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19 March 2009

Al Museo Nazionale delle Maldive, Malé

Pur avendo un aspetto esteriore piuttosto miserello (NDA: nel 2009 il museo è ancora ospitato un un vecchio edificio, ma dall'anno prossimo sarà trasferito in uno nuovo, donato dalla Cina), il museo di Malé ospita reperti di importanza fondamentale per capire la storia dell'arcipelago. Qui sono custoditi gli unici reperti risalenti al periodo pre-islamico delle Maldive, un'eccezione che conferma la regola che fa divieto di custodire nel territorio della repubblica islamica oggetti di culto di altre religioni. Gli artefatti più significativi sono infatti i reperti buddhisti, trovati soprattutto durante la spedizione di Thor Heyerdahl nel 1982, di cui racconto in un altro post di questo blog.

Heyerdahl era un esploratore norvegese, famoso non tanto per il lavoro svolto qui quanto per aver portato a termine la traversata dell'oceano Pacifico orientale con il Kontiki, una zatterona di balsa con la quale voleva dimostrare che i primi abitanti della Polinesia vi erano arrivati dall'America meridionale. Costruì una barca con antiche tecnologie e materiali locali in Perù e la chiamò Kontiki, dal nome di un dio Sole degli Inca. Con altre cinque persone a bordo, partì dal Perù nell'aprile del 1947, per arrivare quattro mesi dopo nella Polinesia francese. Dimostrò così che gli abitanti dell'America pre-colombiana avrebbero potuto navigare il Pacifico, ma non che lo avessero effettivamente fatto. Successivi studi antropologici infatti convergono nell'ipotizzare che i Polinesiani discendano piuttosto dal sud-est asiatico. Ma Heyerdahl non si perse d'animo, fece buon viso a cattivo gioco e ripartì, stavolta con un aereo di linea, per un altro oceano.

Stanco del Pacifico, approdò alle Maldive nel 1982 e riuscì ad ottenere dal presidente Gayoom uno speciale permesso per continuare nel sud dell'arcipelago le ricerche che l’inglese Bell aveva cominciato decenni prima. Il rilascio di questa apparentemente innocua autorizzazione non era affatto scontato, in quanto ogni immagine sacra che non sia islamica è vietata nel paese, e non si fanno sconti a nessuno. Rinvenire e magari mostrare in pubblico opere risalenti al periodo induista o al buddhismo poteva essere considerato sconveniente, anche se questi reperti fanno incontestabilmente parte del bagaglio storico delle isole. Comunque Gayoom acconsentì agli scavi.

Nel corso di vari mesi Heyerdahl trovò un vero e proprio tesoro di reperti archeologici. Gli scavi erano in parte facilitati dai precedenti studi di Bell, che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX aveva dimostrato senza ombra di dubbio che le Maldive erano buddhiste ed induiste prima di essere convertite all'Islam nel XII secolo. Il buddhismo arrivò con ogni probabilità durante il regno di Ashoka il Grande in India, durante il III secolo a.C., dunque più di mille anni prima della conversione all’Islam.

Ashoka era un re della dinastia indiana dei Maurya, ambizioso quanto illuminato, che regnò nel III secolo a.C. Si racconta che dopo aver vinto in una delle più cruente battaglie della storia indiana contro il regno di Kalinga, l'ultimo che non avesse ancora accettato la sua autorità, fu traumatizzato dal massacro di cui era stato artefice. Quindi, pur vittorioso, si convertì al buddhismo ed alla non violenza e fu molto attivo nel propagarne il credo, non solo nel suo regno ma anche al di là, fino addirittura all'Egitto e a Roma. Ma se la sua ambizione mondiale era forse eccessiva, egli convertì comunque al buddhismo quasi tutto il subcontinente indiano. Al di là della dimensione leggendaria di Ashoka, è certo però che questo fu l’unico periodo di affermazione continentale della religione buddhista, che qui era nata (Buddha era nato nell’odierno Nepal ma visse e morì in India) ma che poi sparì nel corso dei secoli per il risorgere dell’induismo più tradizionale, che lo fagocitò: Buddha è infatti considerato la nona reincanazione di Vishnu.
Dopo l'islamizzazione forzata dell’India poi, sotto la spinta dell’invasione di Tamerlano nel XIV secolo e culminata con l’impero Moghul duecento anni dopo, il retaggio buddhista fu quasi completamente dimenticato in tutto il subcontinente indiano. A tutt’oggi i pochi buddhisti rimasti trovano rifugio soprattutto nelle valli himalayane al confine con il Tibet. Della presenza buddhista alle Maldive, fino alle scoperte di Bell ed Heyerdahl non si seppe più nulla. Molte delle lastre di corallo utilizzate per i templi furono asportate e riciclate per abitazioni e moschee. Tuttavia gli scavi di Heyerdahl furono molto proficui, ed egli riuscì a raccogliere dalle sabbie una discreta collezione di sculture che erano scampate a razzìe e devastazioni dei secoli precedenti.

Nel museo di Malé ho potuto ammirare delle vere perle di quel periodo. Tra queste mi hanno colpito particolarmente alcune teste umane e teste di mucca in pietra di corallo, busti di Buddha e poi alcuni scrigni con simboli buddhisti, tutti risalenti al X secolo. Mi compiaccio della lungimiranza di Gayoom che ha permesso le ricerche e la conservazione di questi reperti nonostante non siano islamici. Mentre visito il museo, mi auguro che questa sua scelta sia di buon auspicio per gli studi futuri della regione. Ho letto che la Cina farà una donazione per ristrutturare il museo e valorizzarne le opere. Ma, come racconterò in seguito, sarò destinato ad una cocente delusione.

