01 June 1991

Situazione in Bulgaria

Relazione preparata per GETECNA. Le valutazioni e le opinioni espresse in questo studio sono dell'autore, e non devono essere attribuite all'Istituto Affari Internazionali.


Lo sfondo storico e culturale

La Bulgaria ha storicamente avuto poca esperienza con la democrazia. Il paese ha conquistato l'indipendenza dall'impero ottomano nel 1878, dopo cinque secoli di sottomissione politica e culturale. Una consistente minoranza etnica turca rimaneva comunque nella Bulgaria indipendente. Il problema bilaterale con i turchi, di cui si dirà di seguito, ha dunque radici antiche. Nel nostro secolo, già nel 1934 ci fu un tentativo da parte di Sofia di bulgarizzazione forzata, con l'obbligo di cambiare i nomi delle città turche in nomi bulgari; il tentativo ebbe risultati limitati, ed il problema si sarebbe riproposto in seguito.

Subito dopo l'indipendenza si assisteva a vani tentativi di stabilire nel paese una monarchia costituzionale con parlamento eletto a suffragio maschile universale. Le classi medie, che tale sistema logicamente favorivano, erano però ancora deboli, e prevalevano quindi le tradizionali aristocrazie, autoritarie e conservatrici. Altri tentativi democratici vengono effettuati subito dopo la prima guerra mondiale (come quello dell'Unione Agricola), ma falliscono. I partiti democratici vincevano ancora un'elezione nel 1931 ma un colpo di stato provvedeva subito a restaurare l'autoritarismo monarchico.

Durante la seconda guerra mondiale i comunisti si univano al fronte popolare si alleavano nella lotta contro l'Asse, con cui invece si era schierato il governo. Subito dopo la guerra diveniva però chiaro che i comunisti consideravano l'alleanza con le altre forze politiche anti-fasciste solo come un primo passo verso la conquista di tutto il potere. Nikola Petkov organizzava un cosiddetto Blocco di Opposizione contro i comunisti, e riceveva quasi due terzi dei voti nelle elezioni generali dell'Ottobre 1946, nonostante la dura compagna di intimidazioni perpetrata dai comunisti.

L'Occidente è in questa fase generalmente indifferente, e non aiuta il Blocco in alcun modo. La Bulgaria cade nella sfera di influenza sovietica concordata tra le tre potenze vincitrici, e Stalin ha quindi mano libera. Petkov viene arrestato e condannato a morte per tradimento e con lui moriva ongi speranza di democrazia per il paese per i successivi 45 anni.

In sintesi, la Bulgaria è stata governata prima dall' autoritarismo monarchico che rifiutava la democrazia come "anarchica"; e poi dal comunismo che la rifiutava come "borghese". Non deve quindi sorprendere che le radici dell'attuale coalizione di forze democratiche non abbia radici profonde; al contrario, si deve rilevare che nonostante la mancanza di tradizioni democratiche si assiste nel paese ad una transizione sorprendentemente pacifica ed illuminata, che lascia ben sperare per il prossimo futuro.

Il paese nel "blocco sovietico"

Durante il quarantennio di regime comunista la Bulgaria è stata, per antonomasia, il paese più acquiescente con Mosca, l'unico "satellite" a non aver mai avuto problemi con nessuno dei leader che si sono avvicendati al Cremlino nel dopoguerra. Todor Zhivkov, segretario generale del Partito Comunista bulgaro (PCB) ininterrottamente dal 1954 al 10 novembre 1989, aveva detto, non a torto, che Bulgaria ed Unione Sovietica vivevano dello "stesso sistema circolatorio".

Con l'avvento al potere di Gorbaciov, Zhivkov, coerentemente a quanto detto sopra, inizia a seguirne le orme in materia di riforme, ma cade inevitabilmente nel paradosso: per essere ortodosso deve iniziare a smantellare l'ortodossia stalinista, principale bersaglio delle riforme gorbacioviane. Come altri leader comunisti nella regione, tenta un impossibile compromesso, cercando di democratizzare il socialismo reale e di avviare riforme verso un "socialismo di mercato". Nel luglio 1987 annuncia le prime elezioni con candidati multipli (ma sempre comunisti) e concede più libertà per i media.

Nel frattempo, il paese si sveglia da un lungo torpore politico e culturale. In mancanza di partiti politici, i "Club per Perestrojka e Glasnost", inneggianti a Gorbaciov, proliferano nel paese, e sfuggono presto ad ogni controllo da parte del centro, che non può certo reprimere chi inneggia alla guida del comunismo mondiale. Vengono ostacolati però dalle autorità locali. D'altra parte, il rinnovamento si sviluppa anche all'interno dello stasso partito, soprattutto nelle generazioni più giovani.

Infatti, è nel partito che si prepara l'avvio delle riforme "gorbacioviane", anche se probabilmente pochi ne prevedevano le conseguenze. Il giorno dopo la caduta del muro di Berlino (9 novembre 1989) al vecchio Zhivkov viene stato fatto capire che la sua epoca politica era finita. A rendere inevitabile la svolta, nella nuova epoca della glasnost sovietica, assumeva un tono grottesco il culto della personalità che Zhivkov aveva favorito, accrescendosi i meriti personali e il ruolo svolto durante la guerra di resistenza. I suoi discorsi sono stati pubblicati in 38 volumi, e sono stati esaltati al limite del ridicolo persino i suoi supposti contributi teorici all'ideologia marxista-leninista. A tutto ciò si è aggiunta un'inclinazione sempre più accentuata al nepotismo che ha privilegiato figli e nipoti, tutti - tranne forse Ljudmila, dotata di propria personalità - rivelatisi incompetenti e inadatti ai compiti loro assegnati.

Subito dopo la sua estromissione iniziava la prevedibile epurazione del suo clan, che si sgretolava sotto le accuse di corruzione. Gli succedeva alla massima carica del partito il suo ministro degli esteri (dal 1971!) Petar Mladenov, che (sembra dopo consultazioni con Mosca dove avrebbe segretamente fatto scalo di ritorno da un viaggio ufficiale a Pechino) che subito annuncia riforme economiche e politiche radicali. Nel gennaio 1990 si modifica addirittura l'articolo 1 della costituzione, in base al quale veniva assicurato al PCB il ruolo guida nella società.

Un cenno a parte meritano alcune caratteristiche peculiari della politica economica comunista in Bulgaria.1 A differenza della Romania, dove un ambizioso progetto riformatore imperniato sull'industria petrolifera è stato perseguito con decisione nonostante i suoi esiti si siano poi rivelati disastrosi, la Bulgaria ha mostrato sempre grande cautela nello sviluppo dell'industria pesante e si è sforzata di ricercare e di mantenere un equilibrio agro-industriale più consono alle caratteristiche del paese, Le ragioni, dunque, della sua crisi economica (e più tardi politica) debbono essere individuate piuttosto nella parzialità delle riforme avviate. La loro limitatezza era, infatti, inadeguata a sciogliere i nodi strutturali che pesavano sull'economia e sulle istituzioni del paese. Nonostante, insomma, una serie incalzante di piccole riforme, e due tentativi di maggior respiro perseguiti negli anni Sessanta e alla fine degli anni Settanta, i comunisti bulgari non sono stati capaci di mettere in discussione fino in fondo il ruolo dello Stato nell'economia e, in particolare, il suo controllo sul sistema dei prezzi e la sua politica fiscale e la rigidità dei meccanismi di pianificazione.

Ancora nel 1986 la Bulgaria respingeva ogni prospettiva di economia di mercato. Di conseguenza, le novità contenute nel "Nuovo Meccanismo Economico" introdotto alla fine degli anni Settanta, e che ambiva a collegare i salari delle aziende alla produttività, privandole dei sussidi di Stato per favorire l'individualizzazione autonoma di fonti di finanziamento o di reddito, si sono presto scontrate con il boicottaggio della burocrazia che ha reso difficoltosi i rifornimenti e ha mantenuto "temporaneamente " in azione tutti i preesistenti canali di intervento amministrativo nell'economia.

La stessa autogestione, lanciata nella primavera del 1986, da un lato ha permesso all'azienda di negoziare con gli organi centrali sulle caratteristiche della produzione, dall'altro ha attribuito però allo Stato la decisione finale. Si è continuato a fissare i prezzi in modo arbitrario, mentre la leva fiscale è stata utilizzata per mantenere elevato l'egalitarismo fra gli strati sociali, a scapito degli incentivi necessari a dinamizzare l'economia. Benché solo la piccola impresa (con meno di 200 dipendenti) sia riuscita nell'ultimo decennio a godere di una relativa autonomia ( pur in un quadro sottoposto alla "tutela" statale) e a ritagliarsi un proprio spazio di sviluppo, il quadro generale dell'economia bulgara non ne ha risentito in termini positivi. Anche la liberalizzazione dei rapporti di lavoro avviata nel 1987 ha circoscritto a tal punto le possibilità d'azione della micro-imprenditorialità da non permetterle di uscire dai limiti dell'iniziativa strettamente individuale.

Agli inizi degli anni Settanta, inoltre, la Bulgaria aveva provato a riorientare le proprie esportazioni verso l'area a valuta convertibile. Il risultato si è rivelato presto rovinoso e si è tradotto nella contrazione di un pesante debito con l'estero giunto nel 1989 a 10 miliardi di dollari. Con l'estate del 1985, e in concomitanza con un paio di annate (1984-1985) rivelatesi disastrose per l'agricoltura a causa delle alterate condizioni climatiche, l'Urss ha deciso di sospendere i privilegi concessi alla Bulgaria nel pagamento delle forniture di petrolio e gas, in quanto il nuovo spirito della perestrojka imponeva di abbandonare le considerazioni politiche e fondare invece le relazioni economiche sulla base della reciproca utilità. La Bulgaria ha dovuto così affrontare una pesante crisi energetica che si è riflessa negativamente tanto sull'industria quanto sull'agricoltura, disarticolando vieppiù un sistema produttivo ormai rivelatosi inadeguato ad assicurare lo sviluppo del paese.

Recenti sviluppi politici

Politica Interna

Al Congresso straordinario del partito in gennaio 1990, Mladenov lascia la segreteria generale ed assume il ruolo puramente cerimoniale di capo di stato mentre Andrei Lukanov, un rispettato apparatchik, è il nuovo Primo Ministro; Alexander Lilov, un comunista riformatore che era stato epurato da Zhivkov nel 1983, è il nuovo capo del partito.

Al Congresso segue la solita litania di riforme istituzionali e manifestazioni di ravveduta apertura politica. Il partito cambia nome e diventa "socialista", si denunciano le pratiche "totalitarie" del passato, si richiamano i collegamenti al socialismo democratico dell'Europa occidentale. Molti che avevano lasciato il partito vi ritornano e contribuiscono a rendere la vita politica al suo interno più vivace. Anche il giornale di partito abbandona la vecchia linea e diventa più interessante ed informativo.

Si forma intanto anche un altro partito socialista che si autodefinisce "alternativo", e spinge per una rapida occidentalizzazione del paese. Parallelamente, si attua una epurazione e una riforma strutturale anche di sindacati, dei movimenti studenteschi, dei partiti "alleati" dei comunisti.

Infine, si intavolano negoziati, sotto forma di "tavola rotonda", anche con le opposizioni non socialiste, un po' come era avvenuto nella primavera del 1989 in Polonia. La tavola rotonda giunge ad accordi su libere elezioni parlamento, che avrebbe carattere provvisorio, e resterebbe in carica solo per 18 mesi sia come legislatore che come costituente, fino a nuove elezioni politiche generali. Viene garantita la libertà di registrazione per tutti i partiti politici. Infine, per garantire la necessaria libertà di informazione, si abolisce definitivamente la censura.

Durante la campagna elettorale del 1990 si assiste al crollo politico di Mladenov, che il precedente novembre era stato ripreso da una telecamera a sua insaputa mentre incitava all'uso della forza per reprimere dimostrazioni di piazza a lui ostili durante un comizio. Imbarazzato, Mladenov prima negava di aver parlato ed accusava l'opposizione di aver manomesso il nastro, poi ammetteva che questo fosse autentico ma ne minimizzava l'importanza. Incoraggiato anche dal suo partito, Mladenov si dimetteva dalla presidenza dello stato alla vigilia delle elezioni, e veniva sostituito da Zhelev. Il presidente Zhelyuv Zhelev è un ex-dissidente.

Le elezioni hanno luogo nel giugno del 1990, e la tabella che segue ne riporta i risultati. Si nota la vittoria dei socialisti (ex-comunisti), che però non è stata cosí assoluta come spesso riportato dai media occidentali. Il PSB non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, anche se il meccanismo elettorale gli ha permesso di cumulare più della metà dei seggi nella Grande Assemblea Nazionale, come viene chiamato il Parlamento/Costituente. Si nota inoltre che ci sono stati seri problemi per tutti i neo partiti: mentre socialisti (ex-comunisti) hanno potuto appoggiarsi a strutture ed esperienze accumulate in 45 anni di monopolio del potere, gli altri dovevano incominciare da zero. Tuttavia, nonostante notevoli resistenze a livello locale, il governo centrale ottemperava agli obblighi assunti nella tavola rotonda e metteva a disposizione per la campagna elettorale i media statali (televisione e radio) e i mezzi per operare quelli privati (stampa).

Notevole, anche se inferiore alle aspettative, il risultato della coalizione di partiti presentatisi nella lista dell' Unione delle forze democratiche, (UFD) una coalizione di una decina di gruppi anti-comunisti formatasi subito dopo la caduta di Zhivkov, con crescenti problemi di coesione via via che si differenziava la vita politica del paese e spariva la "minaccia comune" rappresentata dallo spauracchio del comunismo.


