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19 April 2022

Una visione strategica sulla guerra in Ucraina

La guerra è in pieno sviluppo e sembra destinata a durare ancora per un po’. L'esito non è sicuro, ma la Russia ha sicuramente fallito nel suo obiettivo principale: privare il paese che ha invaso della capacità di gestire la propria identità. Ciononostante, potrebbe ancora riuscire ad occupare fette di territorio ucraino in permanenza, abbastanza per poter dichiarare vittoria. Adesso però è arrivato il momento, superato lo shock iniziale e le misure di immediata risposta in termini di sanzioni economiche alla Russia e aiuti all'Ucraina, di pensare al lungo periodo. 

Tre questioni strategiche sono di primaria importanza alla luce della tragedia in corso: le conseguenze per l'Unione Europea, i riflessi sul ruolo delle armi nucleari ed il futuro dei rapporti con la Russia. Su questi temi urge una riflessione per il lungo periodo, che guardi al di là degli eventi di attualità, in modo da essere pronti ad agire con consapevolezza, e non sulla scia di emozioni, quando il conflitto finirà. Questa riflessione finora manca.

Unione Europea

Quali sono le implicazioni strategiche del conflitto per la UE? La prima è che la sicurezza in Europa non può più essere data per scontata, come in troppi hanno colpevolmente pensato dopo la fine della guerra fredda, e che dobbiamo tornare a focalizzarci la nostra attenzione. Non si può pensare solo al commercio e agli scambi culturali, perché, si pensava, tanto il tempo delle guerre è passato. 

In primo luogo, quindi, non potremo tornare a fare tutto come prima quanto taceranno i cannoni. Per decenni abbiamo creduto, io per primo, che creare interdipendenza con potenziali avversari favorisse il reciproco interesse alla pace: il mio primo lavoro di ricerca dopo l'’università, nel 1982, fu sul gasdotto Urengoy che si stava costruendo per portare gas dall'URSS all'Europa occidentale, "bucando" la cortina di ferro. L'Europa lo costruì contro il parere dell'amministrazione Reagan che invece sosteneva fosse pericoloso creare questa dipendenza dalle forniture sovietiche. (Gli americani però erano prontissimi a vendere a Mosca le loro materie prime, a cominciare da quelle alimentari.) Da allora i gasdotti dall'URSS/Russia verso l'Europa si sono moltiplicati. Io credo ancora che l'interdipendenza sia la strada giusta, e forse obbligata, per il futuro, ma mi pare ovvio che vada ripensata attraverso una maggiore diversificazione di fonti energetiche e fornitori. Su questo dirò più in dettaglio di seguito.

La seconda è che la sicurezza costa, cosa che abbiamo sempre saputo ma che negli ultimi decenni abbiamo ignorato. L'Europa a mio avviso non spende poi tanto poco (il dibattito va avanti da decenni, non vi entro qui) e comunque si può permettere di fare di più. Ma certamente spende male perché lo sforzo economico è distribuito in modo inefficiente tra 27 forze armate diverse, con ovvi sprechi per costi fissi, imperfetta standardizzazione ed interoperabilità, duplicazioni, che si potrebbero eliminare se si avesse un esercito europeo, una marina europea ed un'aviazione europea. Spendere di più senza migliorare il come si spende non sarebbe un uso efficiente delle risorse. E vengo al terzo punto.

La terza conseguenza strategica del conflitto ucraino per l'Europa è che dal punto di vista politico, economico e militare dell'attuale conflitto tocca l'Unione nel suo insieme. I gasdotti partono tutti dalla Russia ma, a parte il Nord Stream che va dritto in Germania, gli altri riforniscono vari stati membri. E comunque il gas è una risorsa fungibile. Se la Francia è più protetta dalle sue centrali nucleari, mentre Italia e Germania restano più dipendenti dai gasdotti con la Russia, tutti i paesi soffrono degli sconvolgimenti e degli effetti inflattivi  dall'attuale crisi sul mercato dell'energia. Non ci sono stati membri che siano al riparo. Più in generale, se la Polonia e la Romania sono al confine dello scontro armato, le ripercussioni toccano palesemente anche stati più lontani come il Portogallo e l'Irlanda. 

E dunque è l'Unione nel suo insieme che si deve far carico della difesa degli stati membri, sempre in coordinamento con gli alleati transatlantici nella NATO ma con capacità autonome. Due fatti dell'anno scorso, la creazione dell' AUKUS e il ritiro dall'Afghanistan, deciso unilateralmente dagli USA, rendono ancora più evidente l'ineluttabilità di questa conclusione. 

La Brexit ha rimosso uno dei principali ostacoli alla creazione di una difesa comune europea, in quanto i britannici si opponevano sempre e comunque ad ogni iniziativa che potesse creare anche solo l'impressione di una capacità europea di difesa indipendente dagli USA. Si può aggiungere che comunque per il Regno Unito e gli Stati Uniti il legame tra i Five Eyes (USA, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda) è sempre stato più importante di quello con gli alleati della NATO.

La guerra in Ucraina ci dovrebbe ricordare l'urgenza di procedere con l'istituzionalizzazione della sicurezza europea.  È ovvio, almeno lo è per me, che il legame con gli USA nella NATO debba restare, ma su un piano più equilibrato se non proprio paritetico. Un po’ come è oggi il rapporto dell'euro con il dollaro, della Banca Centrale Europea vis-à-vis la Federal Reserve.