Nelle stanze successive sono esposti vestiti appartenuti ai sultani, con tanto di medaglie, pantofole finemente decorate e persino strumenti musicali, tra cui qualche vecchio bodu beru, il tipico tamburo che avrò la fortuna di ascoltare a Felidhoo, come racconterò in seguito. C'è persino un vecchio pianoforte di fabbricazione inglese. In un angolo, un ritratto di Ibn Battuta mi scruta intensamente. Bene! Sarà contento che stia utilizzando i suoi meticolosi appunti per il mio libro.

Nel museo ci sono anche preziosi esemplari dell'artigianato maldiviano così come si è sviluppato nei secoli. In particolare attirano la mia attenzione pregiati tappetini, oggetti laccati (con materia prima importata tradizionalmente dalla Birmania dato che qui non se ne produce) e gioielli finemente cesellati in oro. Una volta, leggo nel diario di Pyrard de Laval, i gioielli in oro erano prerogativa esclusiva del sultano e della moglie: chiunque altro volesse indossarne doveva comprare un permesso, portando così al Sultano un ricco e facile flusso di tributi. Non era però permesso a nessuna, neanche alla più nobile delle donne, indossare bracciali o alcun tipo di ornamento sulle caviglie. C’era poi una complicata regola gerarchica per cui gli anelli potevano essere indossati solo su certe dita e non altre, in modo che tutti fossero immediatamente riconoscibili per il proprio rango. Gli uomini potevano portare anelli solo sul pollice.

Purtroppo nel tempo queste arti (lacche, tappeti, gioielli) sono andate via via scomprarendo, e la produzione che oggi si trova in commercio risponde più a esigenze di turismo da paccottiglia, magari importata dall'India o dall'Indonesia, che a espressioni artistiche tradizionali del luogo. Si può solo sperare che un turismo più selezionato possa ricreare una domanda di qualità prima che questo artigianato sparisca per sempre. O forse che con lo sviluppo economico di fasce più ampie della popolazione si crei anche una domanda interna per questo tipo di merce pregiata, a volte di lusso, che permetta agli artigiani di continuare a produrla? Forse non è ancora troppo tardi.

Here are some of my own pictures of the Museum, taken in 2009 when it was still housed in the old premises and, of course, before the destruction of February 2012.





































Questo post è un estratto del mio libro sulle Maldive


17 March 2009

L'islam alle Maldive

Il muezzin richiama alla preghiera con la consueta regolarità, si sente da tutto il centro di Malé. Di regola, quando parte la registrazione di «Allah-u-akhbar», anche i negozi dovrebbero chiudere per consentire a tutti di pregare senza distrazioni, ma di fatto questo spesso non succede, anzi nel centro di Malé non l'ho mai visto fare. Magari si vede il cartello di prammatica «CLOSED» sulla porta, ma dentro le contrattazioni continuano.

La grande cupola dorata del centro islamico è una delle prime architetture che si vedono arrivando a Malé, il sole la fa brillare e si staglia prepotentemente e fotogenicamente, per dimensioni e colore, sulla monotonia urbanistica dell'isola e sul cielo blu. Il grande edificio di candido marmo bianco è stato inagurato nel 1984 e contiene un'enorme sala di preghiera che può contenere fino a cinquemila persone ed una sala per conferenze sull’Islam. I non mussulmani sono liberamente ammessi, tranne che durante la preghiera, ovviamente come tutti senza scarpe, e senza fotografare l'interno. Entrando noto che l'atmosfera è serena, anche molto fresca se paragonata al caldo esterno, accogliente. Quando arrivo non c'è nessuno, solo qualche bidello che fa le pulizie ed un impiegato che gentilmente mi scorta dentro per una visita.

Non mi fanno entrare, invece, nella vicina moschea antica, detta «del venerdì», per la quale mi dicono serva un permesso speciale, ma ho l'impressione che più semplicemente il guardiano di turno non fosse di buon umore. Forse ci potrò riprovare un’altra volta perché è la moschea più antica delle Maldive e pare che contenga mobili e suppellettili pregiati, con pannelli di legno su cui sono scolpiti i versi del Corano.

La moschea è un luogo preminente nella città. La fede islamica occupa infatti un ruolo preponderante in tutti gli aspetti della vita maldiviana dal tempo della conversione nel 1153. Come in molti altri paesi mussulmani, il ruolo dell'Islam acquisisce qui una dimensione che va al di là della religione per toccare la politica, la vita sociale ed anche quella personale. Ma la commistione tra potere religioso e temporale ha visto comunque, con poche eccezioni nella storia del paese, prevalere quest’ultimo, anche se spesso incarichi religiosi venivano usati per poi acquisire potere temporale. Ma come si è arrivati alla conversione all’Islam delle genti delle Maldive? Non lo sappiamo con precisione, anche se sappiamo che mercanti arabi frequentavano con assiduità i porti della regione a partire dal VII secolo. Ma, come spesso accade in tutto il mondo, dove la storia ci abbandona viene in soccorso la mitologia.