Elezioni Politiche, 1990

voti percentuale seggi

Socialisti (ex-comunisti) 2.886.363 47,15 211

Unione Forze Democratiche 2.216.127 36,20 144

Unione Agraria Nazionale 491.500 8,03 16

Diritti e Libertà 368.929 6,03 23

Altri 158.279 2,59 6

Fonte: Duma, 25 giugno 1990

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Ma la vittoria nelle elezioni (tutto sommato abbastanza corrette, anche se sono state rilevate sporadiche manipolazioni) non apriva un periodo di stabilità, né per il partito, né per il paese. Per molti bulgari il PSB incarnava la continuità con il precedente regime, e frequenti erano le manifestazioni di insofferenza popolare dopo la vittoria elettorale; frutto, queste, dell'ancora acerba mentalità democratica del popolo bulgaro. Dopo aver richiesto la rimozione della grande stella rossa che troneggiava sul tetto dell'edificio del comitato centrale del partito a Sofia, il 26 agosto 1990 una folla metteva in atto una vera e propria invasione, seguita da saccheggio ed incendio del quartiere generale del partito. Questo sorge proprio accanto al mausoleo di Dimitrov (il fondatore del comunismo bulgaro, la cui salma imbalsamata, come quella di Lenin nel mausoleo di Mosca, era stata però già precedentemente rimossa e cremata). Il presidente Zhelev, rientrato d'urgenza a Sofia da Varna, non riesce a calmare la folla (spontanea o organizzata, e se così da chi, non si sa ancora di sicuro). La polizia, presente in forza, non interviene per diverse ore, e quando lo fa si limita a fermare pochi pregiudicati. Alla fine di tutto, ironicamente, la stella rossa aveva sopravvissuto sul tetto dell'edificio carbonizzato dalle fiamme.

Il processo di revisione costituzionale in Bulgaria è ancora in corso, forse la prima bozza della nuova costituzione si avrà a luglio. Le nuove elezioni politiche sono previste per l'Autunno. Parte delle opposizioni le avrebbe volute prima, allo scopo di gestire la fase costituente con un parlamento che si prevede sarà meno dominato dal PSB. Ma su questo si sono divise le precedentemente unite forze anti-comuniste.

Si sottolinea anche la nuova forza acquisita dal movimento monarchico, che è riuscito a riproporre il quesito sulla forma istituzionale dello stato ma difficilmente vincerà il referendum del 15 luglio sull'argomento.

Un cenno a parte merita il partito "Movimento dei diritti e delle libertà", conosciuto come il partito "dei turchi". Sono vietati in Bulgaria i partiti su base di religione e etnia, ma il movimento, fondato dal turco Dugan, di fatto rappresenta gli interessi dell'etnia turca. Si propone di ottenere che lo stato restituisca i beni e i posti di lavoro persi dai turchi bulgari emigrati nel 1989. Vuole processare i responsabili della scriteriata politica di assimilazione forzata, consentire l'insegnamento facoltativo del turco e della religione islamica nelle scuole frequentate da scolari turchi, favorire la restaurazione delle moschee chiuse o danneggiate dai comunisti.

Anche se il movimento difende nominalmente i diritti di tutte le minoranze, ed evita di identificarsi esplicitamente con quella turca, di fatto è diventata tale. Per questo motivo, il movimento è piuttosto isolato. Altre forze politiche che ne dividono gli ideali temono però che una collaborazione con loro potrebbe alimentare un nazionalismo bulgaro di reazione.

La campagna elettorale ha dimostrato un'altra caratteristica della nuova Bulgaria: libertà per i media è cosa ormai acquisita. Si è assistito in Bulgaria ad una proliferazione di giornali, molti però presto si sono trovati in difficoltà economiche e probabilmente dovranno chiudere. Si comincia insomma a vedere il funzionamento del normale gioco democratico, sottoposto alle leggi di mercato. Tagli quindi anche alle sovvenzioni per i media statali, molte stazioni radio locali dovranno chiudere. Comunque la competizione con i privati ha già fatto notevolmente migliorare la qualità dei media di stato, che godono oggi di maggiore stima che non in passato, quando avevano il monopolio.

Politica Estera

Le due linee principale della nuova politica estera del paese sono state di apertura ad Occidente e di mantenimento di buone relazioni con l'URSS. Grande attenzione anche alla politica regionale nei Balcani. Minore attenzione invece verso il Terzo Mondo, sia per la fine degli aiuti motivati ideologicamente del periodo comunista, sia perché è la Bulgaria che oggi si trova per molti versi nella posizione di un paese in via di sviluppo.

Il Primo Ministro Popov ha accettato di firmare un Trattato di "amicizia e cooperazione" con l'URSS, cosí come ha già fatto la Romania. Ma è stato riluttante ad accettare la clausola che obbliga i contraenti a "non far parte di alleanze che potrebbero essere giudicate ostili dall' altro contraente". Il problema è che la Bulgaria, dopo lo sciogliomento del Patto di Varsavia, sta ancora definendo una propria politica di sicurezza, e oscilla tra l'atteggiamento più occidentaleggiante di Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia (che cercano legami più stretti possibile con la NATO, con l'ambizione di poterne un giorno farne parte) e quello più nazionalista della Romania, mirante soprattutto ad evitare influenze esterne). Si ricerca attualmente un compromesso, ma è probabile che, se la questione non sarà risolta entro la legislatura, il prossimo governo, verosimilmente non gestito dai socialisti, assumerà un atteggiamento più orientato ad occidente ed il trattato con l'URSS non si farà più. Un elemento che ha causato qualche attrito nei rapporti diplomatici bilaterali è stata la reazione negativa della Bulgaria alla repressione nei paesi baltici all'inizio del 1991. I sovietici hanno dichiarato che l'atteggiamento bulgaro era un "interferenza negli affari interni sovietici".

In questo momento (giugno 1991) Popov vuole migliorare le relazioni (soprattutto commerciali) con l'URSS, ma non apparire politicamente sottomesso a Mosca, cosa che lo renderebbe vulnerabile alle prossime elezioni. La sola forza che appoggia Mosca senza riserve è il Fronte del Lavoro Patriottico. In ogni caso, le prospettive di un negoziato con la NATO sono ancora molto remote, in quanto quest'ultima non ha alcun interesse a creare problemi per Gorbaciov ed ha quindi escluso di poter allargare i propri ranghi ad oriente.

Come tutti gli altri paesi ex-socialisti, la Bulgaria cerca un'associazione più stretta possibile con la Comunità Europa, verso la quale cerca di orientare le proprie esportazioni (soprattutto agricole) e dalla quale sta già ottenendo importanti aiuti economici. Significativi anche i recenti viaggi del presidente Zhelev anche in USA e Giappone alla ricerca di aiuti economici e tecnologici.

La Bulgaria ha fatto domanda per l'ammissione nel Consiglio d'Europa, e stante il progresso nel rispetto dei diritti umani ha buone probabilità che venga accettata, probabilmente entro il 1992. Molto dipenderà dall'andamento delle prossime elezioni e dall'evoluzione della condizione della minoranza turca.

Ed è proprio con la Turchia, che ultimamente Sofia è riuscita a migliorare le relazioni, seriamente danneggiate dall'atteggiamento provocatorio ed irragionevole del regime di Zhivkov. Si è detto della bulgarizzazione dei nomi delle città nel 1934. Nel 1981 una legge eliminava l'indicazione di nazionalità nei passaporti interni, cercando di creare l'impressione di una avvenuta omogeneizzazione della popolazione. Nel 1984, a tutti i cittadini dello stato veniva fatto obbligo di bulgarizzare i nomi e cognomi. La campagna di assimilazione forzata delle minoranze turche assumeva nuova intensità nel 1984-1985, aggravando un problema annoso, e ravvivando l'astio reciproco secolare tra i due popoli e tra i due stati.

La situazione diventava esplosiva nel 1989, con scioperi della fame e repressioni brutali. Zhivkov, ormai quasi farneticante, sosteneva che in realtà le minoranze turche erano solo bulgari forzatamente convertiti all'islamismo durante l'impero ottomano. Quando la Turchia apre le frontiere si assiste a fughe in massa (più di 300.000 persone) non molto diverse da quelle cui più o meno contemporaneamente si assisteva tra le due Germanie. Dopo che la Turchi ammassava truppe in Tracia si è temuto anche il pericolo di un conflitto armato. L'esodo conquistava comunque l'attenzione del mondo, da cui veniva una condanna generale per la violazione dei diritti umani in Bulgaria.

Dopo il cambio di regime a Sofia, parallelamente alla graduale revoca della politica di assimilazione forzata, migliorano le relazioni bilaterali, in parte con l'utile mediazione del Kuwait (fino alla primavera del 1990!). Ci sono scambi di visite ufficiali, anche a livello militare. La Turchia concede prestiti (100 milioni di dollari), e petrolio (50.000 tonnellate), di cui la Bulgaria privata dell'approvvigionamento iracheno ha disperato bisogno. Nel 1991 si ha addirittura l'abolizione dei visti per i turisti. 100.000 dei turchi emigrati dal 1989 ritornano in Bulgaria. Zhelev estende anche un invito ad Ozal a visitare Sofia, che potrebbe significare la definitiva normalizzazione dei rapporti bilaterali.

Problemi annosi anche con la Jugoslavia sulla questione macedone. La Macedonia è terra di etnia mista, assegnata alla Bulgaria all'atto della fondazione dello stato bulgaro dal trattato russo-turco di S. Stefano nel 1878, ma divisa al Congresso di Berlino, pochi mesi dopo, con Serbia, Grecia e Albania. Fu occupata brevemente dai bulgari durante le guerre balcaniche subito prima della Prima Guerra Mondiale. A differenza della Jugoslavia, Bulgaria e Grecia non le riconoscono lo stato di etnia slava distinta. 2 I nazionalisti post-comunisti accusano il BCP/BSP di aver trascurato gli interessi nazionali bulgari nella questione macedone, concedendo troppo alla Jugoslavia che non rispetta i diritti dei bulgari in Macedonia. Belgrado, ed il governo repubblicano di Skopije, invece accusano Sofia di assimilazione forzata dei Macedoni.

Politica economica

Riforme economiche

Delle riforme economiche si parla in altra relazione in questo progetto. Ci si limita qui a fornire una sintesi delle principali misure adottate per quella che è la loro valenza politica. Durante il 1990 l'introduzione del meccanismo di mercato veniva sostenuta a parole ma non eseguita in pratica. Sul finire dell'anno scorso, il nuovo governo del Primo Ministro Dimitur Popov (un avvocato politicamente indipendente) iniziava a mettere in pratica quanto i suoi predecessori si erano limitati ad annunciare, ma la numenklatura ancora al potere negli strati intermedi e bassi dell'apparato continuava ad ostacolarlo. Ciononostante, veniva lanciato un ambizioso programma, incentrato sulla riduzione drastica della domanda per equilibrarla con l'offerta. Si assisteva quindi ad un innalzamento dei tassi d'interesse, alla liberalizzazione dei prezzi, alla liberalizzazione del cambio con l'estero. Il programma, una vera terapia d'urto, è comprensibilmente ancora in via di definizione.

Prevedibile la caduta iniziale dello standard di vita. Negli ultimi mesi del 1990 il Lev perdeva i 2/3 del suo valore, la benzina diventatava quasi introvabile, i prezzi dei beni di prima necessità raddoppiavano e quelli dei servizi triplicavano. A ciò si aggiungeva un'inflazione galoppante. Dal settembre 1990 si è dovuto procedere al razionamento di zucchero, farina, olio e detersivi e i sindacati (quello filo governativo e quello di opposizione) per la prima volta uniti minacciavano lo sciopero generale

L'aspetto più grave era però forse quello della crisi energetica. Con la caduta delle forniture sovietiche, e la fine dei sovvenzionamenti pubblici. il consumatore bulgaro ha risentito di notevoli difficoltà di approvvigionamento, materiale ed economico. L'embargo delle Nazioni Unite ha impedito l'arrivo del petrolio quello iracheno (inoltre, l'Iraq doveva alla Bulgaria 1,5 miliardi di dollari, pari al 55% di tutti i crediti concessi da Sofia ai paesi in via di sviluppo, che avrebbe dovuto pagare in petrolio). Seri problemi sono stati incontrati con il programma di incremento degli nucleari.

Si provvede ora a forniture alternative da Iran e Regno Unito. Il razionamento della benzina per uso privato era stato già adottato verso la fine del 1990, poi c'è stato anche un embargo totale delle vendite per due settimane a gennaio. C'è oggi un consenso nazionale sul bisogno di ristrutturazione radicale del settore energetico, ma il problema principale è di trovare i finanziamenti necessari

Importanti progressi nella riforma agricola: la privatizzazione è incominciata presto per gli appezzamenti più piccoli, fino a 30 ettari. Difficile invece il processo di restituzione delle terre espropriate dal regime comunista. Per gi appezzamenti più grandi si è solo in fase di programmazione.

Il processo è ostacolato anche in questo caso dalla burocrazia a livello locale. Ci sono però anche problemi di costi, perché è difficile per i nuovi proprietari terrieri trovare i fondi per finanziare le necessarie attrezzature, mentre il credito è ancora troppo costoso (45% dal febbraio 1991).

Infine il problema della sanità. In passato il regime comunista aveva ottenuto risultati rispettabili (mortalità infantile tra le più basse d'Europa, ospedali e medici in quantità sufficienti). Ma lo sperpero di risorse caratteristico del sistema assistenziale aveva danneggiato la qualità dei servizi. Oggi, anche in questo settore, ci sono problemi di risorse per le medicine e per le moderne tecnologie terapeutiche e diagnostiche.

Rapporti economici con l'estero

Nel corso dei decenni i legami commerciali del paese si sono sviluppati soprattutto con gli stati del Comecon. Come per altri casi di cui si è trattato in questo progetto, ciò era dovuto da una parte alla pressione sovietica per la formazione di un blocco socialista integrato, e dall'altra alla mancanza di capacità da parte delle Bulgaria di importare merci da Occidente (troppo costose e, nel caso delle alte tecnologie, controllate) e dall'altra all'impossibilità di penetrare i mercati occidentali con merci bulgare (di qualità troppo scadente o contingentate).

Come suaccennato, c'è grande interesse nella maggioranza delle forze politiche per incrementare i contatti con l'Occidente, ed in paticolare con la CE, di cui la Bulgaria vorrebbe al più presto far parte. Si registra peraltro una certa delusione per il fatto che la maggiore attenzione degli occidentali è stata finora accordata a Cecoslovacchia, Polonia ed Ungheria. Aiuti economici comunitari hanno cominciato ad arrivare da quest'anno, ma non ancora il quantità molto rilevanti. Il Fondo Monetario Internazionale ha però stanziato 100 milioni di dollari, a testimonianza degli enormi passi avanti fatti nella riforma del sistema economico verso il mercato.

Il principale partner commerciale occidentale della Bulgaria è, e probabilmente continuerà ad essere, la Germania.