La storia dell'euro ci da una utile traccia: partono alcuni paesi, altri seguono e quelli che non seguono restano fuori, marginali. Oggi i governi di Germania, Francia, Italia e Spagna, abbastanza in sintonia politica sull'argomento, potrebbero creare il nucleo della difesa comune. Forse, dopo la rielezione, Macron, libero da vincoli durante l'ultimo mandato, sarà più attivo. 

Questo deve valere anche nel campo della deterrenza nucleare: la Francia di Macron è europeista, ma si ferma quando si parla sul serio di difesa comune ed in particolare di nucleare. In realtà non esiste nessuno scenario immaginabile nel quale la Francia sia minacciata al punto che il deterrente nazionale diventerebbe rilevante senza che al tempo stesso non siano minacciati anche gli altri paesi dell'Unione. Si dirà che nessun paese, ed in particolare la Francia, una potenza nucleare UE e membro permanente del consiglio di sicurezza ONU, rinuncerebbe alla sovranità nazionale in materia, ma si diceva anche che la Germania non avrebbe mai rinunciato al Deutsche Mark.

E veniamo alla seconda questione strategica di questo articolo, le armi nucleari appunto.

Armi nucleari

Sin dall'inizio dell'invasione russa il Cremlino ha lanciato non tanto velate minacce di far uso di armi nucleari, anche se le dichiarazioni sono rimaste prevedibilmente vaghe sul come, contro chi e perché. Partendo dal presupposto che questo uso non avvenga, rimane l'obbligo di ripensare il significato delle armi nucleari per il futuro. Si potrebbe argomentare che la ratio per possedere un arsenale nucleare ne esce rafforzata: i paesi occidentali si sono sbracciati da prima dell'invasione a chiarire che non avrebbero fatto guerra alla Russia per l'Ucraina. Biden ha quasi urlato in conferenza stampa: "We will not fight Russia over Ukraine." E questo, non è difficile dedurlo, perché la Russia, anche se le sue forze armate stanno facendo una figuraccia, è una superpotenza nucleare. Ed è ipotizzabile che, se la Russia non avesse avuto un arsenale nucleare in riserva, non avrebbe neanche tentato l'avventura ucraina. 

Forse qualcuno in Ucraina si è pentito di aver rinunciato alle armi nucleari che l'URSS in dissoluzione aveva sul territorio ucraino: se Kyiv le avesse tenute forse oggi non ci sarebbe una guerra nel paese. Ma è una falsa domanda: quelle armi erano sì sul territorio ucraino, ma sempre sotto stretto controllo dei russi, e del KGB in particolare. Gli ucraini avrebbero però potuto farsele, e non lo fecero. Ebbero in cambio vuote promesse di sostegno alla loro indipendenza e integrità territoriale da parte di Russia, USA e Regno Unito. Parole al vento.

E se la Russia, umiliata sul campo dall'esercito ucraino riarmato dall'occidente, decidesse alla fine di lanciare qualche arma nucleare contro gli ucraini? Sarebbe una decisione bizzarra, dato che Putin continua a dire in TV che gli ucraini sono fratelli che devono essere liberati da una cricca nazista al potere, ma Putin ci ha abituati a decisioni bizzarre. A quel punto che fare? Una risposta nucleare occidentale, che potrebbe essere solo americana, sarebbe poco razionale.

Se gli USA rispondessero con le loro armi nucleari, infatti, si creerebbe una situazione del tutto nuova: un paese NATO che usa l'arma estrema non per proteggere la propria sopravvivenza, e neanche quella di un paese alleato, ma di un paese terzo, per quanto amico. E contro cosa potrebbe essere usata questa arma? Presumibilmente non contro il territorio ucraino, dato che lo scopo è difendere l'Ucraina, non distruggerla. Forse contro navi russe che bombardano dal Mar Nero? Forse, anche se vista la fine umiliante della Moskva non sembra sarebbe necessario. E dunque contro obiettivi in territorio russo? E se così fosse, cosa fermerebbe i russi dal rispondere contro gli americani, magari prima contro basi USA in Europa, come assaggio e prodromo ad un attacco sul territorio USA? Chi pensa di poter controllare questo tipo di escalation si illude, ci hanno provato a ragionare illustri esperti per decenni senza mai arrivare ad un risultato credibile.

Io non sono favorevole al disarmo nucleare della NATO, ma in questa crisi ucraina non vedo scenari ipotizzabili che rendano concepibile un impiego razionalmente utile di queste armi. Dunque tanto vale dirlo subito, forse può contribuire ad abbassare la tensione. A cambiare idea, se cambia la situazione, c'è sempre tempo.

Altro punto è l'impatto della guerra in corso sulla proliferazione nucleare: un paese potenzialmente proliferatore in questo momento vede che possedere le armi nucleari paga, quindi è più incentivato a procurarsele. Invece, sconfiggere la Russia senza usare queste armi, anche se la Russia stessa ne facesse uso in Ucraina, sarebbe il modo migliore per rafforzare il regime di non-proliferazione.

Rapporti con la Russia

A costo di apparire inopportuno, data la tragicità del momento, penso non sia prematuro cominciare a pensare, già da oggi, a come impostare i rapporti tra occidente e Russia alla fine della guerra. Tutte le guerre finiscono e poi bisogna pensare a come costruire la pace. Anzi meglio pensarci prima ed essere pronti quando viene il momento.

Alla fine della guerra la Russia sarà ancora lì, anche se, vista la figuraccia, non credo che Putin resterà al timone per molto. Parliamo di 145 milioni di persone, il paese più esteso del mondo, pieno di materie prime di ogni genere ed importante mercato per i nostri prodotti. Una nazione di grande cultura che forse soffre di non aver partecipato né al Rinascimento né alla Riforma protestante, due elementi di grande progresso ed emancipazione in Europa centrale ed occidentale. Pensare di isolare la Russia nel lungo periodo sarebbe certamente controproducente e probabilmente impossibile, soprattutto per l'Europa. 