C’era una volta un demonio, chiamato Rannamari, che ogni mese veniva dal mare a minacciare e ricattare le genti delle isole...

Questo post è un estratto del mio libro sulle Maldive. Per comprare il libro cartaceo o in in formato kindle su Amazon clicca qui.

16 March 2009

Il mercato del pesce di Malé

Il mercato del pesce è molto vivo, piuttosto ricco, tutto sommato piacevole anche se non particolarmente variopinto come altri mercati del pesce che ho visto per il mondo. All’ingresso qualche camionetta un po’ insanguinata con secchi di pesce colorato in bella mostra e poi, entrando, un enorme salone maiolicato, non particolarmente pulito ma abbastanza ordinato, con pescatori e compratori in giro un po' alla rinfusa. L'atmosfera è alquanto sommessa, pacata, un po’ fredda per l’illuminazione al neon. Non si sente il gran vociare cui si è abituati in altri simili mercati asiatici, le trattative si svolgono in modo tranquillo. Dietro un lunghissimo bancone una dozzina di pescivendoli lavorano senza sosta con dei lunghi ed affilatissimi coltellacci per pulire il pesce. I tonni, che qui sono protagonisti, vengono prima allineati per terra e divisi per dimensione. Vanno dai più piccoli di qualche chilo a quelli enormi oltre il quintale. Uno alla volta vengono poi issati sul bancone e sfilettati sotto un sottile flusso d’acqua che cade da una fila di rubinetti installati ad intervalli regolari. I tranci rossi sono quindi accatastati di fronte alla clientela mentre le interiora, le pinne e gli altri scarti sono gettati in grandi barili di plastica. Gli avventori ritirano la merce e prima di andarsene infilano una mancia nel taschino della parannanza del pescivendolo che gli ha preparato i filetti. Sono tutti uomini, non si vede neanche una donna in tutto il mercato.

La pesca per secoli è stata la principale industria delle isole, superata solo negli ultimi anni dal turismo, ma rappresenta sempre un buon 15% dell’economia, ed impiega una percentuale ancora maggiore di lavoratori, tra pescatori ed indotto. Senza contare la grande parte della pesca di sussistenza delle famiglie degli atolli più lontani, che non è monetizzata e quindi difficilmente quantificabile. Al di là dell'aspetto meramente economico, la pesca è da sempre l'anima delle Maldive. Se va male la pesca, va male tutta l'economia. Ci mancò poco che si scatenasse una vera e propria rivoluzione quando nell'ottocento i mercanti indiani, spesso con l’aiuto degli inglesi, stavano per soppiantare i locali, o quando Ceylon impose controlli valutari che stavano per soffocare le vendite verso quel paese, principale sbocco delle esportazioni maldiviane di pesce.

I pescatori espongono la loro mercanzia, proveniente dalle barche di tutto l’arcipelago, su semplici banchetti, o semplicemente per terra, qualche volta solo pochi pesci modestamente allineati sulle maioliche bianche. La mattina è protagonista il pesce piccolo, di paranza diremmo noi, mentre nel pomeriggio arrivano i tonnetti, le cernie, le spigolone tropicali, qualche grande tonno d'altura. Ogni tanto qualche crostaceo fa la sua dignitosa figura, anche se essendo questo un paese mussulmano aragoste e granseole non figurano nelle ricette più comuni della cucina locale. Il tutto passa di mano rapidamente. La contrattazione è a tratti frenetica ma misurata nei toni.

Questo post è un estratto del mio libro sulle Maldive. Per comprare il libro formato kindle su Amazon clicca qui.

15 January 2009

Book review: Maldives Bradt Guide (2006), by Royston Ellis, ****

Synopsis

These idyllic islands are famed for their palm-fringed beaches, luxurious resorts, and relaxed pace of life. This fuilly updated guide caters to all types of visitors, from watersports enthusiasts and nature lovers to festival seekers and those wishing to explore the rich island history. Diving safaris, coral garden snorkeling, surfing, windsurfing, and deep-sea fishing are all covered for the energetic tourist, while exploring the atolls and resorts with the aid of this thorough guide is an attractive pastime for the traveler seeking tranquility.

Features include:

* How to choose the perfect resort for tastes and budgets
* Getting around the islands, with cruise options
* A wide variety of watersports
* Accommodation options including beach cottages and overwater bungalows
* Maldivian people and culture and useful words and phrases in Dhivehi


Review

This is a good guide to find your way around the maze of resorts in the Maldives and plan a holiday. Of course I can not possibly verify all the information, research seems to have been done with accuracy.

As for many Bradt guidebooks, I especially found this one valuable for its cultural content: many pages are devoted to the culture, history, social conditions of the country, which you don't find in many guidebooks.

My main criticism is that the author is a bit too uncritical of former president Gayoom, a man who did lots of good to the Maldives but ruled as a dictator, sometimes a brutal one, for three decades.

Several pictures and useful maps complete this book.

Make sure you get the latest edition of the guide when you buy one.