Politica Militare

A causa della sottomissione alla Turchia, manca forte tradizione militare, esercito crea una propria fisionomia politica e aristocratica solo verso la fine del XIX secolo. guerre del ventesimo secolo perse per alleanza con la Germania

Le forze armate bulgare ammontano intorno ai 150.000 uomini. Ottanta percento esercito, 15% forze aeree e solo 5% marina. Equipaggiamento obsoleto. La Bulgaria non mai ospitato truppe sovietiche sul proprio territorio, unico paese all'interno del Patto di Varsavia oltre alla bizzarra Romania di Ceausescu. Ciò è potuto accadere in gran parte perché il paese è lontano dalla zona più critica ai confini della NATO in Europa centrale. Ma probabilmente anche perché Mosca non ha mai ritenuto di dover aver bisogno di usare la forza per controllare il docile paese cosí come invece era il caso degli altri più a nord. Partecipazione simbolica all'invasione della Cecoslovacchia nel 1968, e minima alle manovre militari del patto.

Considerata tra le più affidabili alleate dell'URSS, sia per motivi ideologici, che etnici e culturali. molto sentito il fatto che fu la Russia a liberare il paese dall'impero ottomano nel 1878. Inoltre, le forze armate erano strettamente controllate dal partito. Oggi la maggioranza degli ufficiali cerca di professionalizzare la carriera militare, anche se non ci sono richieste di creare un'esercito professionale volontario.

I militari hanno assunto un ruolo propriamente controllato durante la trasformazione, e non si sono mai registrati tentativi di influenzare il corso degli eventi politici con l'uso della forza.

La sola minaccia militare dall'estero oggi potenzialmente rilevante per la Bulgaria viene dalla Yugoslavia, in caso di conflitto sulla questione della Macedonia. Secondo alcune fonti c'è oggi un riorientamento dottrinale delle Forze Armate in questo senso, mentre finora si erano limitate solo ad un allineamento incondizionato alle direttive sovietica emanate attraverso il Patto di Varsavia. Appare invece improbabile un conflitto con la Turchia, politicamente più stabile ed inquadrata nel contesto della NATO che probabilmente ne preverrebbe potenziali reazioni unilaterali. Diventa quindi essenziale ai fini della politica di sicurezza nazionale bulgara dirimere la questione macedone con le autorità federali e repubblicane della Jugoslavia.

La Bulgaria si è fatta anche promotrice di disarmo, e si segnala un'iniziativa in campo navale, quando il paese ha ospitato una conferenza delle Nazioni Unite su questo tema a Varna nel settembre del 1990. Queste iniziative appaiono soprattutto tese, dopo quarant'anni di grigiore diplomatico, a guadagnare al paese una certa visibilità nella politica internazionale. Dopo che per anni aveva speso per la difesa proporzionalmente di più della maggior parte degli alleati (6% circa) ora il bilancio militare è in diminuzione. Non è in verità chiaro di quanto, anche perché sussistono gravi problemi di contabilità e di calcolo dei costi, ma ufficialmente la riduzione è del 12%. Le forze armate nel loro complesso dovrebbero essere ridotte fino a 107.000 uomini, con l'eliminazione di 200 carri armati.

Prospettive

In generale, l'inizio della transizione alla democrazia in Bulgaria, pur se sviluppatosi senza il fragore internazionale di altri paesi della regione, promette bene. Sono stati raggiunti importanti risultati politici, ora si aspettano quelli economici.

Il problema più grave del paese nel medio periodo è quello dei conflitti etnici, che potrebbero compromettere l'opera di riforma economica e politica coraggiosamente intraprese. I recenti miglioramenti dei rapporti con la Turchia, ed il maggiore rispetto per la minoranza turca in Bulgaria, promettono una nuova fase potrebbe portare al superamento di diatribe ancestrali che molto danno hanno fatto in passato. Meno appariscente da una prospettiva occidentale, ma potenzialmente più grave, il problema della Macedonia, che potrà pero essere risolto solo con la collaborazione delle competenti autorità jugoslave.

Molto rimane da fare nella privatizzazione delle imprese, soprattutto per quanto riguarda quelle di più grandi dimensioni. Un altro problema è che con la liberalizzazione dei viaggi all'estero, si assiste ad una massiccia emigrazione di quadri qualificati, come avviene per altri paesi in condizioni simili quali la Polonia. Se si vorranno evitare pericolose "fughe di cervelli", il governo dovrà fornire ai quadri più qualificati del paese opportuni incentivi per farli rimanere e contribuire alla rinascita della nuova Bulgaria.

Altro fatto positivo è che esiste un buon grado di cooperazione tra le forze democratiche. L'anti-comunismo si è rivolto soprattutto al passato, molti anti-comunisti favoriscono invece la cooperazione con gli attuali socialisti. Non si vede in Bulgaria l'ostracizzazione di tutti quanti hanno avuto a che fare con il passato regime, e questo potrebbe costituire un elemento di costruttività nella fase di transizione.

Bibliografia

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Shashko, Philip: "The Past in Bulgaria's Future" in Problems of Communism, Vol. XXXIX, No.5, September‑October 1990.

Braun, Aurel: "Small‑State Security in the Balkans" (Totowa, NJ: Barnes & Noble Books, 1983)

Moore, Patrick: "Bulgaria" in Rakowska‑Harmstone, Theresa (Ed.): Communism in Eastern Europe (Bloomington, IN: Indiana University Press, 1984, Second Edition).

1     I paragrafi che seguono si traggono in parte dalla relazione presentata da Stefano Bianchini al convegno "Europa 90", organizzato dall'Istituto Affari Internazionali a Roma il 25 novembre 1990.

2     Ci fu un'eccezione all'epoca di Dimitrov, quando questi si dichiarò disponibile a riconoscere l'esistenza della nazionalità macedone in vista della Confederazione balcanica con la Jugoslavia accarezzata negli anni 1944-1947. Ciò spiegherebbe perché ancora nel censimento del 1956 venne registrata la presenza di 187.789 Macedoni (più del 95% dei quali residenti nella regione del Pirin, dove costituivano il 63,8% della popolazione), mentre nel censimento del 1965 solo 8.750 persone si dichiararono Macedoni.

06 January 1991

Decollo in aliante monoposto

Oggi l'istruttore Pace mi autorizza al decollo in monoposto. Il mio primo volo con un monoposto. Un aliante monoposto è un po' una Formula 1 del volo, tutt'altro volare che i biposto usati finora per la scuola ed i voli turistici. È come avere le ali attaccate alle spalle.

Uso il DG-100 I-LUKO dell'aeroclub. Tempo calmo, volo tranquillo attorno all'aeroporto di Rieti, tutto normale, eppure indimenticabile. 

11 December 1990

Situazione in Polonia

Questa relazione si propone di fornire un quadro politico generale della situazione politica in Polonia alla luce della caduta del regime comunista nel 1989. Dopo una breve introduzione storica, darò una schematica descrizione del contesto interno ed estero del regime comunista all'interno del quale maturava la dinamica dei conflitti che avrebbe portato alla rivoluzione pacifica del 1989. Per una discussione più dettagliata delle politiche economiche si rimanda alla relazione sull'argomento presentata in questa stessa sessione. Concluderò con una trattazione delle possibili alternative per il futuro e delle implicazioni per l'Occidente. Questa relazione è stata presentata a Getecna oggi 11 novembre 1990.

Lo sfondo storico e culturale

L'elemento più importante nel retaggio storico polacco è probabilmente l'influenza pluri-secolare della Chiesa cattolica, che dall'undicesimo secolo occupa una posizione politica, oltre che culturale, senza rivali. Neanche il partito comunista, nei quarant'anni di dominio politico del paese, ha potuto ottenere una penetrazione nella società di livello paragonabile. Accanto al cattolicesimo, altro fattore storico della Polonia moderna è una certa tradizione di democrazia, anche se solo a livello embrionale, che si è sviluppata a partire dal tredicesimo secolo. In quel tempo, si formava il primo parlamento polacco, che peraltro, a differenza di quanto accadeva in Inghilterra, vedeva prevalere l'aristocrazia sulla borghesia. Il potere aristocratico impedisce la formazione di un regime parlamentare costituzionale ma anche il sorgere di una monarchia assoluta, ed infatti il re polacco veniva eletto dal parlamento in quella che per questo motivo, curiosamente, era chiamata la Repubblica di Polonia. Questa esperienza è oggi spesso richiamata alla memoria come la radice politica nazionale alla quale si vuole rifare la Polonia post-comunista.

L'impero polacco cresceva con vicissitudini alterne da quel periodo fino alla metà del seicento, ma diveniva poi sempre più inefficiente e si avviava al declino politico. In quei secoli, si sviluppava un'ostilità più o meno permanente contro la Russia, l'Ucraina e la Lituania a Est, ma anche con la Prussia e l'Austria ad Ovest ed a Sud. Il progressivo declino culminava, alla fine del settecento, con la scomparsa della Polonia come entità statale a seguito di tre successive partizioni a spese di Austria, Russia e Prussia.

In tutto questo periodo si sviluppava, forse più che in tutti gli altri paesi dell'Europa orientale, un forte legame culturale con l'Occidente del rinascimento e dell'umanesimo, particolarmente con la Francia ma anche con l'Italia. Anche grazie a ciò, l'integrità culturale del paese sopravvive al tentativo di russificazione nella parte orientale e di germanizzazione in quella orientale; il modus vivendi migliore i polacchi lo trovano con gli Austriaci, più tolleranti delle realtà indigene della loro fetta di Polonia.

La Polonia riesce a riguadagnare l'indipendenza approfittando della contemporanea sconfitta delle sue tre potenze occupanti nella Prima Guerra Mondiale. Il neonato stato polacco tenta addirittura una improbabile rivincita contro la neonata Unione Sovietica, approfittando della debolezza del nuovo regime di Mosca subito dopo la fine della Guerra, mentre imperversava ancora la guerra civile contro i Bianchi zaristi. Le forze armate polacche erano però sconfitte ed il paese rischiava quasi di essere riannesso all'URSS quando le armate sovietiche arrivavano fino a Varsavia.

Nel periodo tra le due guerre, la Polonia si trovava schiacciata ed impotente tra Unione Sovietica e Germania nazista, cercando invano garanzie di sicurezza dalle democrazie occidentali. Decidendo, al contrario della Cecoslovacchia, di combattere l'aggressione hitleriana, il governo di Varsavia porta Francia ed Inghilterra a dichiarare guerra alla Germania e fa così del paese la miccia della Seconda Guerra Mondiale.

Il paese nel "blocco sovietico"

La condizione politica della Polonia del dopoguerra è stata influenzata in modo determinante, così come quella degli altri paesi dell'Europa orientale, dal rapporto con l'Unione Sovietica. In quell'ambito, ha rivestito un'importanza politica cruciale il modo perverso in cui quei rapporti si erano sviluppati subito prima e durante la guerra. Perverso perché l'URSS staliniana non aveva mai voluto considerare la Polonia come un alleato, e persino i comunisti polacchi esiliati a Mosca, come del resto quelli di tanti altri paesi, cadevano sotto la scure delle purghe fratricide. 

Nel 1939 si stringeva quella che i polacchi hanno sempre considerato la vergogna del Patto Molotov-Ribbentrop, nonostante tutto, le armate polacche sopravvissute alla disfatta contro la Germania cercavano di riorganizzare le forze in URSS per poter proseguire la guerra, ma Stalin, convinto della non affidabilità di un corpo ufficiali nazionalista e certamente non comunista, procedeva alla loro sistematica eliminazione nelle foreste di Katyn, cercando poi di accollarne la responsabilità ai tedeschi. 

Altro episodio, non meno grave dal punto di vista polacco, fu il freddo cinismo con il quale l'Armata Rossa assistette all' annientamento della resistenza (non-comunista) di Varsavia da parte dei tedeschi alla fine del 1944. Per finire, i polacchi si sono anche visti imporre l'installazione forzata del governo provvisorio (comunista) di Lublino dopo la liberazione. Stalin approfittava dell'ambiguità contenuta nel testo dei Patti di Jalta per non indire libere elezioni ma porre il mondo davanti al fatto compiuto del regime comunista che si insediava al seguito dell'Armata Rossa. Non sorprende che il risultato di tutto ciò sia stato il rafforzamento dell'odio storico dei Polacchi contro i Russi, che sarà solo formalmente malcelato durante il regime comunista.

Dopo la presa del potere, il regime comunista procedeva alla statalizzazione dell'economia ed all'industrializzazione pesante forzata sul modello sovietico. Questo processo non è peraltro mai diventato completo. La collettivizzazione è stata particolarmente ridotta in agricoltura: mai più del 10% del terreno agricolo è stato di proprietà dello stato.

Questa tendenza subiva un brusco arresto nel 1956, quando nel corso del processo di destalinizzazione si diffondeva una rivolta popolare un po' in tutto il paese, e specialmente a Poznan. Questa veniva repressa dal regime, a differenza dell'Ungheria senza l'intervento sovietico, probabilmente perché considerata da Khrushchev una questione interna dei polacchi: nessuno aveva infatti messo in discussione il collocamento geopolitico del paese all'interno del Patto di Varsavia, come aveva invece fatto Nagy in Ungheria. Come in Ungheria, dopo i moti del 1956 saliva al potere un'élite comunista, guidata da Stanislaw Gomulka, che acquisiva una qualche rispettabilità in quanto poteva vantare un passato anti-staliniano.

Negli anni che seguivano, Gomulka poneva fine allo stalinismo ma non proponeva rimedi efficaci alle strozzature dell'economia pianificata, che deteriorava progressivamente. La crisi arrivava quando un aumento dei prezzi scatenava una protesta dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica nel 1970, brutalmente repressa dalla polizia con ingente spargimento di sangue. La dimostrazione di Danzica, anche se schiacciata, comunque costringeva Gomulka alle dimissioni. Gli subentrava Gierek, che negli anni settanta cercava la chiave della economica nell'apertura verso l'Occidente. Qui i comunisti polacchi ricercavano i capitali per ovviare alle manchevolezze del sistema pianificato senza doverlo cambiare. L'Occidente ricco di un forte eccesso di valuta si dimostrava incautamente prodigo, e forniva crediti senza porre condizioni.