Dal lato economico, rinunciare alle materie prime russe sarebbe molto difficile. Il Financial Times si chiede se l'Europa si può svezzare dal gas russo e conclude: "With the contents of the EU plans spanning from plausible to wildly unrealistic, many energy experts warn that painful last resorts — energy rationing and blackouts this winter — are a near inevitability if Europe is truly serious about kicking its Russian gas habit." 

E comunque un taglio, letterale, dei gasdotti russi, non farebbe che mettere l'Europa nelle mani di altri fornitori non necessariamente più affidabili. Mentre sviluppiamo le fonti rinnovabili e ripensiamo alle centrali nucleari, cautela vorrebbe che facessimo attenzione a tagliare del tutto con la Russia. Persino Janet Yellen, ministra del Tesoro di Biden, ha dichiarato, sempre al Financial Times, che “Medium term, Europe clearly needs to reduce its dependence on Russia with respect to energy, but we need to be careful when we think about a complete European ban on say, oil imports.”

Rinunciare al mercato russo avrebbe anche un effetto economico recessivo, visto che la Russia è uno sbocco significativo per i prodotti europei. E poi rischieremmo di alienare più di quanto sia già avvenuto non tanto il regime, quanto il popolo russo.  Già nei decenni passati l'ostilità verso la Russia (in parte reale, in parte amplificata dal regime di Mosca) ha fatto scemare l'entusiasmo che i russi avevano per l'occidente subito dopo la dissoluzione dell'URSS. Le conseguenze di ciò difficilmente gioverebbero all'occidente, ed in particolare all'Europa, anche nel dopo-Putin. Sarebbe un paradosso se una Russia più democratica diventasse allo stesso tempo più anti-europea.

Dal lato politico, se guardiamo all'insegnamento della storia, pensiamo alla Germania, sconfitta in due guerre mondiali: dopo la prima fu umiliata, bistrattata, vilipesa, soprattutto isolata, e si crearono le condizioni per l'insorgere del nazismo. Dopo la seconda fu sì punita e addirittura divisa in due ma subito riammessa nel consesso dei paesi europei ed occidentali, basti ricordare che la Germania Ovest fu membro fondatore della prima Comunità Europea (Carbone e Acciaio) nel 1950, solo 5 anni dopo la sconfitta di Hitler, e dopo altri 4 anni fu ammessa nella NATO. Anche la Germania Est, occupata da 22 divisioni dell'Armata Rossa, fu inserita dai sovietici nel contesto del Patto di Varsavia e del Comecon. Credo bisogni pensare sin da oggi non tanto se, ma come integrare la futura Russia in un contesto di cooperazione europea ed internazionale.

Se vogliamo andare ancora un po’ più indietro nel tempo, pensiamo alla Francia post-napoleonica: dopo Waterloo, una volta neutralizzato l'aggressivo dittatore a Sant'Elena, la Francia fu subito riammessa nel concerto delle nazioni e partecipò al Congresso di Vienna del 1815, invitata da Metternich gli altri vincitori, e contribuì a creare un nuovo ordine in Europa che assicurò, più o meno, un secolo di pace. Speriamo che in Russia emerga un nuovo Talleyrand: prima sacerdote, poi rivoluzionario, poi braccio destro di Napoleone ed infine ministro della restaurazione. Non un campione di coerenza ma servì a reintegrare la Francia in Europa.

Bisogna poi tener conto della situazione globale. Bismarck diceva che, quando hai due avversari, le tue relazioni con ciascuno non devono essere peggiori di quelle che essi hanno tra di loro. Semplice aritmetica politica. Oggi bisogna tener conto della Cina, e sempre di più dell'India. Nixon (abilmente guidato da Kissinger) lo aveva capito bene, ed era andato da Mao a riallacciare rapporti, nonostante i due fossero politicamente agli antipodi e Mao si fosse macchiato di crimini orrendi. E allo stesso tempo Nixon e Kissinger negoziavano la distensione con i sovietici, sul disarmo e sul commercio, e mandarono persino i primi astronauti insieme nello spazio in una storica missione congiunta

L'America di oggi non applica l'insegnamento di Bismarck e neanche segue l'esempio di Nixon. Da trent'anni, forse nel tentativo di rimanere l'unica superpotenza del mondo, come lo è effettivamente stata per un breve periodo dopo la guerra fredda,  fa pressione contemporaneamente sulla Russia e Cina, con il risultato di spingerle l'una nella braccia dell'altra. Londra seguirà Washington, come sempre fa, ma l'Unione Europea deve fare attenzione. Come dicevo sopra, il fatto di essere divisi ci indebolisce, verso russi e cinesi ma anche nel negoziare una posizione comune con gli americani. Washington non prende sul serio Bruxelles perché, come disse Kissinger decenni fa, "se voglio parlare con l'Europa, quale numero di telefono devo chiamare?" (Il modesto Borrel, che adornato dal pomposo titolo di Alto Rappresentante della UE per la Politica  Estera, non ha alcuna influenza, per non parlare di potere.)

Sarebbe un errore colossale continuare ad aiutare il consolidamento di un asse tra Mosca e Pechino. E per evitare che questo accada bisognerà fare qualche compromesso con entrambi, pur mantenendo il punto sulle questioni vitali (sovranità ucraina, Taiwan)  ed evitare di intraprendere una controproducente quanto futile campagna di isolamento contro di essi. Ed allo stesso tempo bisognerà coltivare con assiduità le relazioni con l'India, un paese in grande crescita economica e demografica, che in più è anche democratico ma che certamente non sarà mai disposto a seguire pedissequamente l'occidente.