Buy here your English edition:




E qui l'edizione italiana






07 March 2008

Book review: The Voyage of François Pyrard, transl. by Albert Gray, ****

Synopsis

The publications of the Hakluyt Society (founded in 1846) made available edited early accounts of exploration. The first series, which ran from 1847 to 1899, consists of 100 books containing published or previously unpublished works by authors from Christopher Columbus to Sir Francis Drake, and covering voyages to the New World, to China and Japan, to Russia and to Africa and India. Shipwrecked on the Maldives in 1602–1607, Pyrard de Laval learnt the local language and studied the culture, flora and fauna of the islands. On his escape to Goa he continued his cultural investigations in Portuguese India, before returning to France by way of Saint Helena and Brazil in 1611. His book, which included practical advice for French traders travelling to Asia and a phrase book for visitors to the Maldives, was an immediate success. This three-volume translation of the 1619 edition appeared in 1887–1890.


Review

Very useful reference by the French traveler, recently reprinted in its English translation by A. Gray. Detailed historical accounts of the islands, and lots of information on the people, fauna and flora. Obviously dated, but it remains one of the few books to cover the Maldives' ancient history up to the XVII century.







Collector's edition

05 January 2008

La testuggine di Guraidhoo, atollo di Malé sud, Maldive

Continuo ad addentrarmi nei vicoli ed arrivo infine sulla strada principale del villaggio, immediatamente riconoscibile dai tanti negozi di articoli per turisti. Alle Maldive non c’è molto da comprare, e molto di ciò che è in vendita non è prodotto localmente, e dunque non mi interessa. Entro in uno di questi negozi dove ho notato una mia compagna di crociera, Filomena, detta Filo, intenta a contrattare l’acquisto di gioiellini di corallo, parei e conchiglie. Fu amore a prima vista. Appena messo piede sulle fredde maioliche del negozio, noto, per terra, tutte impolverate, quasi nessuno l’avesse neanche degnate di uno sguardo da anni, due grandi testuggini di legno. Ammetto di avere un debole per le sculture di legno, ne ho riportate a casa da un sacco di paesi in giro per il mondo, ma queste testuggini mi hanno subito colpito in modo speciale.

02 January 2008

Bodu Beru a Rakeedhoo, atollo di Felidhoo, Maldive

Lasciamo la barca ancorata in rada e in due gruppetti con il barchino d’appoggio e raggiungiamo il piccolo molo di legno di Rakeedhoo, dove siamo subito accolti da un gruppo di ragazzotti locali, chiaramente ma bonariamente compiaciuti del fatto che siamo solo quattro ragazzi con dodici ragazze al seguito. Chiedo retoricamente dove siano le loro ragazze, già sapendo la risposta, ma stavolta voglio proprio provare ad andare un po’ più a fondo con l’argomento. Mi dicono che le chiameranno per ascoltare la musica insieme a noi ed in effetti così sarà, anche se non proprio come mi sarei aspettato.

In attesa dell’esibizione faccio due passi per i vialetti bui. Non c’è un cane per strada. Nel senso, stavolta, che non c’è nessuno. Poi qualcosa si muove ad una trentina di metri da me e scorgo in lontananza qualche ragazza che passeggia, sono completamente coperte di nero tranne che per il volto. Un’abitudine diffusa nei villaggi, come potrò constatare ripetutamente, anche perché una recente legge maldiviana fa divieto a tutti i cittadini di circolare con un abbigliamento che nasconda l’identità dell’individuo, dunque volto scoperto. Forse un segnale di secolarizzazione, o forse un modo per la polizia di controllare meglio manifestanti scomodi. Comunque c’è anche in tanti altri paesi questa legge, ed anche da noi in Italia, retaggio degli anni di piombo, ma tutto sommato mi pare una legge giusta.

I ragazzi ci conducono verso alcune case e ci sistemiamo su tre lati di un’aula vuota di una scuola vicino al porto. Dopo poco arrivano i musicisti, una banda un po’ raccogliticcia ma simpatica di ragazzi di età diverse e qualche signore più attempato. Qualcuno ha un bel tamburo in mano ma la maggior parte di loro non ha strumenti, son vestiti come tutti i giorni, e si siedono lungo la parete dell’aula che noi abbiamo lasciato libera, sotto due finestre che danno su un cortile interno.

Nel quadro di queste finestre si notano i visi di alcune giovani donne, incappucciate di nero, che guardano dall’esterno cosa succede dentro l’aula. Una di loro tiene un neonato in braccio. Esco dall’aula, giro intorno all’isolato ed arrivo alla sala della festa da dietro, e posso così avvicinarmi alle ragazze che sono ancora alla finestra, a guardare divertite il pandemonio che succede dentro. Dopo qualche sguardo e qualche parola arriva un tizio, che se ne stava lì dietro nell’ombra, probabilmente un parente delle donne, che mi dice che è inutile parlarle perché tanto non parlano inglese. OK messaggio recepito... faccio qualche fotografia e me ne torno indietro. Forse mi sarei dovuto avvicinare accompagnato da una donna italiana, chissà, magari sarebbero state più a loro agio, o magari il torvo parente si sarebbe preoccupato di meno, ma non credo avrebbe fatto alcuna differenza.

Una decina dei ragazzi portano un bodu beru ciascuno e si sistemano davanti ai primi, cinque a destra e cinque a sinistra, in due file indiane contrapposte una di fronte all’altra. Appena tutti hanno preso posto, si scatenano le percussioni. Cominciano subito a suonare ritmi forsennati, accompagnandoli di canti e incitamenti. A turno, uno o due alla volta, i ragazzi senza strumenti si alzano in piedi e saltano verso il centro dell’aula cominciando danze vorticose, esuberanti, quasi esplosive. I nostri membri dell’equipaggio si uniscono presto ai locali. Dopo un po’ qualcuno di loro cerca di rompere il ghiaccio ed invitare le nostre ragazze a ballare...