Il risultato era un crescente indebitamento cui non corrispondeva un aumento della produttività, e quindi della capacità di esportazione. Gli investimenti si dimostravano inevitabilmente sterili perché non abbinati a riforme efficaci, mentre si lasciavano aumentare i consumi interni (che servivano a mantenere un minimo di supporto per il regime) anche quando si trattava di beni importati dall'Occidente a fronte di una bilancia commerciale sempre più passiva.

Il conseguente bisogno crescente di valuta portava ad una allentamento dei controlli, pionieristica nei paesi del socialismo reale, anche in materia valutaria. Ai Polacchi il regime concedeva di detenere liberamente valuta convertibile; di accedere ai negozi speciali di "esportazione interna" (PEWEX) dove si acquistavano beni di lusso, generalmente importati, solo per valuta; e persino di aprire conti correnti in valuta nelle banche dello stato, senza che a nessuno venga chiesto dove e come tale valuta fosse stata procurata. 

A parte le importanti rimesse ai parenti degli emigrati polacchi, specialmente dagli Stati Uniti, era conoscenza comune che questa valuta proveniva dall'enorme quantità di contrabbando che si era sviluppata in Polonia, frutto dell'esportazione clandestina di beni acquistati a prezzo politico per Zloty, e venduti poi a clienti occidentali per valuta. Spesso, questi beni non erano neanche di produzione polacca, ma venivano procacciati, quasi sempre illegalmente, in altri paesi dove potevano essere acquistati senza esborso di valuta pregiata. Era per esempio facile trovare nel mercato nero polacco caviale, pellicce, e persino oro di produzione sovietica.

Non a caso ho parlato di allentamento dei controlli, e non di liberalizzazione: si era infatti sviluppato non tanto un mercato valutario, quanto un'incontrollata anarchia, di cui era anche difficile stabilire le proporzioni. Inoltre, l'anarchia valutaria favoriva una fiorentissima economia sommersa, in cui aveva un ruolo importante il mercato nero dei beni sottratti dai dipendenti alle aziende collettive e di stato, o dai militari all'esercito. Ma l'indebitamento estero dello stato continuava a crescere, e diventava il più alto in Europa orientale. 

Alla fine del decennio Varsavia incontra difficoltà nel servizio di questo debito, per non parlare del ripagamento, anche perché nel frattempo si erano chiusi i rubinetti dell'Occidente, dove salivano i tassi di interesse. La situazione economica diventava sempre più politicamente insostenibile per il governo di Gierek.

La miccia per le trasformazioni degli anni ottanta era innescata ancora una volta dagli operai dei cantieri di Danzica. I loro scioperi nell'estate del 1980 erano ancora una volta causati dal progressivo deteriorarsi dello standard di vita, dopo le illusioni di benessere degli anni settanta. Il regime questa volta non reprime la manifestazione con la stessa brutalità di dieci anni prima, i sindacati ufficiali compromessi col partito non riuscivano a guadagnarsi un ruolo, e nei cantieri poteva nascere il sindacato libero di Solidarnosc. Dopo la sigla di precari accordi nell'Agosto, seguivano nuovi scioperi, e Gierek cadeva esattamente come Gomulka prima di lui. Seguiva un breve periodo di sbandamento del partito di cui approfitta Solidarnosc per consolidare la propria posizione non più solo sindacale ma anche sempre più chiaramente politica, con oltre dieci milioni di membri che aderivano in pochi mesi, più di quanti non ne avesse mai avuti il partito in trentacinque anni al potere. 

Questo successo portava ad una rapida politicizzazione di Solidarnosc, che da sindacato si trasformava in movimento politico e minacciava letteralmente di travolgere l'ordine socialista. Dopo che vari segnali facevano pensare ad un imminente intervento militare sovietico, nel Dicembre del 1981 il nuovo segretario generale del partito, generale Woiciech Jaruzelski, dichiarava lo Stato di Guerra, sospendeva Solidarnosc e fermava brutalmente il processo di democratizzazione in corso.

In questo periodo, cresceva esponenzialmente il ruolo della Chiesa nella politica della Polonia, anche grazie al fatto che a Roma sedeva dal 1978 un papa polacco. La Chiesa cattolica era sempre stata l'unico polo politico d'opposizione tollerato dal regime, e per questo suo ruolo paradossalmente privilegiato attirava molti più consensi di quanti non fossero i veri credenti. D'altra parte, il clero era stato in passato costretto a moderare il proprio intervento politico per sopravvivere allo stalinismo. 

Quando fu imposto lo Stato di Guerra, il Primate Glemp invitava i Polacchi ad ottemperare alle disposizioni governative, allo scopo di evitare la guerra civile. Negli anni che seguivano, la Chiesa diveniva sempre più attiva come punto di riferimento dell'opposizione, e forniva un indubbio sostegno a Solidarnosc, anche se la cooperazione tra le due strutture era a volte molto difficile, perché Solidarnosc funzionava in base a principi democratici mentre la Chiesa rimaneva una struttura rigidamente gerarchica ed autoritaria.

In un'intervista con La Repubblica nel 1990 egli indica la sua graduale conversione al liberalismo nel corso degli anni ottanta, parallelamente al graduale fallimento di tutte le misure di compromesso sistemico. Al momento della salita al potere di Gorbaciov, alla metà degli anni ottanta, la Polonia è già, con l'Ungheria, il paese del blocco più avanzato sul terreno delle riforme economiche e delle libertà interne, compresa una libertà di viaggiare e di emigrazione limitata solamente dalla mancanza di valuta e dai limiti imposti dai paesi occidentali alla concessione di visti d'ingresso.

Ma crisi terminale del sistema è solo rimandata: comincia nella primavera del 1988, quando una nuova ondata di scioperi viene indetta per reclamare aumenti salariali di fronte all'inflazione galoppante. Negoziati prolungati portano all'accettazione da parte del governo di una "Tavola Rotonda" con Solidarnosc nel Gennaio 1989. 

Le discussioni cominciavano in Febbraio e duravano circa un mese, e culminavano con l'accordo ad indire elezioni che, anche se solo parzialmente libere, avrebbero portato alla creazione del primo governo a guida non comunista nell'Europa orientale del dopoguerra.

Recenti sviluppi politici

Politica Interna

Il problema di Jaruzelski, all'inizio del 1989, era come assicurare la transizione verso un'inevitabile maggiore rappresentatività nel sistema politico, senza provocare una guerra civile o un intervento sovietico, che a quel tempo non poteva ancora essere categoricamente escluso. A Mosca si cominciava a parlare di abbandono della "Dottrina Brezhnev" della sovranità limitata, ma delle decisioni definitive, se erano già state prese, non si era ancora presa piena coscienza all'estero.

A seguito degli accordi della "Tavola Rotonda", si aveva la piena ri-legalizzazione di Solidarnosc, cui si accompagnava un'amnistia politica incondizionata. Le prime elezioni semi-libere seguivano nella tarda primavera del 1989. In queste, il Partito Operaio Unificato Polacco (POUP) si era preventivamente assicurato il controllo del 65% della camera bassa (con più poteri legislativi) del Sejm (Parlamento). In una schiacciante dimostrazione di forza politica, i candidati appoggiati da Solidarnosc ottenevano il rimanente 35% e 99 dei 100 seggi disponibili nella camera alta (Senato) che non prevedeva quote pre-assegnate al POUP, ed il restante seggio andava ad un candidato indipendente (vedi tabella). Persino tra i candidati del POUP che erano in corsa senza opposizione la sconfitta era palese: solo il 2% otteneva il necessario 50% dei voti al primo scrutinio. 

Tutto ciò produceva un'umiliazione che equivaleva ad un colpo di grazia per il partito. Piuttosto bassa l'affluenza alle urne, forse testimonianza di un'apatia politica, o di timori reconditi, che neanche l'evidenza della fine del comunismo riuscivano ad eradicare: 62% dell'elettorato votava nel primo turno e poco più del 25% nel secondo, mentre il 42% prendeva parte alle elezioni amministrative del maggio 1990 che più o meno hanno confermato i risultati del 1989, compreso il fiasco per i due partiti "socialdemocratici". Alla prossima prova Solidarnosc probabilmente non sarà più più unita e gli ex-comunisti potrebbero anche scomparire completamente dalla scena parlamentare.

Dopo le elezioni parlamentari, ed a seguito di una febbrile trattativa, Jaruzelski veniva eletto presidente nel Luglio 1989 per sei anni (vedremo però che si dimetterà nel 1990) dopo essersi dimesso da segretario del POUP per diventare il presidente di tutti i polacchi. Jaruzelski si presenta oggi, al momento della sua definitiva uscita dalla scena politica, come un patriota che ha salvato la Polonia dalla guerra civile e dall'invasione straniera. Indubbiamente, il Cremlino di Brezhnev non avrebbe tollerato il pluralismo che di fatto Solidarnosc rappresentava nel 1981, e non lo avrebbero tollerato neanche Andropov o Chernenko. Ma è anche indubbio che tale pluralismo non era neanche in cima alla lista delle priorità di Jaruzelski.

Nell'estate si assisteva all'ultimo goffo tentativo del Partito di proporre un Primo Ministro nella persona del Generale Kiszczak, figura impopolare che aveva avuto un ruolo visibile nella repressione del post-1981. Solidarnosc rifiutava di entrare in un governo di coalizione a guida comunista, evidentemente per evitare di divenire corresponsabile degli inevitabili sacrifici e degli eventuali fallimenti senza essere realmente in grado di decidere la politica estera ed economica da adottare. Ma senza Solidarnosc, pur con la maggioranza assoluta artificiosamente assicurata, il POUP non poteva formare un governo che avesse un minimo di probabilità di affrontare i problemi del paese.

Sul finire dell'estate, quindi, il Presidente Jaruzelski è costretto a dare l'incarico per formare il nuovo governo a Tadeusz Mazowiecki, un intellettuale cattolico appoggiato da Solidarnosc. Figura molto vicina alla gerarchia della Chiesa, Mazowiecki era stato internato nel Dicembre 1981. In breve si poteva avere cosí un governo rappresentativo, il primo a guida non-comunista dell'Europa orientale post-bellica, nel quale venivano offerto al POUP il dicastero della difesa, forse più che altro per non dover mandare esponenti dichiaratamente anti-comunisti alle riunioni del Patto di Varsavia. Significativamente, il primo viaggio all'estero di Mazowiecki non era a Mosca, come da rito formale precedente, ma a Roma, per consultazioni tutt'altro che formali con il Papa polacco.

Nel Gennaio 1990 il POUP si trasforma nel Partito Social Democratico nel disperato tentativo di riacquistare un po' di credibilità e di presentabilità politica dissociandosi dal proprio passato. Ma anche questo gesto disperato ed un po' patetico fallisce miseramente e probabilmente senza appello, cosí come accaduto agli ex-comunisti ungheresi, tedeschi orientali e, pochi mesi dopo cecoslovacchi.

Alla departitizzazione del governo corrispondeva l'inizio di una capillare opera di depoliticizzazione dell'esercito e della polizia. Prima tutti gli ufficiali erano membri del partito; adesso, al contrario, non solo tale appartenenza è equivalente ad un marchio d'infamia, ma vi sono forti pressioni per vietare l'appartenenza degli ufficiali a qualunque partito. Lo stesso vale per la polizia di stato. La polizia politica, i famigerati Zomo che in Occidente siamo stati abituati a vedere per anni con il manganello in mano nei filmati sulle dimostrazioni anticomuniste, è stata sciolta; tuttavia, la struttura dei vecchi servizi segreti (Sluzba Bezpieczenstwa, o SB), o almeno frammenti di essa, rimane potente e capace di azioni intimidatorie al di là del controllo del capo del governo (ma forse con la connivenza del Ministro degli Interni comunista).1

La liberalizzazione politica interna in Polonia è oggi pressoché totale, cosí come non si registrano più violazioni dei diritti umani. Logica conseguenza di tutto ciò l'ammissione come osservatore al Consiglio d'Europa nel novembre 1990, a Roma. É certa l'ammissione a pieno titolo nel prossimo futuro, probabilmente non appena si saranno celebrate le prossime elezioni, completamente libere, per il Sejm.

Politica Estera

Si è detto come il rapporto con l'URSS avesse costituito il fulcro delle relazioni esterne della Polonia del dopoguerra. Come per tutti gli altri paesi della regione, con Gorbaciov si è avuta una graduale svolta in questi rapporti, che si sono indirizzati verso un canale sempre più paritetico e pragmatico. Naturalmente, questa svolta è stata condizione necessaria, se pur non sufficiente, alla svolta interna descritta sopra.

Un primo aspetto fondamentale del cambiamento nelle relazioni polacco-sovietiche, che lo ha contraddistinto da quello avvenuto in altri paesi ex-satelliti, è stato costituito dal succedersi di chiarimenti degli "spazi vuoti" della storia delle relazioni tra i due paesi. Come sempre nei paesi socialisti, la revisione storiografica è stata carica di significati politici. Si è trattato più che altro di una serie di successive ammissioni da parte sovietica di fatti già da tempo ben noti in occidente, ed anche in Polonia, ma non ancora disseppelliti dagli archivi staliniani a Mosca. In primo luogo si è parlato dell'uccisione dei capi del partito comunista polacco a Mosca negli anni trenta perché giudicati troppo nazionalisti da Stalin. Ha fatto seguito l'ammissione dell'acquiescenza sovietica nell'aggressione hitleriana del 1939 tramite il Patto Ribbentrop-Molotov. Quindi c'è stato, ma solo nel 1989, il sospiratissimo chiarimento della responsabilità sovietica nel massacro di Katyn del 1941.

Nonostante l'inevitabile astio provocato da queste rivelazioni, e forse in parte proprio grazie ad esse, continuano però in Polonia, più di quanto non avvenga in altri paesi dell'ex-blocco, gli interessi in comune con Mosca. In primo luogo, sia Mosca che Varsavia hanno condiviso un rapporto contraddittorio verso la Germania federale. Al timore del revanscismo tedesco per quanto concerneva i territori persi dalla Germania a favore di Polonia ed Unione Sovietica dopo la guerra si contrapponeva il desiderio di attingere ai proficui scambi economici (ed aiuti tecnologici e finanziari) che solo Bonn poteva offrire. Anche dopo la firma dell'Atto Finale di Helsinki nel 1975, nel quale l'allora Germania Occidentale si impegnava a non cercare di modificare i confini del momento con la forza, la questione rimaneva aperta. La Polonia perciò ha insistito nel 1990 per partecipare ai negoziati "Due più Quattro", tra le due Germanie e le quattro potenze vincitrici, che hanno stabilito i modi ed i tempi della riunificazione, per quello che concerneva la questione dei confini.