28 December 2020

Recensione libro: Caduti dal Muro (2009) di Paolo Ciampi e Tito Barbini, *****

Sinossi 

C'era una volta il Muro e sembrava dovesse esarci per sempre. Poi però il Muro si sbriciolò e con esso crollò un impero che da Berlino arrivava al Pacifico. Di colpo tramontò il "sole dell'avvenire", sparirono mappe geografiche, bandiere, nomenclature. Ma cosa ne è stato di quei paesi? Per capirlo serve un viaggio lento, zaino in spalla e treno attraverso due continenti, dall'Europa orientale alla Russia, dalla Cina al Vietnam, dalla Cambogia ai Tibet. Un viaggio e un dialogo tra due scrittori divisi dall'anagrafe e dalle parabole della politica ma uniti dalla leggerezza e dalla fame di nuovi orizzonti. 


Recensione 

Riflessioni di viaggio (di Tito) e di storia (di entrambi) nelle terre che erano governate da regimi comunisti fino alla fine degli anni 80 del XX secolo. Il viaggio di Tito è occasione di ricordare un mondo che non esiste più, un mondo nel quale gli autori avevano creduto, assieme a milioni di idealisti in occidente che non avevano visto quello che veramente succedeva al di là del muro. Si impara molto leggendo questo libro, soprattutto chi non è stato in quei luoghi, in quei tempi. Prosa fluida, in certi punti del libro sembra di essere con loro, sia nel luoghi, sia nei tempi storici richiamati alla memoria. Unica piccola pecca: se abbondano le critiche a quei comunisti che hanno perso (URSS, Europa orientale) manca una critica dei crimini commessi da quei comunisti che hanno "vinto"specialmente in Vietnam. Per esempio durante la guerra contro l'invasore americano. Se i crimini americani sono giustamente evidenziati, non altrettanto lo sono quelli commessi dai nord vietnamiti e Viet Cong.

27 December 2018

Beyond the Wall, my book on a Polish and Soviet adventure available on all Amazon sites.


My latest book:

Beyond the Wall:

Adventures of a Volkswagen Beetle

Beyond the Iron Curtain



has just been published and is available on all Amazon sites.





Description:

1980: the Cold War between capitalist West and socialist East is in full swing. Tensions are high but, at the academic level, some channels of useful exchange remain open. The author and two classmates would join one such program linking a leading American university and its counterpart in Poland. They drive to Warsaw in a bright yellow VW Beetle and, in addition to attending classes, travel far and wide within the country as well as to several of the neighbors in the socialist bloc where the Soviet Union called all the shots. They drive across the USSR and visit the Berlin Wall, the symbol of the division of Europe. Throughout, Marco takes detailed notes of what they see and hear.

Almost four decades later, the East-West division of Europe is gone. Marco recently found his diary and decided to publish an expanded version of it. His written notes from 1980 have been enriched with descriptions and analyses of historical events that will help the reader see his personal experience in a more significant cultural, social, political and economic context.

The author hopes this real life story will help younger generations, who did not live through the Cold War, better appreciate the blessing of living in a European continent that is immensely more open, rich and free than it was then.

26 May 2010

Film Review: Katyn, by Andzrej Wajda, *****

Synopsis

KATYN is the story of Polish army officers murdered by the Soviet secret police in the Katyn forest during the Second World War and the families who, unaware of the crime, were still waiting for their husbands, fathers, sons, and brothers to return. It is a film about the continuing struggle over History and memory, and an uncompromising exploration of the Russian cover up of the massacre that prevented the Polish people from commemorating those that had been killed.


01 November 1994

La Nuova Dimensione della Sicurezza in Europa Orientale

Versione originale preparata per il CeMiSS, Novembre 1994

Introduzione

Dopo la fine della Guerra Fredda, la sicurezza dei paesi dell'Europa centrale ed orientale (PECO) e di quelli nati dalla dissoluzione dell'URSS (Nuovi Stati Indipendenti, NSI), è divenuta una conditio sine qua non per la sicurezza dell'Europa intera. Questa interdipendenza in materia di sicurezza non è interamente nuova. Già durante la Guerra Fredda l'Occidente aveva dovuto riconoscere che la propria sicurezza era dipendente da quella dall'altra metà del continente—così come veniva percepita da Mosca. Tutto ciò risultava in non poca ipocrisia: per esempio, l'URSS otteneva la prima "distensione" e l'inaugurazione della CSCE subito dopo aver invaso la Cecoslovacchia nel 1968. Ma durante la Guerra Fredda l'interdipendenza in materia di sicurezza si traduceva in una rigida separazione delle responsabilità geopolitiche, per cui l'Occidente era obbligato ad astenersi dall'interferire nella zona di influenza sovietica, e vice vesa. Oggi, invece, interdipendenza vuol dire farsi parte attiva nella risoluzione delle controversie rimaste pendenti dopo la fine del bipolarismo: a questo l'Occidente è chiamato dalle parti in causa.

Oggi non c'è più l'ostilità di ieri tra Est ed Ovest, ma l'Europa non è affatto "unita e libera" così come George Bush, tra gli altri, l'aveva precipitosamente proclamata già nel 1990. La regione dei PECO continua ad essere frammentata e, lungi dall'essere libera, vede molte sue parti in guerra (o quasi). Paradossalmente, dopo che l'occupazione sovietica e con essa ogni minaccia militare significativa sono scomparse dall'Europa, in Europa orientale la sicurezza non si è rafforzata.