Questo post è un estratto del mio libro sulle Maldive. Per comprare il libro in brossura o ebook formato kindle su Amazon clicca qui sotto.

22 April 2007

Book review: Ibn Battuta in the Maldives and Ceylon, transl. by Albert Gray, *****

Portrait of Ibn Battuta at the museum of Malè
The diary of Ibn Battuta, the famous Arab traveler of the XIV century who spent about nine months there between 1343 and 1344. He became a court advisor, married and divorced several times, shared his abode with concubines and slaves, and tried, unsuccessfully, to make Maldivian women cover their bodies. His account remains one of the most interesting ever written, except perhaps that of Pyrard de Laval.

This edition is a reprint of the translation by Albert Gray, first published in 1882 in Ceylon.







A must read for anyone interested in understanding Maldivian history.




06 January 2007

Palla avvelenata a Eboodohoo, atollo di Ari, Maldive

Ormeggiamo ad un centinaio di metri dalla spiaggia bianchissima. Accanto a noi ha dato fondo una barca maldiviana, di una decina di metri di lunghezza, che ora è vuota. Andiamo a terra e incontriamo molti maldiviani sulla spiaggia, circa un centinaio. Sono i passeggeri della barca vuota, l’unica oltre alla nostra. Difficile immaginare che siano stati tutti stipati in quello scafo, ma è proprio così. Nessuno di loro fa il bagno.

Su una lingua di sabbia che si allunga dalla spiaggia verso il mare una ventina di bambini ed adolescenti giocano ad una specie di «palla avvelenata». Due squadre di 3-4 persone sono ai due lati opposti di un quadrato immaginario sulla sabbia, al centro del quale sta un terzo gruppo di una decina di ragazzi. A turno ciascuna squadra tira una palla cercando di colpire qualcuno tra la mischia che sta in mezzo. Tutti cercano di schivare la palla, e quando uno è colpito è eliminato ed esce dal gioco. Vince chi rimane per ultimo al centro del campo, e poi si ricomincia. Sono particolarmente brave a tirare la palla le bambine, tutte naturalmente imbacuccate di nero dalla testa ai piedi.

Cerchiamo di fare due chiacchiere con questi ragazzi, ma non è facile. In parte la difficoltà di conversazione è dovuta alla lingua. Per quanto tutti qui studino l’inglese, il livello è piuttosto basso, il loro vocabolario generalmente limitato. Un piccoletto di quattro o cinque anni però è molto disinvolto, si atteggia a capetto di tutti i ragazzini. Mi avvicina e mi chiede, serio serio, se sono mussulmano. Io sorrido e gli dico di no. Poi mi chiede se sono cristiano e gli dico pure di no, non tanto per intavolare una discussione teologica quanto per sondare il suo modo di pensare. La terza domanda, a bruciapelo, è: «Ma se non sei mussulmano e non sei cristiano, che sei?»

Mi trovo in difficoltà. Che gli dico? Certo non posso dirgli che sono un liberale, agnostico, riformista, scettico, con simpatie per l’illuminismo e per il buddhismo (ma solo come filosofia e non come religione) e convinto della necessità di separazione tra Stato e Chiesa nel pieno rispetto della fede religiosa di chi ce l’ha, qualunque essa sia, basta che rispetti a sua volta quella degli altri. O che sono cresciuto in una cultura giudeo-cristiana, che ho inevitabilmente in parte assorbito, ma resto molto autocritico ed aperto ad assorbire elementi di culture diverse che mi possano arricchire.

Alla fine farfuglio qualcosa sulla necessità di pensare con la propria testa, ma è chiaro dal suo sguardo che non mi sono spiegato affatto e tantomento l’ho convinto. Non ho convinto neanche me stesso veramente. Dal suo sguardo infatti penso di essere notevolmente scaduto nella sua considerazione, anche se era venuto da me proprio perché sono il capo della gente della mia barca, e nella cultura degli atolli il capo è sempre il capo. Spero che quando sarà un po’ più grande forse si ricorderà della nostra breve conversazione e la misurerà con occhi diversi. E comunque spero che, anche se non se ne ricorderà, capirà che al mondo non ci sono solo mussulmani o cristiani, e che anche mussulmani e cristiani non sono solamente mussulmani e cristiani ma anche tante altre cose. Di questi tempi, tanti adulti, mussulmani e cristiani, sfortunatamente continuano a non capirlo.

Vivere in una società moderna e complessa rende più difficile spiegare la propria identità, soprattutto in termini semplici, come è necessario per farsi capire da un bambino. Tutto sommato questo è un bene, perché vuol dire che abbiamo identità complesse, sfaccettate, non a senso unico. Amartya Sen spiega bene, nel suo libro Identità e Violenza, che spesso è proprio da un’identità unica o comunque preponderante che ha origine la violenza contro chi di identità unica e preponderante ne ha un’altra. Invece se ci rendiamo conto di avere tutti identità multiple, più facilmente potremo accettare le molteplicità degli altri. Ma a tutto questo ci penso adesso, con calma. Lì per lì sono stato preso alla sprovvista, dopo anni di ricerca politologica e dibattiti in conferenze internazionali mi trovo spiazzato con un bambino maldiviano di neanche cinque anni.