Solo nel novembre del 1990 il problema è stato risolto in modo prevedibilmente definitivo con l'unificazione tedesca e la conseguente firma di trattati con Polonia ed Unione Sovietica a questo riguardo che sanciscono la definitività dei confini tra i paesi interessati, e primo fra tutti quello dell'Oder-Neisse tra Polonia e Germania. É stato questo il motivo per cui, a differenza di Ungheria e Cecoslovacchia, i Polacchi non hanno richiesto la partenza delle truppe sovietiche dal proprio territorio e l'uscita dal Patto di Varsavia, anche se è probabile che ciò avverrà presto alla luce della definitiva risoluzione della questione dei confini.

Nei prossimi anni, la stabilizzazione delle relazioni con la Germania sarà di importanza cruciale per lo sviluppo economico del paese e per il suo aggancio politico all'Europa occidentale ed economico agli Stati Uniti, che anche in virtù della grande colonia polacca sono stati indicati dal governo come una priorità per il futuro prossimo; essa dovrà procedere parallelamente allo sviluppo di nuove relazioni anche con l'URSS. Il generale consenso che esiste tra tutte le principali forze politiche a questo riguardo fa pensare che questa difficile opera di bilanciamento sia alla portata di Mazowiecki e dei suoi successori.

Altra questione è quella della minoranza polacca in Lituania, che è oggetto di discriminazioni cosí come quella russa. Lamentele a questo riguardo sono state fatte proprie dal nuovo governo, che non è inibito, come lo poteva essere il precedente, dal considerare la politica di Vilnius come un affare interno sovietico. Si deve ricordare che la capitale lituana Vilnius (Wilno in polacco) è lituana solo dal 1939, a seguito della spartizione della Polonia conseguente agli accordi Molotov-Ribbentrop. L'università della città era stata fondata dai polacchi, e nonostante ciò non c'è oggi una cattedra di lingua polacca; Varsavia non è stata autorizzata (nonostante l'assenso di Mosca) ad aprire un consolato nella città ed è persino vietato celebrare la Messa in polacco nella cattedrale di San Stanislao.2 Esiste quindi una comunanza di interessi tra Russi e Polacchi che potrebbe essere rinvigorita da una eventuale indipendenza lituana, che potrebbe indebolire la posizione delle minoranze russa e polacca, che peraltro sono numericamente le più piccole dei paesi baltici (oltre l'80% degli abitanti della Lituania è lituano).

Nell'immediato periodo dopo la liberalizzazione, nella politica estera polacca sussiste un forte pericolo di rigurgiti nazionalistici, principalmente anti-russo e anti-tedesco, ma anche diretto contro le minoranze bielorusse ucraine e lituane. A queste si aggiungono preoccupanti risvolti anti-semitici anche a causa dell'olocausto e dell'emigrazione dopo l'ondata anti-semitica fomentata in seno al POUP nel 1968 ci sono pochissimi ebrei in Polonia (la recente polemica con la Chiesa cattolica sul convento delle Carmelitane ad Auschwitz era sostenuta da ebrei stranieri). La recente campagna presidenziale ha messo in evidenza con graffiti e slogan diretti contro ebrei e minoranze etniche.

Tutti questi aspetti del nazionalismo polacco, a lungo repressi, si sono, alla fine del 1990, almeno temporaneamente assopiti. Ma, seppure in forma diversa, potrebbero risorgere; per esempio, c'è astio in Polonia per il trattamento non sempre signorile riservato agli emigranti polacchi in Germania, ricambiato dall'astio tedesco per un'ondata di stranieri, spesso entrati illegalmente, in un momento in cui la nuova Germania deve pensare a sistemare civilmente 17 milioni di stranieri in patria. Parimenti, la questione dei polacchi in Lituania è stata convenientemente messa da parte nel momento in cui Varsavia era concentrata ad ottenere il definitivo riconoscimento dell'Oder-Neisse, ma potrebbe cambiare se Vilnius dovesse far ricorso alla mobilitazione di energie nazionalistiche per ottenere l'indipendenza.

Nonostante il nazionalismo, si riscontra in Polonia una maggiore sensibilità per il potenziale di una continuata collaborazione con gli altri paesi neo-democratici della regione e particolarmente con la Cecoslovacchia e l'Ungheria. Finora questo atteggiamento non è stato però corrisposto, in quanto tutti gli altri paesi dell'ex-comunità socialista sono preoccupati quasi esclusivamente di rescindere i legami con Mosca ed allacciarli con l'Occidente.

Politica economica

Per una trattazione più dettagliata delle riforme economiche in Polonia si rimanda alla relazione a questo preposta in questo stesso convegno. Ci si limita qui ad alcune considerazioni di particolare valenza anche politica. La situazione economica al momento del cambio di governo nel 1989 poteva essere senza esagerazione definita come disperata. L'inflazione nel 1989 era di oltre il 700%, il PIL era in crescita negativa, il debito estero, di cui non si poteva più neanche pagare gli interessi, era salito ad oltre 43 miliardi di dollari, di gran lunga il più grande in Europa orientale (anche se, pro capite, inferiore a quello dell'Ungheria). Non c'era praticamente stata alcuna forma di competizione tra i produttori nazionali, quindi nessun incentivo ad innovare e la cosa era degenerata ancora da quando la crisi economica aveva quasi obbligato ad eliminare le importazioni dall'Occidente.

Riforme economiche

Più decisamente che in tutti gli altri paesi est-europei in via di democratizzazione, in Polonia è stata adottata all'inizio del 1990 una terapia d'urto, concordata con alcuni autorevoli economisti stranieri, che ha cominciato ad essere messa in pratica nonostante l'impopolarità di alcuni suoi aspetti essenziali. Un ulteriore problema per Mazowiecki è stato che non ci sono stati precedenti storici su cui basarsi, per cui si può asserire che il suo governo sta coraggiosamente affrontando acque pericolose senza carta nautica. Alla drastica svalutazione della moneta è corrisposta la liberalizzazione dei cambi (passo importante verso la convertibilità) che ha spinto lo Zloty in basso fino a fargli raggiungere il valore reale d'acquisto, per cui è scomparso quasi di colpo il fiorente mercato nero della valuta, soppiantato da uffici di cambio autorizzati in tutte le città; oggi c'è praticamente in Polonia una convertibilità piena.

Tutto ciò ha prodotto un notevole salto di "inflazione correttiva" all'inizio del 1990, ma questo è stato un fenomeno una tantum, poi il livello dei prezzi si è assestato, anche grazie a un'indicizzazione dei salari molto ridotta (generalmente dal 20 al 30% dell'inflazione, con penalità fiscali per le aziende che li aumentassero di più). L'aumento prezzi è stato peraltro compensato dalla maggiore disponibilità di beni di consumo e da file più corte; per questo tipo di vantaggi è difficile avere una misurazione esatta della caduta del potere d'acquisto cosí come è tradizionalmente definito, ma a chi conosce quanto pesasse sulla vita dei Polacchi non il costo dei beni quanto la fatica di trovarli il salto qualitativo appare notevole.

Contemporaneamente, si è avuta sia l'eliminazione di quasi tutte le sovvenzioni statali alle aziende in perdita, sia l'apertura al commercio estero, entrambe le misure allo scopo di stimolare la concorrenza e quindi premiare la produttività delle imprese migliori. Infine, si è avuta l'apertura della Borsa di Varsavia nel novembre 1990, la seconda in Europa orientale dopo quella di Budapest che si era aperta in Agosto, ancora con strutture rozze, solo qualche PC per organizzare il lavoro di un piccolo, ma il seme è stato gettato su terreno fertile.

Più del 90% dell'industria polacca era stata statalizzata dai comunisti, e Mazowiecki, nel privatizzare, deve ora cercare la classica quadratura del cerchio. Il governo si oppone alla proprietà dei lavoratori per motivi di efficienza, anche alla luce del cattivo esempio della Jugoslavia. Si è offerto invece un compromesso in alcune industrie dove è stata offerta agli operai una partecipazione minoritaria. 

Per le stesse industrie i passi da compiere sono di portata enorme: l'efficienza degli input era pessima, particolarmente per quanto concerne l'energia, causa questa non solo di bolletta energetica gravosissima (soprattutto dopo la cessazione delle vendite a prezzo agevolato da parte dell'URSS) ma anche di inquinamento. Il settore servizi era sottosviluppato, occupando solo il 35% della forza lavoro e solo ora si cerca di renderlo adeguato ad una moderna economia post-industriale quale la Polonia aspira a diventare.

La filosofia che sottende tutto ciò è che non si può superare un precipizio in due salti, bisogna farlo in un salto solo. Si sapeva che i disagi immediati sarebbero stati notevoli, nella forma di inflazione e di disoccupazione, ma all'inizio sono stati accettati dalla popolazione in quanto proposti da un Primo Ministro appoggiato da Solidarnosc, poi è cominciato il malcontento. Il governo Mazowiecki è stato finora in grado di far sopportare sacrifici facendosi forte dell'entusiasmo politico suscitato dalla rivoluzione, senza il quale difficilmente i Polacchi sarebbero stati cosí accondiscendenti. Ma presto il carattere populista dell'organizzazione è emerso, e si è concretizzato nella sfida vincente di Walesa per la presidenza.

Rapporti economici con l'estero

Si è detto della liberalizzazione dei commerci; grazie ad essa, beni di consumo esteri sono oggi largamente disponibili sul mercato, sebbene a prezzi molto elevati. Questo sta creando le condizioni per un maggiore intervento delle imprese occidentali sulla piazza polacca, oggi finalmente diventato potenziale mercato pagante in valuta.

Alla liberalizzazione commerciale si è accompagnata quella degli investimenti, con l'apertura a capitali stranieri, cui sono state vendute persino colossali imprese statali di importanza strategica, quali i cantieri navali di Danzica. Politicamente, questo tipo di iniziative

Grazie alla buona volontà dimostrata dalla Polonia, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno attestato l'incapacità della Polonia di pagare, e tutti i prestiti commerciali in scadenza fino alla primavera del 1991 sono stati rifinanziati.

Politica Militare

Per quarant'anni la Polonia era stata sostanzialmente una via di transito per il mantenimento della roccaforte sovietica sui confini della NATO in Germania Est. Ci sono sempre state poche truppe sovietiche stazionate permanentemente in Polonia, circa due divisioni negli anni ottanta, nulla se paragonate alle venti nella piccola RDT. Ma questa cifra nasconde l'importanza strategica della Polonia per le comunicazioni con il potenziale fronte. Dopo il 1980, quando l'affidabilità di Varsavia vacillava sotto l'incalzare di Solidarnosc, i sovietici avevano anche predisposto comunicazioni militari dirette via mare tra l'URSS e la Germania.

Oggi il Patto di Varsavia è in fase di scioglimento, almeno nella forma che siamo stati abituati a riconoscere per quarant'anni. Nella regione c'è indubbio sostegno per l'idea che il Patto e la NATO debbano essere sostituiti da una nuova organizzazione di sicurezza pan-europea, che dovrebbe scaturire presumibilmente dal processo di Helsinki II avviato dal Summit di Parigi del novembre 1990. 

In ogni caso, la Polonia, insieme all'Ungheria, già dalla fine del 1989 aveva iniziato a stabilire contatti diretti con la NATO in materia di controllo degli armamenti, non nascondendo l'interesse ad una più stretta collaborazione bilaterale con questa organizzazione quando le condizioni politiche generali del continente lo renderanno opportuno. Nel breve termine, la Polonia ha proposto di riformare il Patto a cominciare dalla struttura di comando, assegnando più poteri ai comandanti dell'alleanza in quanto tali, eliminando l'attuale subordinazione alla gerarchia militare sovietica.

Sul piano interno, l'ultimo governo comunista aveva già iniziato alcune riduzioni e riorganizzazioni nel 1989, che continuano oggi. Non è stato ridotto il livello nominale delle divisioni, ma è stato ulteriormente ridotto il loro già relativamente basso livello di mobilitazione in tempo di pace. Infine, autorevoli esponenti militari hanno scritto sulla desiderabilità di una ristrutturazione che prescinda dalle unità pesanti predisposte per lo scenario passato di conflitto con la NATO a favore di unità più agili, armate più leggermente e logisticamente autosufficienti.3 

Tutto questo si è tradotto in una riduzione di circa 100.000 unità negli effettivi delle forze armate. Riduzioni consistenti anche nei mezzi corazzati e nell'artiglieria, con centinaia di pezzi obsoleti distrutti, e nell'aviazione. Modernizzazioni invece in marina, con l'acquisizione di nuovi mezzi da sbarco, e nelle forze aeree, con l'entrata in servizio dei primi MiG-29.

La spesa militare è stata tagliata di circa la metà, in termini reali, nel 1989 rispetto all'anno precedente. É poi rimasta stabile nel 1990, anche se è difficile fare paragoni con il passato in quanto l'elevato livello e l'aleatorietà dell'inflazione non consentono di valutare con precisione il variare effettivo dell'onere della spesa militare sull'economia.

Prospettive

La democratizzazione politica in Polonia, anche se ancora da perfezionare, è ormai un fatto acquisito e non reversibile a meno di sconvolgimenti cataclismatici non solo nel paese, ma nel continente europeo nel suo insieme. L'unica minaccia residua è quella di una ricaduta autoritaria in caso di prolungata crisi economica e tentazioni di escamotage nazionalistico. Anche se improbabile, questa eventualità non è impossibile.

La riforma economica procede coerentemente ed a ritmo forzato, più che altrove nella regione e invero come da manuale di economia. Walesa sarà però probabilmente costretto ad abbandonare l'attuale populismo, diventare più pragmatico ed usare tutto il suo carisma per far accettare i necessari sacrifici ai polacchi. Nonostante ciò, c'è da temere che, alla luce dei problemi ancora all'orizzonte, forse il carisma di Walesa non basterà. C'è da augurarsi che egli continui a seguire la strada imboccata da Mazowiecki. 