In Europa occidentale, la scomparsa dei massicci spiegamenti sovietici nell'area del Patto di Varsavia (e degli ancora più preoccupanti dispositivi di mobilitazione e di rinforzo), non hanno prodotto tutti i risultati sperati. La minaccia di invasione da Est è sparita, ma la percezione generale di sicurezza non è migliorata. L'Europa, dopo 45 anni, ha rivisto la guerra, e se pure questa è al momento circoscritta (ex-Jugoslavia, Caucaso), il pericolo di una sua conflagrazione è reale, anche se imprevedibile e non facilmente definibile. La conseguenza di questa imprevedibilità e non quantificabilità è che diviene impossibile, nelle democrazie occidentali, mobilizzare l' opinione pubblica affinché sia disposta ad accettare i sacrifici necessari a far fronte alle nuove esigenze di sicurezza. In questo contesto, una continuata analisi delle variabili della sicurezza occidentale legate agli sviluppi dell'ex-mondo comunista è particolarmente auspicabile, sia per sensibilizzare un'opinione pubblica ingiustificatamente apatica e distratta, sia per essere attrezzati a reagire se e quando non sarà più possibile procrastinare.

Nell'ambito geografico dell'Europa post-comunista, le aree di maggiore rischio sono quelle dell'ex-URSS e dei Balcani, mentre la regione mediterranea aggiunge un'ulteriore fonte di incertezza, specialmente per i paesi, come l'Italia, che vi sono contigui. Mentre delle ultime due regioni si occupano altri capitoli in questo studio, alle questioni inerenti alla prima sono dedicate le pagine che seguono. Non ci occuperemo invece dei paesi della cosiddetta area di "Visegrad" (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) sia perché non si registrano in quest'area fonti di pericoli, per quanto remoti, all'Occidente; sia perché è probabile che le relazioni politiche tra questi paesi e le istituzioni dell'Europa occidentale si svilupperanno rapidamente nel prossimo futuro, ed è prevedibile una sempre maggiore integrazione dei primi nelle seconde. 

Discorso diverso per i paesi ex-sovietici, più instabili internamente, più minacciati esternamente e, soprattutto, a cui non si aprono altrettante prospettive di integrazione (al di là di una reintegrazione con la Russia): né economica (con l'Uniione Europea); né politico-militare (con la NATO). Su questi paesi, ed sulla politica della Russia verso di loro, si incentra l'analisi che segue. In primo luogo, si analizzerà il ruolo della CSI in quanto tale. Quindi il delicato rapporto, multilaterale e bilaterale, della Russia verso i paesi che vi fanno parte. Infine, si esaminerà la situazione in Ucraina, che dopo la Russia è sicuramente il paese più rilevante per i destini di tutta la regione ex-sovietica.


Il Ruolo della CSI

Proposta per la prima volta a Minsk il giorno 8 Dicembre 1991, e formalmente creata ad Alma Ata il 20 Dicembre, la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) nasceva ancora prima che l'URSS avesse formalmente cessato di esistere (25 Dicembre, con le dimissioni di Gorbaciov). La sua creazione rifletteva l'esigenza che, nonostante l'euforia dell'indipendenza che si era diffusa tra le repubbliche ex-sovietiche durante l'anno precedente, esse avevano troppo in comune per separarsi così rapidamente e completamente come avrebbero voluto i più facinorosi tra i gruppi nazionalisti (o sedicenti tali) che un po' ovunque risorgevano da sette decenni di repressione.

Lo scopo immediato della CSI era di coordinare le tre maggiori repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia) nella loro transizione all'era post-sovietica. A tre anni di distanza da quella decisione, la CSI si è espansa fino ad includere quasi tutte le repubbliche dell'URSS (tranne le tre baltiche)i, e rimane un importante strumento verso il raggiungimento del suo scopo originario, anche se a condizioni che non sempre sono quelle sperate dai suoi stati membri—per motivi che appariranno chiari nel corso della presente trattazione.

Da quel momento, sono stati conclusi svariati accordi specifici (nel settore della sicurezza, dell'economia, sul piano politico) ed una Carta della CSI è stata firmata nel 1993. Nell'Aprile del 1994 i membri della CSI hanno concordato formalmente un' unione  economica, ma i tempi ed i modi della sua realizzazione rimangono poco chiari, ed è improbabile che essa possa concretizzarsi rapidamente e senza problemi. Per esempio, un programma di unione monetaria tra Russia e Bielorussia ha dovuto essere sospeso a causa di una serie di problemi che erano stati inizialmente sottovalutati: il differenziale inflazionistico troppo elevato tra i due paesi; la difficoltà di individuare un tasso di cambio accetabile alle due parti; la riluttanza delle autorità di Minsk sono a cedere porzioni di sovranità, come la facoltà di battere moneta, alla Russia).

Vari organi consultivi sono stati creati nella CSI (il Consiglio dei Capi di Stato, quello dei capi di governo, dei ministri degli esteri e della difesa, dei capi di stato maggiore). Anche se spesso elusi da accordi bilaterali tra la Russia ed i singoli paesi, questi organi rimangono formalmente in carica e svolgono una notevole mole di lavoro

Relazioni politiche ed economiche

La CSI è ben lungi dal divenire una vera alleanza tra stati, come almeno alcuni dei suoi membri devono aver sperato nel divenire indipendenti nel 1991. La Russia continua ad usare la CSI come cornice formale per le relazioni multilaterali, ma sempre più fa uso di accordi bilaterali, che ovviamente non possono essere equilibrati. Questo sistema ricorda piuttosto da vicino i trattati che l'URSS stipulava con i paesi satelliti allo scopo di meglio controllare le attività multilaterali del Patto di Varsavia e del COMECON. Ciononostante, la CSI continua ad essere utilizzata (anche se a volte come poco più di una foglia di fico) per rendere la disparità che sottende questa rete di accordi bilaterali più accettabile da parte del mondo esterno, e principalmente dall'Occidente.