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01 January 2007

Massaggio su una lingua di sabbia senza nome alle Maldive

Queste virgole bianche nel blu del mare sono «la» spiaggia per definizione, pura e semplice, incandescente e liscia, senza distrazioni di alcuna vegetazione o costruzione. Solo qualche conchiglia qua e là, e purtroppo spesso qualche busta di plastica, o una lattina vuota, una classica scarpa vecchia. Queste lingue di sabbia hanno forma e dimensione variabile, emergono e si allargano con la bassa marea e si restringono fino a sparire completamente con l’alta marea. Insomma la spiaggia per antonomasia, la spiaggia «categorica», come l’avrà forse definita Immanuel Kant nelle sue lezioni di geografia, quando gli raccontavano dei mille atolli maldiviani. Certo che ad immaginarsi queste Maldive senza essersi mai spostato dalla costa del freddo e grigio Mar Baltico, e senza l’ausilio di fotografie, Kant deve aver fatto una bella fatica. Ma del resto lui, Kant, è stato forse la massima intelligenza filosofica della storia umana.

Quello che però probabilmente neanche lui immaginava erano le barche di turisti in costume da bagno, con le ragazze in bikini (o anche meno) che si riversano sulla sabbia ad abbrustolirsi per ore dopo essersi cosparsi i corpi di unguenti protettivi per non far la fine degli stoccafissi, il tutto sotto gli occhi di equipaggi di giovanotti maldiviani, provenienti da famiglie di tradizione mussulmana e, almeno da questo punto di vista, piuttosto conservatrice. Non di rado si vedono marinai con gli occhi sgranati, o almeno con lo sguardo sornione che nasconde l’iperproduzione testosteronica, anche se ormai molti di loro ci sono ben abituati. (Ma del resto è un problema con cui devono fare i conti anche tanti bagnini in Mediterraneo!)

Oggi in una di queste lingue di sabbia ci fermiamo per una sosta tecnica, siamo appena partiti da Malé e dobbiamo recuperare il nostro cuoco, Sangiu, da un’altra barca che oggi finisce la crociera e torna indietro. Appuntamento dunque presso questa lingua di sabbia senza nome, che però i marinai conoscono bene perché è una prima comoda tappa una volta lasciata Malé. Ci fermiamo allora anche per una nuotata ed il pranzo, che come sempre consumeremo in barca mentre ci riposiamo tra un’isola e l’altra.

Mi tuffo in acqua e mi comincio ad avvicinare alla spiaggia, una lunga striscia bianca, sinuosa ed arroventata dal sole, una pennellata nel turchese della laguna. Tra una bracciata e l’altra, alzando la testa per respirare, guardo avanti per individuare un punto dove attraversare la barriera di coralli ed avvicinarmi alla battigia. Il gruppo dell’altra barca si sta crogiolando sulla sabbia per l’ultima volta prima di prendere la via dell’aeroporto, ridono, scherzano, sono un po’ tristi che la loro vacanza sia finita. Tutti insieme tranne una ragazza, che si è separata dagli altri e prende il sole sdraiata, appartata verso la punta dell’isoletta, con la schiena ed i lunghi capelli castani distesi sulla sabbia e le braccia spalancate, guarda il cielo, il top del bikini casualmente appoggiato da una parte. Dall’acqua la noto, non posso non notarla, perché le prosperosità generose del suo corpo abbronzato si stagliano con evidenza prorompente sulla linea piatta della spiaggia, mostrando le loro eleganti sinuosità.

Arrivato a terra mi avvio verso il gruppo che chiacchiera dall’altra parte della lingua, per non disturbarla; ma poi, passeggiando così per caso, in fondo le distanze sono brevi, mi porto dalla sua parte dell’isoletta. OK lo ammetto, l’itinerario della mia passeggiata non era proprio completamente casuale. Lei mi nota e si gira su sé stessa, si sdraia a pancia in giù e rivela la schiena nuda completamente coperta di sabbia, guardandomi con la guancia appoggiata sul dorso delle mani che sono piatte per terra, con il top del bikini sempre accartocciato a qualche metro di distanza. Arriva qualcun altro. Chiaro che l’abbiamo disturbata nella sua riservata solitudine naturista, ma è simpatica, non se la prende ed anzi si chiacchiera tutti insieme allegramente. Veramente siamo più allegri noi, che siamo appena arrivati, di lei, che sta per tornare a casa. Si rammarica che la sua vacanza sia al termine.

Le propongo disinteressatamente di continuarla sulla nostra barca, tanto lo spazio c’è perché una coppia ha annullato proprio il giorno prima di partire, ed abbiamo due cuccette vuote, avrebbe una cabina tutta per lei. Mi dice che verrebbe volentieri ma che non saprebbe come contraccambiare l’ospitalità. Scherzosamente sottolineo che non c’è da preoccuparsi, qualche modo lo troviamo, magari sa fare qualche massaggio... e lei senza esitare dice che sì, fa ottimi massaggi ai piedi! Non me lo faccio ripetere due volte. Mi siedo sulla sabbia infuocata e le offro le mie estremità inferiori. Lei non si deve neanche muovere di un centimetro, sempre sdraiata a pancia in giù, allunga le mani in avanti e comincia a praticarmi un massaggio da sogno che si protrarrà per il successivo quarto d’ora...