Se lo farà, due sono le alternative più probabili: o i Polacchi lo seguiranno, o ci potrebbe essere una nuova crisi politica ed istituzionale, in quanto non ci sono altri che possano riuscire più di lui a spendere capitale politico per il successo della transizione all'economia di mercato. D'altro canto, ci sarà un serio pericolo per il processo di riforma nel suo insieme se egli cercherà di correggere l'attuale recessione artificialmente per attenuarne l'impatto sociale, creando cosí pressioni inflazionistiche e minando il successo dell'operazione di riconversione nel suo insieme.

La credibilità del governo, e quindi la sua capacità di fare accettare sacrifici, potrebbe essere messa in dubbio se non ci saranno miglioramenti tangibili nel corso del 1991. La sconfitta di Mazowiecki alle elezioni presidenziali dimostra come i Polacchi abbiano una scorta di pazienza molto ridotta, nonostante il Primo Ministro stesse operando una rapida ed esemplare transizione all'economia di mercato, che tutti vogliono e per fare la quale era stato eletto. Il comportamento elettorale non è stato forse molto razionale, ma ciò non sorprende dopo quattro decenni di promesse non mantenute, e questo atteggiamento non cambierà solo perché è cambiato il regime.

Conclusioni ed implicazioni per l'Occidente

La riforma politica in Polonia è praticamente ultimata, e le prossime elezioni libere saranno l'ultimo tassello per completare il quadro democratico del paese. Il paese è avviato sulla strada di una rapida e coerente riforma economica verso il mercato. Ma i tempi necessari a ciò non sono ben determinati ed il successo non è assicurato.

Gli aiuti finanziari occidentali di cui la Polonia fa pressante richiesta possono fare molto in quanto, più che negli altri paesi della regione, le condizioni per un loro utilizzo efficace sono state in buona parte create. Gli aiuti economici dall'Occidente sono però ancora pochi. Le banche private non sono disposte a rischiare a causa della precarietà del corso economico e della situazione finanziaria del paese, e qui può essere utile l'intervento politico dei governi.

É inoltre nell'interesse dell'Occidente incoraggiare la cooperazione intra-regionale in Europa orientale per meglio utilizzare le potenziali complementarità della regione est europea con l'Occidente. In questo campo, la Polonia si è dimostrata più sensibile di altri paesi limitrofi, ma è comunque opportuno continuare a far pressione in questo senso. In particolare, bisogna far capire che il risorgere del nazionalismo, a cui potrebbero essere tentati di far ricorso futuri governi polacchi in difficoltà economiche, non gioverebbe né alla causa della democrazia, né a quella della pace in Europa, cui noi Occidentali teniamo aprioristicamente.

L'accettazione nel Consiglio d'Europa sarà un riconoscimento importante del successo del movimento democratico polacco nello scorso decennio, ma proprio per questo non deve essere formalizzata fino a che non saranno indette elezioni veramente libere; d'altro canto non deve neanche essere ritardata oltre tale scadenza. Più avanti nel tempo, e comunque dopo il 1993, l'associazione alla Comunità sarà un passo obbligato, se le attuali tendenze dovessero confermarsi, verso l'adesione piena, probabilmente verso la fine del decennio.

BIBLIOGRAFIA

Argentieri, Federigo: "L'Europa Centro-Orientale", relazione preparata per il convegno Europa '90, Istituto Affari Internazionali, Roma, Novembre 1990.

Cespi: La Polonia dalla Tavola Rotonda al Governo Mazowiecki, Note & Ricerche, Roma, febbraio 1990.

Gati, Charles: "East-Central Europe: The Morning After", in Foreign Affairs, Vol. 69, No.5, Winter 1990/1991.

Geremek, Bronislaw: "Post-Communism and Democracy in Poland", in The Washington Quarterly, Vol. 13, No.3, Summer 1990.

International Institute for Strategic Studies: The Military Balance, 1990-1991, annuario di analisi militare.

International Institute for Strategic Studies: Strategic Survey, 1989-1990, annuario sulla situazione strategica internazionale.

Labedz, Leopold: Poland under Jaruzelski (New York: Charles Scribner's Sons, 1983).

Sachs, Jeffrey and David Lipton: "Poland's Economic Reform", in Foreign Affairs, Vol. 69, No. 3, Summer 1990.

Szayna, Thomas S.: Polish Foreign Policy under a Non-Communist Government: Prospects and Problems (Santa Monica, CA: Rand Corporation, 1990).

The Economist: Foreign Report, settimanale.


NOTE

1Jachowicz, Jerzy: "Short Report on the Ministry of Internal Affairs", in Gazeta Wyborcza, 23 Marzo 1990, tradotto dal polacco dal Soviet Studies Research Center, Royal Military Academy, Sandhurst.

2Kowan, Tadeusz: "Wilno, c'est-a-dire Nulle Part?", in Le Monde, 23 Aprile 1990.

3Koziej, Stanislaw: In the New Conditions: Strategic Defence, settembre 1990, tradotto dal polacco dal Soviet Studies Research Center della Royal Military Academy, Sandhurst, Regno Unito.

13 November 1990

La situazione in Ungheria

Questa relazione si pone lo scopo di fornire un quadro politico generale entro al quale si collocano i rivoluzionari sviluppi che hanno avuto luogo in Ungheria negli ultimi due anni. Dopo una breve introduzione storico-culturale, si presenterà un'analisi delle condizioni di politica interna ed estera che hanno reso possibile tali cambiamenti. Seguiranno brevi cenni sulle riforme economiche, per una più approfondita analisi delle quali si rinvia il lettore alla relazione sull'argomento presentata in questa stessa sessione. Concluderò con una presentazione delle possibili alternative per il futuro e delle implicazioni delle stesse per l'Occidente. In appendice, una breve descrizione della cosiddetta "Pentagonale", importante foro di sviluppo delle relazioni tra Italia ed Ungheria.

Lo sfondo storico e culturale

L'Ungheria ha mantenuto un forte legame culturale con l'Occidente sin da quando, più di mille anni fa, le rozze tribù magiare scelsero di rinunciare al loro retaggio storico-culturale originario dell'Asia e guardarono invece all'Europa. Importante aspetto della loro civilizzazione ed europeizzazione fu la conversione alla cristianità con Santo Stefano (peraltro un brutale despota che faceva accecare chi non si voleva convertire e versare piombo fuso nelle loro orecchie). La più importante conseguenza di ciò fu il consolidarsi di una permanente e viscerale ostilità culturale contro gli orientali in generale, ed in particolare prima contro i Tartari e poi contro i Turchi, che se la guadagnarono anche grazie a ben 150 anni di opprimente occupazione, dal 1526 al 1686. In questo periodo i Magiari furono spinti in gran numero verso la Transilvania, dove erano meno perseguitati dagli Ottomani, e molti si trattennero lí anche dopo la loro dipartita. Infine, come vedremo, l'anti-orientalismo ungherese si è rivolto contro i Russi.

Ai Turchi subentrano gli austriaci con i quali i nobili ungheresi trovarono, se pur a fasi alterne, una certa intesa. Vienna permise una sostanziale rinascita culturale magiara verso la fine del settecento, quando tornò anche in uso la lingua ungherese a livello ufficiale. Ai moti paneuropei del 1848 corrispondeva in Ungheria una rivolta indipendentista, che aveva fatto vacillare il controllo austriaco ed era stata domata nel 1849 solo grazie all'invasione delle truppe dello Zar Nicola Primo, chiamato da Franceso Giuseppe. Non infrequenti saranno in futuro, specialmente dopo la nuova invasione russa quasi cento anni dopo, i richiami nazionalistici ai "fatti del '49".

Tornata indipendente dopo la Prima Guerra Mondiale, l'Ungheria non riusciva però ad evitare di gravitare nella sfera di influenza tedesca, ed Hitler trovava nel nazionalismo del dittatore fascista Horty una base su cui fondare l'alleanza di Budapest con l'Asse, dietro promessa di recuperare, a scapito di Romania, Jugoslavia e Cecoslovacchia, l'integrità territoriale perduta con il trattato di pace del 1919. Gli ungheresi sono stati un fedele, se pur militarmente poco rilevante, alleato dell'Asse sul fronte russo.

L'ostilità verso tutto ciò che è orientale, e l'orientamento verso occidente, trovano dunque fondamento nell'esperienza storica dei Magiari, popolo asiatico che ha rifiutato l'Asia e che ha cercato invano, almeno fino ad ora, un collegamento dignitoso con l'Occidente. Il fatto di essere stato da questi frustrato, rifiutato e abbandonato o, peggio, trascinato in disastrose avventure belliche, non sembra aver intaccato l'orientamento culturale fondamentale degli Ungheresi. Il richiamo ai valori occidentali della Riforma, del Rinascimento e dell'Umanesimo, dell'Illuminismo e della Rivoluzione Francese sono sopravvissuti, pressoché intatti, a quarantacinque anni di occupazione sovietica ed indottrinamento marxista.

Il paese nel "blocco sovietico"

Tralasciando qui di discutere della presa e del consolidamento del potere comunista nell'immediato dopoguerra, si nota che, dopo lo scossone del 1956, in Ungheria si è assistito, più che in altri paesi dell'Est Europa, ad una lenta ma costante liberalizzazione interna. Dopo alcuni anni in cui era stato inviso alla popolazione come collaborazionista degli invasori sovietici, il regime di Janos Kadar, un Quisling che però aveva tra le sue "credenziali" di essere stato torturato ed imprigionato dagli stalinisti nei primi anni cinquanta, si era così meritato una certa dose di legittimità interna. Questa raggiungeva il suo apice negli anni settanta, quando gli ungheresi godevano delle maggiori libertà personali e forse del migliore standard di vita che era dato di vedere nel blocco sovietico.

L'Ungheria è stata senza dubbio l'apripista delle riforme economiche e politiche in Europa orientale. Il Nuovo Meccanismo Economico (NEM) nel 1968 è stato il prototipo, e forse l'esempio migliore, del parziale revisionismo (se pur non chiamato tale) che si sia potuto sviluppare in era brezhneviana. La parzialità delle riforme, e le loro conseguenti inadeguatezze e contraddizioni, facevano però sì che già dalla fine degli anni settanta il NEM si rivelasse inadeguato ad ovviare ai mali dell'economia.

Nonostante la stagnazione nella riforma economica durante gli ultimi anni di Kadar, tuttavia, l'Ungheria rimaneva politicamente e socialmente la più aperta società della regione. Le prime elezioni con candidature multiple e non-comuniste avevano luogo già nel 1985 (e la relativa legge elettorale è del 1983, quando al Cremlino c'era ancora Andropov). Il Parlamento che da questa scaturiva non aveva ancora poteri reali nei confronti del partito, ma i suoi membri diventavano sempre più attivi, soprattutto dopo il voto del settembre 1987 col quale sancivano, allora novità assoluta in Europa orientale, l'adozione della tassa sul reddito e dell'imposta sul valore aggiunto a partire dal Gennaio 1988.

In politica estera, invece, Budapest ha continuato a seguire una linea pro-sovietica strettamente ortodossa fino a ben dopo l'avvento di Gorbaciov, e precisamente fino al ricambio generazionale al vertice del 1988 di cui si dice di seguito. Fino ad allora, alle aperture interne non era corrisposta una ricerca di indipendenza di politica estera, così come aveva invece fatto in quegli anni la Romania. La spiegazione di ciò è duplice: da una parte Kadar non poteva certo permettersi di scuotere il regime la cui ragion d'essere era proprio l'ubbidienza a Mosca; dall'altra, egli pensava, correttamente, che agli Ungheresi interessasse di più veder migliorare il proprio standard di vita, arricchito magari da una maggiore libertà di viaggi all'estero, che non una nuova improbabile sfida alla "Dottrina Brezhnev". Col tempo, a queste spiegazioni se ne aggiungeva una terza: alla luce delle crescenti difficoltà economiche, il regime di Kadar, che non voleva o non poteva sottoporre i propri cittadini alle privazioni che Ceaucescu imponeva ai Romeni, aveva bisogno dei commerci sussidiati con Mosca per mantenere un minimo di coesione ed ordine sociale.


Recenti sviluppi politici

Politica Interna

Durante la recente visita del nuovo Premier Antall negli Stati Uniti il Presidente americano Bush ha significativamente ed appropriatamente dichiarato che l'"Ungheria non è più una 'democrazia emergente', ma una democrazia".1 Il processo di emergenza della nuova democrazia è durato esattamente due anni. Il punto di partenza dell'accelerazione decisiva alle riforme interne ungheresi si è avuto infatti con la rimozione di Kadar dalla segreteria generale del Partito Operaio Socialista Unificato (POSU) nel Maggio 1988. In poche settimane, i riformisti, guidati da Imre Pozsgay, criticavano il suo successore, Karoly Grosz, di eccessiva lentezza nel rinnovamento. Ne scaturiva una profonda frattura nel partito, che ne avrebbe in seguito causato la scissione e ne demoralizzava subito ed irreparabilmente la base. 

Che la svolta sarebbe stata rapida e di lunga portata appariva chiaro con la simbolica riabilitazione di Imre Nagy (il Premier della Rivoluzione del 1956 deposto e giustiziato dai sovietici) nel Giugno 1989, con nuovo funerale ufficiale che restituiva dignità, se pur postuma al precursore politico degli eventi odierni, sepolto per 31 anni un una fossa anonima. (Per amara ironia della storia, il vecchio Janos Kadar, ormai completamente esautorato, moriva in quello stesso giorno.) Oggi la festa nazionale ungherese non è più l'anniversario della Rivoluzione socialista, ma, in Ottobre, quello della rivoluzione di Nagy del 1956!

Alla crisi interna del partito seguiva logicamente un attacco generalizzato alla legittimità del potere comunista nello stato. Questo, che era sempre stato solo formalmente legittimo, mai politicamente, ne risultava fatalmente indebolito. La memoria storica della sua presa del potere dietro ai carri armati sovietici nel 1945 e dei fatti del 1956 era potentemente risvegliata dalla glasnost informativa divenuta ormai incontenibile. Il partito "guida" doveva quindi presto accettare una "tavola rotonda" con l'opposizione, divisa sì, anzi frammentata, ma capillarmente dilagante nella società ormai priva di remore nel manifestare, nel nome di Gorbaciov, la propria domanda di pluralismo.

