di correggere l'attuale recessione artificialmente per attenuarne l'impatto sociale, creando cosí pressioni inflazionistiche e minando il successo dell'operazione di riconversione nel suo insieme.

La credibilità del governo, e quindi la sua capacità di fare accettare sacrifici, potrebbe essere messa in dubbio se non ci saranno miglioramenti tangibili nel corso del 1991. La sconfitta di Mazowiecki alle elezioni presidenziali dimostra come i Polacchi abbiano una scorta di pazienza molto ridotta, nonostante il Primo Ministro stesse operando una rapida ed esemplare transizione all'economia di mercato, che tutti vogliono e per fare la quale era stato eletto. Il comportamento elettorale non è stato forse molto razionale, ma ciò non sorprende dopo quattro decenni di promesse non mantenute, e questo atteggiamento non cambierà solo perché è cambiato il regime.

Conclusioni ed implicazioni per l'Occidente

La riforma politica in Polonia è praticamente ultimata, e le prossime elezioni libere saranno l'ultimo tassello per completare il quadro democratico del paese. Il paese è avviato sulla strada di una rapida e coerente riforma economica verso il mercato. Ma i tempi necessari a ciò non sono ben determinati ed il successo non è assicurato.

Gli aiuti finanziari occidentali di cui la Polonia fa pressante richiesta possono fare molto in quanto, più che negli altri paesi della regione, le condizioni per un loro utilizzo efficace sono state in buona parte create. Gli aiuti economici dall'Occidente sono però ancora pochi. Le banche private non sono disposte a rischiare a causa della precarietà del corso economico e della situazione finanziaria del paese, e qui può essere utile l'intervento politico dei governi.

É inoltre nell'interesse dell'Occidente incoraggiare la cooperazione intra-regionale in Europa orientale per meglio utilizzare le potenziali complementarità della regione est europea con l'Occidente. In questo campo, la Polonia si è dimostrata più sensibile di altri paesi limitrofi, ma è comunque opportuno continuare a far pressione in questo senso. In particolare, bisogna far capire che il risorgere del nazionalismo, a cui potrebbero essere tentati di far ricorso futuri governi polacchi in difficoltà economiche, non gioverebbe né alla causa della democrazia, né a quella della pace in Europa, cui noi Occidentali teniamo aprioristicamente.

L'accettazione nel Consiglio d'Europa sarà un riconoscimento importante del successo del movimento democratico polacco nello scorso decennio, ma proprio per questo non deve essere formalizzata fino a che non saranno indette elezioni veramente libere; d'altro canto non deve neanche essere ritardata oltre tale scadenza. Più avanti nel tempo, e comunque dopo il 1993, l'associazione alla Comunità sarà un passo obbligato, se le attuali tendenze dovessero confermarsi, verso l'adesione piena, probabilmente verso la fine del decennio.

BIBLIOGRAFIA

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Szayna, Thomas S.: Polish Foreign Policy under a Non-Communist Government: Prospects and Problems (Santa Monica, CA: Rand Corporation, 1990).

The Economist: Foreign Report, settimanale.


NOTE

1Jachowicz, Jerzy: "Short Report on the Ministry of Internal Affairs", in Gazeta Wyborcza, 23 Marzo 1990, tradotto dal polacco dal Soviet Studies Research Center, Royal Military Academy, Sandhurst.

2Kowan, Tadeusz: "Wilno, c'est-a-dire Nulle Part?", in Le Monde, 23 Aprile 1990.

3Koziej, Stanislaw: In the New Conditions: Strategic Defence, settembre 1990, tradotto dal polacco dal Soviet Studies Research Center della Royal Military Academy, Sandhurst, Regno Unito.