A quest'ultimo scopo, la Russia ha cercato con una certa insistenza, ma finora senza successo, di ottenere il riconoscimento della CSI come organizzazione regionale in base al capitolo VIII della Carta dell'ONU. Questo tentativo continua in ambito alla CSCE, e la CSI presenterà un proprio contributo scritto al prossimo vertice di Budapest del Dicembre 1994. L'Occidente ha finora opposto resistenza a questo riconoscimento, ma è possibile che, se continuerà la tendenza in atto, la comunità internazionale dovrà prendere atto dell'esistenza della CSI, salvo poi, al più, porre pressione (soprattutto sulla Russia) affinché siano rispettati i dettati del diritto internazionale nei rapporti tra gli stati membri.

Lo squilibrio nei rapporti tra Russia e NSI viene dunque mascherato, non senza una dose di pretestuosa e disincantata ingenuità, dietro la facciata della CSI, ma prima degli scontri dell'Ottobre 1993 alcuni parlamentari russi si erano spinti fino a dichiarare candidamente che Mosca avrebbe dovuto dichiarare il proprio equivalente della "dottrina Monroe" americana.ii Al tempo questa linea non fu fatta propria né dal governo né dal presidente Jeltsin; tuttavia, dopo le elezioni del dicembre 1993, ed il rafforzamento delle forze nazionaliste e di destra, Jeltsin è stato costretto a tenere maggior conto di queste posizioni, e le ha anche parzialmente incorporate nei propri discorsi e nella propria politica.

Ovviamente questo predominio russo non è universalmente ben accolto tra i NSI, ma le alternative, per loro, sono difficili da individuare. Alcuni tentativi in questa direzione non hanno sortito l'effetto sperato: per esempio, gli stati dell'Asia centrale hanno cercato di sviluppare un foro alternativo di cooperazione ed integrazione regionale tra di loro (l'Unione dell'Asia Centrale) ma non sono riusciti a concretizzare molti dei loro propositi. Parimenti, alcune repubbliche europee (Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia, Azerbaijan) hanno cercato uno sbocco nel Consiglio di Cooperazione del Mar Nero (sponsorizzato dalla Turchia) e varie ipotesi sono state ventilate di incrementare i contatti con i PECO, soprattutto i paesi baltici e quelli dell'"area di Visegrad". Ma i NSI rimangono strutturalmente dipendenti dalla Russia, e la costruzione di contatti orizzontali richiederebbe molto tempo ed enormi quantità di risorse economiche e tecnologiche, di entrambe le quali non vi è certo abbondanza nella CSI.

Le condizioni economiche nella CSI sono precarie e, in generale, in fase di ulteriore peggioramento. Il consenso degli economisti è che, come si suol dire, le cose debbano "ancora peggiorare prima di poter migliorare". Pil e produzione industriale sono stati colpiti maggiormente dalla crisi post-comunista, mentre la produzione agricola ha sofferto meno (anche se la contabilità in questo caso è meno attendibile) e ben poche stime sui servizi sono disponibili. Lo stato disastrato delle valute della maggior parte dei paesi (al punto che il Rublo russo, le cui difficoltà nella seconda metà del 1994 nei confronti delle valute convertibili sono note, viene considerata valuta pregiata nella CSI) non può che peggiorare le cose. Questa debolezza economica e strutturale ha portato i NSI ad essere piuttosto acquiescenti nei confronti delle prevaricazioni della Russia, anche quando questo ha voluto dire una plateale strumentalizzazione dell'organizzazione dei rapporti in ambito CSI per palesi scopi di interesse nazionale russo.iii

Questa acquiescenza, tuttavia, non è servita ai NSI ad ottenere sostanziali aiuti economici dalla Russia. Per esempio, Mosca continua a mantenere una linea economica piuttosto inflessibile nei confronti dei NSI per quanto concerne il debito valutario e commerciale di questi ultimi. Mosca richiede valuta pregiata, se non addirittura quote azionarie in industrie produttive, come pagamento per gli idrocarburi che fornisce, il cui prezzo è peraltro quasi sempre calcolato in base alle quotazioni del mercato internazionale. Soltanto la politicamente pavida Bielorussia ha ricevuto prestiti significativi (oltre 150 miliardi di rubli, in ulteriore crescita) senza dover per questo ipotecare beni produttivi.

In conclusione, i legami economici nella CSI sono il male minore per i NSI. La loro dipendenza strutturale dalla vecchia infrastruttura sovietica e dai vecchi legami commerciali, e la mancanza di alternative internazionali realistiche, fanno sì che il rinnovo dei legami con la Russia sia il solo modo di sperare nella propria sopravvivenza. Questo pone i NSI in posizione di demandeur, e perciò subordinata. La Russia, da parte sua, è determinata a far pagare questi legami in termini sia politici, sia economici.