L'imminenza e l'inevitabilità della perdita del monopolio del potere, a sua volta, producevano un'ulteriore aggravamento della crisi di coscienza del partito, che portava alla decisione di rinnegare il passato e cambiare anche nome il 7 Ottobre 1989. Cancellando la parola "operaio", ad indicare la fine ufficiale della dittatura del proletariato, il nuovo Partito Socialista Unificato (PSU) si illudeva di riconquistare l'erosa fiducia proprio della classe che aveva così a lungo sostenuto di rappresentare. Solo circa 50.000 dei 700.000 membri però si re-iscrivevano, e tra loro la maggior parte erano apparatchiki compromessi con il precedente regime. Rimane a tutt'oggi una fazione di nostalgici irriducibili che mantiene un nuovo partito con il nome originale di POSU, ma è politicamente irrilevante.

Parallelamente, cambiava nome anche lo stato che al POSU era legato, e la Repubblica Ungherese, così, non accampava più pretesa di essere "Popolare". Uno stato che dopo quarantacinque anni di dittatura è costretto a restituire il potere al popolo sovrano deve eliminare ogni esplicito riferimento a quello stesso popolo dalla propria denominazione ufficiale. Se si vuole, è George Orwell alla rovescia!

Le prime elezioni libere si sono avute nel 1989, cominciando a livello regionale nella primavera, e portavano ad una inequivocabile sconfitta dei comunisti. Si preparava così la strada alle libere elezioni politiche del 1990: il meccanismo elettorale sviluppato sulla scia di quello del 1983, già all'avanguardia per i paesi socialisti perché dava un minimo di scelta tra i candidati. Dopo innumerabili compromessi, il meccanismo adottato era complicatissimo, indice della poca esperienza democratica di chi lo ha elaborato e fonte di inevitabile confusione nell'elettorato. Qui di seguito si fornisce una tabella con una sistesi dei risultati di quelle elezioni.


Risultati elettorali politici in Ungheria, 1990

Tipo di legislatura: Camera unica di 386 seggi, di cui 8 attribuiti dopo il voto su designazione delle minoranze nazionali.

Sistema elettorale: Un complicato sistema di liste di partito su base distrettuale, regionale e nazionale (202 deputati in tutto); sistema alla francese per i rimanenti 176.

Partiti                                        Numero dei seggi 


Forum democratico ungherese                         164

Alleanza dei democratici liberi                      92

Partito indipendente dei piccoli proprietari         44

Partito socialista ungherese (ex operaio)            33

Alleanza dei giovani democratici                     21

Partito popolare democratico cristiano               21

Alleanza agraria                                      1

Indipendenti                                          6

Singoli candidati che rappresentano due partiti       4

TOTALE                                              386


Al di là dei risultati elettorali, l'elemento forse più preoccupante che emergeva nel corso della campagna elettorale era il crescente nazionalismo, soprattutto in chiave anti-rumena e anti-sovietica, ma anche con toni anti-semiti.2 Come vedremo anche successivamente negli altri paesi della regione che saranno analizzati nel progetto Europa 20, quello del nazionalismo è un problema generalizzato in Europa orientale, e potenzialmente destabilizzante, cui in Occidente si deve prestare massima attenzione.

Anche se la situazione politica nel paese, alla fine del 1990, è tutt'altro che stabilizzata, si può asserire con una certa fiducia ormai che il processo di trasformazione democratica in Ungheria è stato sorprendentemente ordinato ed indolore. A differenza di quanto è accaduto negli altri paesi che hanno compiuto in questi anni processi paralleli, non ci sono stati infatti scontri cruenti, né politici, né fisici nelle piazze. I comunisti si sono fatti da parte con delicatezza, semplicemente votando la fine del proprio monopolio di potere.

Non è emersa inoltre in Ungheria una figura carismatica e tascinatrice come Walesa in Polonia o Havel in Cecoslovacchia. Il Premier Antall era relativamente sconosciuto prima delle elezioni. Forse questo porterà ad una più rapida istituzionalizzazione della democrazia ungherese, la cui solidità è già svincolata dalla dipendenza da una singola persona. D'altra parte, la mancanza di un capo carismatico la rende sicuramente meno capace di far accettare gli indispensabili sacrifici alla popolazione.

Aspetto positivo della trasformazione ungherese è stato il massimo grado di liberalizzazione dell'informazione e della comunicazione che si è registrato sin dai primi momenti del processo di democratizzazione, più rapidamente e pacificamente che negli altri paesi della regione. Basti qui ricordare l'apertura dei primi uffici in Europa orientale di Radio Europa Libera, la fonte di informazioni per decenni boicottata dai comunisti, a Budapest nel 1989.


Politica Estera

Sarebbe impossibile sopravvalutare il contributo dell'Ungheria alla fine della guerra fredda. É stata un'azione coraggiosa della politica estera ungherese, e cioè l'apertura delle frontiere con l'Austria ai tedeschi orientali del Settembre 1989, la mossa decisiva che ha innescato il meccanismo dello smantellamento della "Cortina di Ferro", fisica oltre che politica, e conseguentemente dell'unificazione tedesca. Non è un caso che, alla vigilia dell'unificazione tedesca, nell'estate del 1990, il Cancelliere Kohl abbia fornito ampie garanzie di aiuti all'Ungheria che stava per perdere gli importanti accessi, protetti da vecchi accordi con la Berlino comunista, al mercato tedesco orientale. La gratitudine raramente ha un ruolo in politica estera, ma ci sono oggi le premesse oggettive perché la Germania favorisca l'ammortizzamento degli scossoni provocati dall'unificazione all'Ungheria, almeno a livello commerciale.

Fu quello il primo atto di politica estera realmente autonomo di Budapest, peraltro ancora a regime comunista, anche se ha significato la rottura di precisi impegni legali con la Germania di Honecker. Paradossalmente, si nota che questo primo atto autonomo dall'URSS ha goduto, da subito, del pieno appoggio di Mosca, che lo ha approvato quando, poche ore prima, ne è stata informata.

In campo militare, si nota che l'Ungheria è il paese dell'Europa orientale che ha dato più peso alle questioni di sicurezza nel processo di trasformazione democratica, mentre gli altri hanno dato importanza pressoché esclusiva a quelle politiche ed economiche. Il problema della sicurezza è stato affrontato soprattutto con l'Italia, anche cercando soluzioni bilaterali, per esempio nella Pentagonale (vedi l'Appendice a questa relazione).

L'alleanza forzata con l'URSS è stato il fattore condizionante di tutta la politica estera ungherese del dopoguerra. Adesso questo legame è in fase di scioglimento, ed il rapporto di subordinazione militare bilaterale (ancora più condizionante dell'appartenenza al Patto di Varsavia) lo è con esso. L'uscita delle truppe sovietiche dall'Ungheria (il cosiddetto Gruppo di Forze Meridionale) avverrà entro la metà del 1991. I primi ritiri sovietici dall'Europa orientale sono già avvenuti proprio in Ungheria.3

L'unico problema che rimane nella definizione del completo ritiro sovietico è economico: i sovietici reclamano un compenso per quelli che sostengono essere stati i loro "investimenti" nelle strutture che ora si apprestano a consegnare all'Ungheria. Gli ungheresi, al contrario, sostengono di aver diritto a riparazioni sovietiche per i danni causati, al territorio ed alle stesse summenzionate strutture, dall'incuria delle truppe sovietiche. Il problema però è sorprendentemente marginale rispetto al fatto straordinario che oggi non si parla più del se i sovietici si debbano ritirare, ma quando e a che condizioni, e Mosca non sembra avere molta leva negoziale a questo riguardo.

L'intenzione di abbandonare formalmente il Patto di Varsavia è stata annunciata, se pure in toni garbatamente diplomatici, da Budapest, e la neutralità militare è dalla metà del 1990 l'obbiettivo dichiarato del governo. In ambienti ufficiali, e molto di più in quelli non ufficiali, si parla persino apertamente di un'eventuale associazione alla NATO. Gli ungheresi probabilmente sottovalutano la delicatezza politica del problema, per gli Occidentali e per i gorbacioviani in URSS, dove tale adesione sarebbe vista in chiave antisovietica (e giustamente, perché tale sarebbe).

In linea generale, questo nuovo orientamento di sicurezza ungherese è accettato in URSS. Paradossalmente, si riscontrano più perplessità in Occidente, dove è più forte da una parte la paura di destabilizzazione della regione in caso di brusche alterazioni agli equilibri geopolitici, e dall'altra quella di una pressione troppo forte e troppo immediata sulla NATO, sull'Unione Europea Occidentale e, come si dirà in seguito, anche sulla Comunità Europea. (Vedi sezione conclusiva di questa relazione.)

Al momento, il problema più scottante della politica estera ungherese sono però i Magiari in Transilvania, che sono già emigrati in Ungheria in più di 40.000 negli ultimi tre anni. La persecuzione di un prete ungherese di Timisoara è stata la scintilla che ha fatto scoppiare l'incendio in cui ha perso il potere, e la vita, il Conducator Nicolae Ceausescu. Bodapest dichiara di non rivendicare alcun aggiustamento delle frontiere con la Romania, ma solo il rispetto dei diritti umani delle etnie ungheresi in Romania. Le relazioni con Bucarest sono oggi meno caustiche dopo il cambio di quel regime, ma il problema rimane, e si definirà solo, forse, con la stabilizzazione della democrazia e del rispetto dei diritti umani in generale in Romania. L'Ungheria faceva seguito alle sue ripetute proteste in merito al trattamento dei Transilvani in seno alle Nazioni Unite firmando, primo fra gli stati del Patto di Varsavia, la Convenzione di Ginevra sui Profughi  del 1951.

Un altro elemento fondamentale del nuovo corso ungherese, fatto interno ma con importanti risvolti internazionali, è il progresso registrato in materia di rispetto dei diritti umani, e l'Ungheria è unico paese ex-comunista ad aver ottenuto l'ammissione a pieno titolo al Consiglio d'Europa nel Novembre 1990. Degli altri, solo la Polonia e la Cecoslovacchia hanno ottenuto l'ammissione come osservatori.

Sul piano diplomatico, si nota un tentativo ungherese di migliorare le relazioni politiche con molti dei paesi che erano stati a lungo ostracizzati dalla diplomazia kadariana. Si è così assistito al rinnovo delle relazioni diplomatiche con Israele, interrotte dal 1967 così come Mosca aveva ordinato di fare a tutti gli stai satelliti (la sola Romania non aveva ottemperato). Ma anche con la Corea del Sud e, nel 1990, con il Vaticano.

Ottime anche le relazioni con gli USA, marcate dalla visita a Budapest di Bush, primo presidente USA in Ungheria. Tuttavia, gli USA hanno deluso per i pochi aiuti estesi all'Ungheria, anche se le hanno concesso la clausola di nazione più favorita nel commercio. Promettenti le relazioni col Giappone, già fonte di notevoli e crescenti investimenti diretti e, fatto forse più importante, di tecnologie industriali ed informatiche avanzate.


Recenti sviluppi economici

Per una più dettagliata esposizione delle problematiche economiche dell'Ungheria si rinvia il lettore alla relazione economica preparata per questo stesso progetto. Mi limito qui solo a pochi cenni di importanza particolare dal punto di vista politico. In breve, e come previsto, la contingenza sta ancora peggiorando, e continuerà ancora a farlo prima che possa migliorare. Come in tutti gli altri paesi ex-socialisti, non si vede ancora la luce alla fine del tunnel della trasformazione.


Riforme economiche

Nelle riforme economiche, l'Ungheria partiva avvantaggiata rispetto agli altri paesi della regione perché la transizione al mercato è stata finora meno traumatica, sia economicamente che culturalmente. Nel settore agricolo, ad esempio, anche se c'era nell'Ungheria comunista quantitativamente meno proprietà privata che in Polonia, si era però data molta libertà di gestione ai singoli contadini già dagli anni settanta. Piccole imprese private erano già operanti in gran numero, nei settori più svarati dell'artigianato, del commercio e dei servizi, già dagli anni settanta. La riforma definitiva e senza riserve verso il mercato era partita già negli ultimi anni del governo comunista, che aveva anche introdotto la prima tassa sul reddito dal 1988 (accanto alla capitalistica imposta sul valore aggiunto). L'ultimo programma economico del POSU, nell'Autunno 1989, già prevedeva, in linea di principio, una libera economia di mercato assieme ad un sistema politico multipartitico. Oggi, il resuscitato Partito dei Piccoli Proprietari, il maggiore nel 1945, fa di nuovo parte della coalizione di governo, ed ha annunciato di voler premere per una rapida e radicale privatizzazioone della terra.4

Forse tutto ciò faciliterà la transizione, ma la situazione economica generale è al momento tragica: l'inflazione è salita ad oltre il 25% e continua a crescere, il debito estero è di oltre 20 miliardi di dollari, che per capita è il più alto in Europa orientale. La disoccupazione è difficilmente calcolabile, ma è ben oltre il 10% ed destinata ancora inevitabilmente a salire. Le esportazioni sono in crescita (60% dal 1987 al 1990) e questo si riflette nel calo del rapporto tra debito e servizio, sceso dal 60% al 47% nello stesso periodo; tutto a scapito, ovviamente, dei consumi interni, già depressi da decenni.

Molto si è detto sui meriti della conversione al civile delle considerevoli risorse che i paesi socialisti per decenni hanno dedicato alle industrie belliche. Tagli sostanziali alla spesa militare, che era stata già peraltro quasi congelata dal 1986, sono in programma in Ungheria. Ma la questione non è semplicemente di come meglio utilizzare le risorse così risparmiate nel settore civile; esistono difficili complicazioni. In primo luogo, non tutto ciò che viene tagliato dal militare si trasforma in "dividendo della pace": si verifica infatti una perdita di gettito fiscale dalle imposte che sarebbero state pagate dalle industrie belliche, solitamente priviliegiate e perciò molto efficienti; e questo soprattutto nel breve termine, prima che una nuova produzione civile possa prenderne il posto. Questa perdita è difficile da stimare, ma è stata stimata fino a oltre il 50% del "dividendo". C'è inoltre un'immediata perdita di esportazioni di armamenti, specialmente verso l'URSS, ma questa non dovrebbe ammontare a molto (le cifre esatte non si conoscono).