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08 March 2006

La cernia di Felidhoo

Il più gran bel pesce della mia vita
È finita un’altra giornata di sole, ora tocca alla luna piena, che si è già levata alta all’orizzonte e si rispecchia trionfalmente sulla laguna appena increspata. Ci prepariamo per andare a pesca. Ami, filo di nylon, esche, torce elettriche, l’equipaggio controlla tutto, poi in quattro saltiamo a bordo del barchino d’appoggio, poco più che una zattera di vecchie assi di legno che si tiene insieme un po’ per miracolo. Dopo qualche strappo di avviamento a vuoto e uno scoppiettamento esitante, il fuoribordo inizia a borbottare e si parte in direzione est, verso le secche al limite della barriera corallina. A mano a mano che ci allontaniamo dalla barca il mare si fa più grosso, niente di ché ma si nota la differenza rispetto alla calma piatta che ci siamo lasciati dietro nella rada di Fulidhoo. Ci allontaniamo ancora, le onde si fanno più lunghe, e le ultime luci del paese e della nostra barca Wattaru spariscono in lontananza. Siamo praticamente in mare aperto, ancora poche centinaia di metri ed usciremmo dalla protezione della ciambellona dell’atollo. Procediamo con lentezza, i banchi di corallo appena affioranti sono appena visibili al chiaro di luna e con le onde rischiamo di far danni seri al piccolo barchino d'appoggio. Ahmed è in piedi a prua, si regge in equilibrio con la cima dell’ancora e guida la barca attorno agli scogli a pelo d’acqua. Dopo un buon quarto d’ora gettiamo l’ancorotto, inneschiamo gli ami ed iniziamo a pescare.

O meglio, ad aspettare. I minuti passano lenti sul nostro guscio di noce, è piacevolissimo farsi cullare al chiaro di luna, ma di pesci non ne abbocca neanche uno. I nostri marinai dopo un po’ si spazientiscono. Tiriamo tutto su, ancorotto, esche e tanta acqua fresca, e si riparte; altro giretto per scogli affioranti e quindi, dopo una breve consultazione tra di loro, decidono di riprovare. Pluff! Ancorotto in mare, filetti di pesce sugli ami e si ricomincia. Capiamo subito che la musica è cambiata: dopo un paio di falsi allarmi («hahaha, pesce corallo!» se la ridono i due mentre qualcuno di noi combatte con l’amo incastrato nella barriera sottostante) iniziano a venir su begli spigolotti di un buon chiletto ciascuno. Be’ l’onore è salvo. Ed anche la cena a base di pesce, con l’olio d’oliva italiano naturalmente. Comincia a far tardi, in barca ci staranno aspettando per cena, ma dobbiamo cercare di prendere ancora un po’ di pesce, siamo in tanti da sfamare a bordo. Ed è a questo punto che sento tirare veramente forte alla mia lenza. Curiosamente, non batto ciglio, sono infatti sicuro che si tratti di un corallo e do qualche strattoncino per disincagliare l’amo, che però continua a tirare il filo di nylon che si tende pericolosamente, sta per rompersi. C’è corrente, immagino la tensione sia dovuta alla barca che si sposta mentre il corallo resta fermo, e passo la lenza a Ahmed perché mi aiuti a disincagliarla. Lui dà uno strattone e, senza scomporsi, sentenzia: «Big fish!».

A questo punto comincio a scaldarmi. L'adrenalina sale, deve essere veramente grosso per tirare a quel modo. Mi sento per qualche minuto come il pescatore in Il vecchio e il Mare quando abbocca la grande preda che comincia a trascinargli la barca. Ahmed comincia a recuperare la lenza, sto pronto per dargli una mano ma ovviamente non ne ha bisogno. Poi mi passa il filo di nylon, mi dice di fare piano, ed infatti, stranamente, il pesce ha smesso si strattonare. Continuo a recuperare, ma di tanto in tanto Ahmed prende lui in mano la lenza. Ci sta mettendo molta attenzione a questo pesce, deve avere i suoi buoni motivi. Ed infatti... dopo un po’ di tira e molla vediamo dimenarsi sottobordo una cernia monumentale. È sfinita, si muove poco, o forse chissà, è vecchia, malata, ferita? La issiamo a bordo, e si va a depositare senza tante storie sul fondo della barca, è uno spettacolo! Ahmed la stima sui 15 chili di peso, anche scontando un po’ l’inevitabile euforia da pescatore, sicuramente siamo oltre i dieci. Gran bel pesce...

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05 May 2003

Ode Triste del Mare, dagli atolli maldiviani.

La fin de lo vagare è già imminente
e quindi è d'uopo dir lo risultato
per quelli ch' hanno avuto e per chi ha dato
ed anche per chi fu per scelta assente.

Partendo c'è chi forse avea sperato
d'andar per mare verso il Paradiso;
tuffarsi giù nel blu con un sorriso
e risortirne fora un po' rinato.

Solcando il mar, felici, il vento in viso
ci siamo infine in sedici trovati
(che se non c'erano andavano inventati)
a rimpinzarci a pesce, curry e riso!

Tra vodka, carte e stelle amalgamati,
qualcuno fu contento, alcun deluso,
e mai nessuno mise il brutto muso
e certi son financo innamorati!

E' l'ora del sipario, il club è chiuso,
è bello ritrovarsi con se stessi.
Nel mondo, ci son proprio tanti fessi,
... e forse ce l'ho anch' io il cervello fuso!!