Le Forze militari della CSI

Già nel dicembre del 1991 la CSI aveva creato le cosiddette "Forze Armate Comunitarie", poi ratificate nel Trattato di Tashkent del Maggio 1992, che, tra l'altro, divideva tra i paesi della CSI la quota sovietica delle armi convenzionali prevista dal trattato CFE. Il Maresciallo dell'Aviazione Evgeny Shaposhnikov era nominato Comandante in Capo delle Forze Comunitarie. Ma queste ultime erano destinate a rimanere lettera morta. Shaposhnikov fu successivamente trasferito (Giugno 1993) al posto di Segretario del Consiglio di Sicurezza della Russia, e questo pose fine alle pretese della CSI di creare in vero e proprio comando comune: col trasferimento di Shaposhnikov, la Russia aveva da una parte sottolineato che la prima priorità era il rafforzamento delle strutture di difesa nazionali, e dall'altro ribadito che l'autorità di comando della CSI sarebbe stata subordinata a quella di Mosca.

Abbandonati a sé stessi, tutti gli stati della CSI devono affrontare una serio dilemma economico e un'ardua sfida tecnologica per cercare di finanziare e mantenere in efficienza le proprie forze armate. Il percorso sarà in salita e per tutti i NSI (con la possibile eccezione dell'Ucraina, che, date le sue dimensioni economiche e l'avanzato livello industriale raggiunto in era sovietica, ha maggiori margini di manovra) raggiungere il traguardo di forze armate indipendenti effettivamente operative (e non solo, come oggi, in gran parte solo nominali) sarà un'impresa pressoché disperata. Anche in quest'area, è prevedibile che essi dovranno far ricorso, in misura variabile, all'aiuto russo.

Sul piano tecnologico (manutenzione, parti di ricambio, ammodernamento), Mosca troverà probabilmente conveniente estendere ai NSI l'aiuto militare che essi, in alcuni casi loro malgrado, chiederanno. E questo sia perché esso costituirà un impiego redditizio del proprio complesso militare industriale; sia perché è prevedibile che attraverso gli aiuti militari la Russia acquisisca una notevole leva politica nei confronti dei governi dei NSI ricettori. Nel medio periodo, tutto ciò contribuirebbe, di fatto, a ricreare un grande sistema politico-militare, controllato da Mosca, nell'area comprendente più o meno quella dell'ex-URSS—i paesi baltici ne potrebbero restare con tutta probabilità i soli esclusi.

Nell'Aprile del 1994, due anni dopo Tashkent ed un anno dopo lo spostamento di Shaposhnikov al Consiglio di Sicurezza russo, il ministro della difesa russo Pavel Graciov ha perfino esplicitamente riproposto la creazione delle  forze armate della CSI, che, nelle attuali condizioni di squilibrio politico militare a favore della Russia, sarebbero ovviamente dominate da quest'ultima. Questa proposta non è stata fatta propria né dal ministero degli esteri né dal presidente, evidentemente attenti a non offrire pretesti a chi in Occidente rimane sospettoso delle intenzioni imperiali di Mosca.

Tuttavia, Kozyrev ha colto l'occasione di un discorso agli ambasciatori della Russia nei NSI e nei paesi baltici che, "la Russia non si dovrebbe ritirare da quelle regioni che sono state nella sua sfera di interesse per secoli" e (riferendosi alle accuse rivolte alla Russia di non voler ritirare le proprie forze dagli spiegamenti ex-sovietici nell'ex-URSS) "non deve aver paura di usare le parole «presenza militare»".iv Le ultime parole sono ovviamente riferite a chi, in Occidente, ripete che l'indipendenza dei NSI, ivi compresa la loro sovranità territoriale, rimane un cardine della politica dei paesi occidentali verso la Russia.

Alla fine del 1994, le forze armate russe rimangono presenti sul territorio di svariati NSI: due reggimenti aerei in Bielorussia, la 14a armata in Moldova (20.000 effettivi), 12.000 uomini in Tadjikistan, e 28.000 in Turkmenistan, come componente delle "forze armate congiunte" russo-turkmene.v Inoltre, le forze di tutti i paesi della CSI, soprattutto, ma non solo, in Asia Centrale, sono in buona parte "russificate": durante l'era sovietica i gradi più alti erano in gran parte appannaggio di ufficiali russi che poi sono per lo più rimasti al loro posto dopo la scomparsa dell'URSS.

Il Controllo delle Forze Nucleari Sovietiche

La CSI non ha avuto alcun ruolo nel controllo delle forze nucleari ex-sovietiche. I paesi membri si accordarono subito (fine 1991) sul ritiro delle forze nucleari tattiche dai NSI che le ospitavano e sul loro trasferimento in Russia. Il trasferimento fu completato nella primavera del 1992. Per quanto concerne le forze strategiche, al presidente russo, già dalla fine del 1991, veniva riconosciuta l'autorità di controllo "positivo" (cioè di ordinare un lancio), ma a condizione che egli ricevesse l'assenso dei capi di stato di Ucraina, Bielorussia e Kazahstan—i tre paesi che ospitano tali armi strategiche sul proprio territorio—e che "consultasse" tutti gli altri capi di stato o di governo della CSI. Questo, sulla carta, si deve applicare a tutte le armi nucleari ex-sovietiche, e quindi anche a quelle in territorio russo, e non solo a quelle nelle tre repubbliche citate.

Il valore dell'impegno russo a ottenere l'assenso dei tre stati sopra citati è tuttavia poco più che nominale. In realtà, l'accordo CSI dà ai tre stati che ospitano armi strategiche l'autorità teorica di un controllo "negativo" (cioè di influenzare, e persino di porre un veto) sulle decisioni di uso nucleare del presidente russo, ma la loro capacità pratica di farlo è fortemente limitata nel migliore dei casi (Ucraina) e praticamente nulla per Bielorussia e Kazahstan. Nonostante questi paesi abbiano palesato ripetutamente (e alquanto confusamente, specialmente da parte di Kiev) varie pretese di controllo nucleare, nessuno di essi ha mai acquisito una capacità di uso nucleare unilaterale.