In secondo luogo, ci sono i costi di smontaggio, trasloco e trasformazione delle apparecchiature belliche. Quindi, il costo dell'inevitabile disoccupazione dei lavoratori di quelle industrie, stimati a oltre 50.000,5 cui si aggiungono i costi per il riadattamento, la re-istruzione, rilocazione, ecc. D'altra parte questi problemi potrebbero essere di più facile soluzione in Ungheria che non in altri paesi socialisti perché non c'è mai stato qui un settore di industria militare fortemente compartimentalizzato (come ad esempio in URSS), ma al contrario questo è stato da sempre molto sovrapposto alla produzione civile. Infine, la conversione richiederà un'attenta programmazione centralizzata, specialmente nelle maggiori industrie pesanti: un piccolo paradosso nel processo di decentralizzazione e de-pianificazione dell'economia che potrebbe però contribuire a rallentarlo!

In materia di politica economica, merita una menzione a parte il problema dell'ambiente. Si può qui giustificatamente generalizzare un problema che non è solo ungherese ma coinvolge anche tutti gli altri paesi del CMEA, senza eccezioni. In Occidente l'ecologia è un problema soprattutto economico: rispettare l'ambiente costa caro, ed è quindi difficile per i governi obbligare le industrie a farlo. Sarebbe stato logico aspettarsi che le industrie pianificate dell'Europa orientale, non motivate dalla massimizzazione dei profitti come in Occidente e sotto controllo governativo diretto, avrebbero potuto permettersi di rispettare maggiormente il benessere del popolo di cui erano proprietà.

All'Est il problema è stato invece un altro: i governi non hanno fatto nulla per spingere le industrie ad innovare, ma si sono fossilizzati nel cercare (invano) di proteggere quel poco di competitività che potevano salvare cercando miopemente vantaggi anche nel risparmio di costose attrezzature anti-inquinamento. Una parte di responsabilità è tuttavia anche dell'Occidente, che fino a tempi recenti nulla ha fatto per spingere quei paesi ad adottare misure per contenere un'inquinamento che dopotutto danneggia anche noi. Anzi, i più avanzati meccanismi di filtraggio degli scarichi industriali erano fino a pochi mesi fa nelle liste dei cosiddetti "materiali stragici", la cui esportazione ad Est era proibita dal COCOM. La coscienza della necessità di una maggiore collaborazione pan-europea in materia di rispetto ambientale si è tradotta nella creazione, a Budapest, di un centro europeo per l'ambiente, con finanziamenti  della CE e statunitensi, Negli anni a venire si vedrà se alle diagnosi ed alle intenzioni corrisponderanno anche terapie adeguate; è certo, comunque, che i tempi di riadattamento delle industrie agli attuali standard anti-inquinamento occidentali saranno tutt'altro che brevi.


Rapporti economici con l'estero

Per quarant'anni esatti (1949-1989), le relazioni economiche internazionali dell'Ungheria sono state inquadrate nell'ambito del Consiglio di Mutua Assistenza Economica (CMEA o Comecon). Basato formalmente su utopie di fratellanza socialista, il CMEA era servito ai sovietici a controllare le economie dei paesi satelliti, e a questi ultimi per proteggere le loro inefficienze dal mercato internazionale. All'inizio del processo di riforma, l'Ungheria ambiva ad una radicale ristrutturazione del CMEA, a maggiori sbocchi nei mercati occidentali, ed a un maggior accesso a capitali e tecnologie pure occidentali. In questo Budapest trovava l'accordo, pur con differenziazioni anche notevoli, di tutti gli altri paesi dell'organizzazione. Primo fra tutti l'URSS, che già dal Luglio 1989 proponeva di passare tutte le transazioni commerciali intra-CMEA su valuta convertibile a partire dal 1991.6

Doveva questo essere l'inizio di una riforma per rendere il CMEA più efficiente, ma si è invece rivelato il primo passo verso la sua scomparsa. Commerciare in valuta convertibile eliminerebbe infatti uno delle principali ragion d'essere del CMEA, e cioè la protezione goduta dai beni di scarsa qualità commerciati al suo interno. Vale qui sottolineare che questa è una ragione sì economica, ma ancor prima politica, condizione necessaria alla sopravvivenza (meglio sarebbe dire, al prolungamento dell'agonia) di economie non competitive incapaci di mantenere, e lungi dal far progredire, uno standard di vita minimo per un paese industrializzato.

Oggi non è esagerato dire che gli ungheresi non vogliono neanche sentir parlare di CMEA, ed in questo probabilmente sbagliano. Si sottovalutano infatti così le potenzialità di collaborazione con altri partner regionali di dimensioni e caratteristiche più compatibili di quanto non siano, per ora, gli occidentali. Si sottovalutano altresì le possibilità di collaborazione con l'URSS, con la quale rimarrà comunque un elevato potenziale di complementarietà.

Budapest incoraggia attivamente l'investimento diretto di capitale straniero in Ungheria. Si sono peraltro levate aspre critiche ai comunisti che nell'ultimo periodo al potere, pur di favorire l'afflusso di valuta pregiata per cercare di salvare il loro regime, agli investitori occidentali hanno venduto molto a troppo poco. Ma il problema si ripropone anche oggi: gli occidentali sono disposti a rilevare beni ungheresi solo a prezzi competitivi sul mercato mondiale, ma che in Ungheria sono considerati bassi. Potrà qui forse intervenire, almeno in parte, un'oculata politica di sovvenzionamenti da parte dei governi occidentali, che spingano i propri investitori in affari che sarebbero altrimenti poco incoraggianti: il problema è politico prima che economico.

I capitali occidentali sono anche frenati dal problema della riesportazione dei profitti, difficile da sostenere se la valuta non diventa convertibile. Ma la convertibilità può a sua volta essere sostenuta solo da un'economia efficiente: dunque, prima che gli investimenti stranieri possano ragionevolmente arrivare in quantità determinanti, le riforme devono avere un qualche effetto credibilmente duraturo.

A livello istituzionale, l'Ungheria è stata tra i primi paesi dell'Est a manifestare il desiderio di entrare in CE al più presto, con formule provvisorie di associazione parziale nel breve termine, per dare tempo all'economia di prepararsi ed alla CE di completare il disegno integrativo del 1993. Dopo i primi facili entusiasmi, Budapest mostra maggiore comprensione per la necessità di gradualità in questo processo.


Politica Militare

Un cenno meritano gli importanti sviluppi in materia di sicurezza nazionale. In Ungheria, ci sono state riduzioni unilaterali della leva da 18 a 12 mesi nel 1991, ed anche riduzioni quantitative di forze già dal 1989 (accompagnate però da miglioramenti qualitativi). Le Forze Armate ungheresi si muovono inoltre verso una struttura con una maggiore proporzione di professionisti e mirano ad attirare ufficiali di qualità offrendo salari competitivi col settore civile (sarà difficile rendere compatibile quest'ultimo requisito con consistenti tagli di bilancio militare che si auspicano).

Con l'avvento della democrazia parlamentare, anche le questioni militari sono per la prima volta diventate oggetto di dibattito pubblico. Si sono moltiplicate le proteste, per motivi ambientali, contro le attività militari del Patto di Varsavia sul territorio magiaro. Si è già avuta, a questo proposito, una riduzione della quantità e della dimensione delle manovre, ed inoltre una demilitarizzazione unilaterale di fasce di 50km lungo i confini con Austria e Jugoslavia. Le forze armate sono state de-politicizzate come le altre istituzioni dello stato, mentre prima l'80% del corpo ufficiali era membro del POSU. I militari, in generale, hanno accettato le riforme di buon grado.

Una nuova "dottrina militare" nazionale (in realtà un documento più politico che militare) è stata proclamata nel Novembre 1989. Essa è fondata sul principio della difesa del territorio nazionale (senza obblighi di intervenire al di fuori di esso all'interno del Patto). Tuttavia, a Budapest si cercano attivamente, anche se con una certa incertezza di approccio, nuove alleanze. Ci sono stati approcci bilaterali con l'Italia, per esempio quando gli ungheresi volevano addirittura trattare di questioni di sicurezza in ambito Pentagonale. L'Italia non ha accettato questo approccio, perché le questioni militari sono meglio trattate da alleanza ad alleanza, in quanto non esiste una relazione militare bilaterale tra i due paesi, e nemmeno tra i cinque della Pentagonale, ma esiste una sicurezza europea unica ed indivisibile. La cosa è stata quindi lasciata cadere, ma potrebbe essere ripresa, se pur in forme diverse, in futuro.


Prospettive

Alla fine del 1990, in Ungheria, si nota che l'euforia politica conseguente alla creazione dell'attuale sistema democratico prevale nettamente sulle preoccupazioni sul piano economico, su cui si sono fatti solo pochi ed ancora incerti passi avanti. Il pericolo è però che questa euforia possa presto, come è normale, esaurirsi: gli ungheresi prenderanno presto per scontato quello che fino a pochissimi anni fa era inimmaginabile. A quel punto, si presenteranno le dure realtà della riconversione economica e sistemica, e spariranno le ancora diffuse illusioni sull'onnipotenza del capitalismo. Per esempio, l'apertura a Budapest della prima borsa valori dell'Europa orientale nell'Agosto 1990 porterà si capitali di cui c'è disperato bisogno, ma la speculazione cui ciò si accompagnerà sarà pure foriera di costi sociali oggi sottovalutati.

Ciò che resta da vedere è se l'entusiasmo politico durerà abbastanza a lungo, e sarà abbastanza forte, da permettere alla nuova dirigenza di far accettare i sacrifici economici che caratterizzeranno il periodo di trasformazione. Se la risposta sarà positiva, l'Ungheria potrà raggiungere un livello di stabilità sociale che le permetterà un agevole sviluppo economico e civile. Altrimenti, sussiste il rischio che il paese non abbia la maturità politica per sopportare l'inevitabile lungo periodo di transizione turbolenta che gli si prospetta.

Conclusioni ed implicazioni per l'Occidente

La trasformazione in atto in Ungheria è il risultato di tre fattori: all'inizio, i primi impulsi sono stati dati dalla crescita di una nuova generazione di funzionari di partito, più giovani, pragmatici ed istruiti di quelli della generazione di Kadar; questi, come tanti altri loro colleghi nell'ex-impero sovietico, sono però stati presto travolti dagli eventi che loro stessi hanno contribuito a mettere in moto. In secondo luogo, lo sviluppo, nell'humus culturale semi-libero degli ultimi anni del kadarismo, di un'opposizione articolata, riformista di tipo pro-occidentale, ha favorito il consolidamento dei nuovi partiti politici non appena le condizioni lo hanno permesso. Infine, il fattore decisivo deve essere individuato, per l'Ungheria come per gli altri paesi, nella salita al potere di Gorbaciov: senza l'assenso e l'incoraggiamento di Mosca ai cambiamenti in atto, avremmo probabilmente assistito alla continuazione del kadarismo senza Kadar.

In campo economico, per l'Occidente, si pone il problema di evitare facili entusiasmi senza però perdere utili opportunità. L'imprenditoria occidentale dovrebbe quindi orientarsi ad andare in Ungheria solo nella misura in cui la situazione interna, soprattutto in materia di riforme economiche e burocratiche, prenderà piede da sola. Altrimenti il rischio è che l'intervento potrebbe divenire controproducente. Se troppo lento, potrebbe costare in opportunità perdute e non portare in tempo il contributo marginale, e forse cruciale, per il successo delle riforme, e l'esperimento ungherese potrebbe quindi fallire. Ma se troppo veloce, sarebbe equivalente a seminare prima che si sia arato. L'Ungheria oggi sta arando il proprio terreno, e sta a noi essere pronti a seminare. Anche a livello istituzionale, il tempismo sarà di importanza cruciale: un'affrettata corsa all'adesione alla CE sarebbe controproducente per la CE e per l'Ungheria, ma eccessivi ritardi sarebbero politicamente contraddittori e dannosi.

Questo cale anche in campo di sicurezza. L'entusiasmo ungherese per l'adesione alla NATO va raffreddato. Quella che potrebbe essere una spinosa questione diplomatica se venisse proposta oggi, potrebbe invece diventare irrilevante nei prossimi anni, col consolidamento definito della distensione, ed è quindi saggio prendere tempo.


Bibliografia

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Istituto Affari Internazionali (a cura di): numero speciale della rivista trimestrale The International Spectator, No. 3, 1990, contenente le relazioni presentate a convegni organizzati dallo IAI e dall'istituto Ungherese di Affari Internazionali e dedicato a problemi economici dell'Ungheria e dell'Europa orientale.

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Radio Free Europe: Report on Eastern Europe, settimanale.

Volgyes, Ivan: Hungary: a nation of Contradictions (Boulder, CO: Westview Press, 1982).

Appendice: la "Pentagonale"

La Pentagonale è stata fondata il 10 Novembre 1989, prima come "Quadrangolare" a quattro, ma presto allargata anche la Cecoslovacchia dopo la "Rivoluzione di Velluto" del novembre 1989. A partecipare è interessata anche la Romania, che però finora ne è stata tenuta fuori per motivi politici. Principale forze iniziatrice è stata l'Italia, che con il nuovo Ministro degli Esteri De Michelis sta cercando un nuovo ruolo nella Mitteleuropa senza cortina di ferro. L'accordo è anche frutto di una obiettiva necessità per un foro di cooperazione sub-regionale pragmatica al di fuori dal quadro di riferimento tradizionale delle organizzazioni della guerra fredda. Il foro pentagonale è particolarmente utile nel breve termine, in attesa di far maturare i tempi per più vicina collaborazione degli stati membri con la CE, ma non è sostitutiva di questa. Contrariamente ai desideri di alcuni paesi, tra cui l'Ungheria, la pentagonale non ha scopi integrativi.

Aspetto importante della Pentagonale è che essa riunisce per scopi di cooperazion regionale gli stati, a differenza dell' Alpen-Adria, che enfatizza la cooperazione tra le regioni, e che per questo può anche essere fonte di tendenze disgregative nei vari stati (specialmente in Jugoslavia, con la Slovenia, ma forse anche in Italia se le Leghe regionali dovessero confermanre la loro forza elettorale).

Oggetto della Pentagonale sono questioni economiche, culturali, ambientali, inerenti al problema dei trasporti. Gli Ungheresi volevano includere nell'agenda anche la sicurezza, ma l'Italia ha opposto resistenza, sostenendo che era meglio trattare di questa a Vienna, in quanto non avrebbe senso discutere di tali argomenti escludendo gli alleati NATO o i sovietici.