04 May 2003

L'olio d'oliva extra-vergine alle Maldive

Dopo cena quattro compagni di crociera vanno a pesca con il barchino d’appoggio, poco più di un guscio di noce. Il piccolo fuoribordo li porta un po’ lontano dalla rada dove siamo ancorati. C’è la luna piena, la laguna è calma come l’olio, il cielo quasi pulito, il silenzio (quando convinco il comandante a spegnere il generatore di bordo) è assoluto. Dopo un paio d’ore gli intrepidi pescatori tornano con un sacco di pesci di media taglia, che domani saranno il nostro pranzo, un po’ fritti, che qui va molto, ed un po’ semplicemente grigliati e conditi con un po’ d’olio d’oliva e limone.

D’abitudine quando vado in crociera alle Maldive chiedo a tutti i miei compagni di viaggio di portare dall’Italia un po’ di limone (più saporito del lime locale) e un po’ di olio d’oliva extravergine della propria regione (qui si trova più che altro olio di semi). Si sa che in Italia siamo un po’ tutti maniaci dell’olio della nostra terra. Anche a Bruxelles, dove vivo, è divertentissimo ascoltare le discussioni tra italiani espatriati riguardo all’olio d’oliva. Con il vino è diverso: tutti vantano le doti organolettiche dei vini della propria regione, ma c’è una generale disponibilità ad apprezzare anche i vini di altre regioni, e magari stranieri.

Con l’olio no: ognuno è sinceramente convinto che quello della propria regione, qualunque essa sia, se non della propria provincia, per non parlare di quelli che lo producono in famiglia, sia oggettivamente il migliore olio del mondo, che non ci sarebbe neanche da doverlo dire tanto è ovvio: l’acidità, il sapore, il colore, la leggerezza, tutto grazie al sole, al terreno, alla macrobioticità, la coltivazione «bio», ecc. ecc. Si vedono le persone più equilibrate e mansuete irrigidirsi, scattare di nervi, solo a suggerire che magari in altre regioni italiane (oppure, sacrilegio, all’estero!) ce ne sia di altrettanto buono o, percaritàdiddio, di migliore, e magari a prezzo più conveniente. Forse, in tutta Italia, solo i residenti delle valli ladine non accampano con convinzione il primato sull’olio d’oliva.

Tutto questo è un ridicolo campanilismo, frutto di ottusità culturale e miopia degustativa. Perché azzuffarsi così puerilmente? Tanto si sa che l’olio migliore del mondo è indiscutibilmente quello pugliese, e precisamente quello del Gargano, ed in particolare quello prodotto sui «Monticelli» alla periferia di Manfredonia dove mio nonno materno per decenni accudiva i suoi uliveti. Al quale, oggettivamente, può tener testa solo quello calabrese prodotto dai miei cugini Carlo e Giuliana, specificatamente della provincia di Catanzaro ed esattamente di Lamezia Terme, che mio padre mi riporta ogni tanto quando torna a visitare i nostri familiari. Chiarito questo,...


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02 May 2003

Pallanuoto su una lingua di sabbia senza nome, atollo di Ari, Maldive

Un venerdì, il giorno di festa settimanale mussulmano, ci ancoriamo verso mezzogiorno nei pressi di uno di questi banchi di sabbia senza nome. C’è già lì prima di noi, quasi arenata sulla riva, una barca di maldiviani in vacanza. Una scolaresca assortita: bambini e molti adolescenti, qualche giovane più grande, forse gli insegnanti o gli accompagnatori. Hanno messo su campo, c’è una grande tenda e molte vettovaglie sparpagliate qua e là, bevande fresche. Ci incrociamo in acqua e sulla sabbia, ancora una volta la comunicazione verbale è limitata ma mani e sorrisi fanno molto per instaurare una forte simpatia reciproca.

Ad un certo punto salta fuori un pallone, ed inizia subito una partita di pallanuoto un po’ anarchica tra italiani e maldiviani, senza porte, senza arbitro e senza regole, ci passiamo solo la palla cercando di non farla catturare alla «squadra» avversaria. Un gran guazzabuglio il cui unico vero scopo in realtà è farsi delle sonore risate: loro se le fanno probabilmente per la nostra goffaggine di cittadini impacciati e tutti più o meno in sovrappeso, noi... pure. Partecipano anche le ragazze, ed in questo tipo di gioco non può mancare il contatto fisico, anche involontario; certo fa una certa impressione vedere le nostre agitarsi in acqua in risicatissimi bikini affianco alle loro in tessuto nero dalla testa ai piedi.

Mi faccio anche qualche fotografia al loro fianco, ma solo dopo che i loro uomini (fratelli, cugini, mariti, compagni di classe, non saprei dire) fanno cenno che non c’è problema, anzi vengono a posare anche loro. Dopo una mezz’ora siamo stremati e stramazziamo sulla spiaggia, rifocillati da qualche noce di cocco che ci viene gentilmente offerta. Ci facciamo un sacco di foto, i bambini come sempre sono curiosi di guardarsi subito negli schermi delle macchine digitali che qui nei villaggi ancora sono poco diffuse. Ci piacerebbe inviargli una copia delle foto ma la cosa è praticamente impossibile perché non riusciamo a capire se hanno un indirizzo di posta elettronica, qui è ancora agli albori, oppure sono restii a darlo (non credo) e poi non sapremmo dove scriverlo...

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