Per quanto concerne l'impegno russo a consultare gli altri NSI, questo si deve considerare poco più che un cortese tributo alla loro formale sovranità all'interno della CSI. Non sono mai state concordate specifiche procedure di consultazione nucleare nella CSI, e non sono mai state costruite strutture di comando, controllo e comunicazione tra le varie autorità nazionali a questo scopo. 

Il ruolo della Russia nella CSI

Dall'analisi di cui sopra emerge la facile conclusione che, alla fine del 1994, e con l'acquiescenza della maggior parte dei NSI, la CSI esista soprattutto come strumento per lo spiegamento della potenza—politica, economica e militare—russa. Mosca sta palesemente cercando di ricreare una sfera di influenza che dovrebbe, mutatis mutandis, rimpiazzare il defunto impero sovietico—in una continuità di proiezione di potenza che risale, ovviamente, all'era zarista. La necessità di agire in questo senso costituisce uno dei pochi punti di consenso nazionale in Russia oggi: un recente sondaggio (Maggio 1994) ha indicato che per il 78% dei Russi è "disdicevole" che l'URSS non esista più simile sondaggio nel Giugno 1992 era risultato in una percentuale del 54%. Questo ampio consenso comprende non soltanto la coalizione tra comunisti e nazionalisti, ma molte fasce moderate.vi Culturalmente, ancor più che politicamente, è difficile per i Russi accettare il fatto che la Russia oggi non è più un impero ma uno stato-nazione (anche se vastissimo e fortemente diversificato).

L'Occidente, grazie ai mezzi di informazione che oggi, a differenza di quanto accadeva durante le epoche sovietica e zarista, sono disponibili, può in parte influenzare questo dibattito. Ma se la Russia sarà internazionalmente integrata o isolata dipenderà prima di tutto dalla stessa Russia. Il che vuol dire che sarà di decisiva importanza la lotta che sta nuovamente avendo luogo, ancora una volta, come durante lo zarismo, tra Occidentalisti e nazionalisti pan-Slavisti. Se dovessero prevalere i primi, la Russia si avvierebbe verso scelte orientate all'Europa che sarebbero di beneficio a tutto il continente. Altrimenti, una riaffermazione delle tradizioni autocratiche russe potrebbe facilmente dar corpo ad un sentimento di una Russia assediata, a ciò creerebbe problemi insormontabili per la sua reintegrazione in Europa, con conseguenze destabilizzanti anche per la sicurezza del continente.

Ma c'è una terza possibilità, rappresentata da quella che può essere chiamata la corrente "Eurasiatica" nella politica estera russa. Secondo questo pensiero, la Russia non può far parte dell'Occidente; siccome essa ha anche un importante ruolo in Asia, è destinata ad essere "altro" che l'Occidente, anche se non necessariamente ostile ad esso.vii Questa impostazione denota un netto cambiamento dall'orientamento decisamente pro-Occidentale dell'immediato periodo post-sovietico, quello che era stato da più parti definito il "periodo romantico" delle relazioni tra Occidente e Russia.viii

La corrente che abbiamo definito eurasiatica è una novità nella tradizione della politica estera russa, che si è in passato divisa, grosso modo, tra pan-Slavisti e Occidentalisti. Quest'ultimo gruppo aveva prevalso nell'impostazione della politica estera nell'immediato periodo post-sovietico, ma oggi è in ritirata. I pan-slavisti, che vedono la Russia come intrinsecamente superiore all'Occidente, si stanno rafforzando, ma non hanno ancora riaffermato una chiara supremazia; anzi, se l'uscita di Solzhenitsyn a Mosca nell'Ottobre-Novembre 1994 (dove è stato accolto assai tiepidamente dal pur conservatore Parlamento russo) è indicativa della loro forza relativa, è improbabile che ci riusciranno mai.  

Gli "Eurasiatici" si collocano fra i due gruppi tradizionali, e prendono alcuni elementi da ciascuno. Essi non cercano un rinnovato confronto con l'Occidente, ma sono decisi a riaffermare gli interessi russi almeno nelle regioni più vicine geograficamente e storicamente. Gli Eurasiatici credono che questa politica di difesa degli interessi nazionali sia compatibile con il mantenimento di buone relazioni con l'Occidente. Per dirla con Sergey Karaganov, vice-direttore dell'Istituto per l'Europa dell'Accademia delle Scienze, membro del Consiglio Presidenziale sulla Politica Estera e la Sicurezza, la Russia ha un "ruolo insostituibile e una missione ingrata" da portare a termine nell'ex-URSS.ix

Una presa di posizione molto simile è quella di Evgeny Primakov, un ex-direttore dell'IMEMO (anche questo un Istituto dell'Accademia delle Scienze) oggi divenuto Direttore del Servizio di Informazioni per l'Estero, che sostiene che l'indipendenza per i NSI non ha portato né riforme, né democrazia. Al contrario, ha favorito gli isolazionisti che si oppongono a che la Russia e la CSI assuma un ruolo attivo e costruttivo nella comunità internazionale. Il lettore del rapporto è portato a indurre che, dal punto di vista di Primakov, anche qualcosa meno che la piena indipendenza andrebbe altrettanto bene per i NSI, magari con la Russia "democratica" che mostra loro la via verso le riforme e la democrazia.x

Un alleato naturale per questo modo di vedere il futuro della politica estera russa nella CSI può essere trovato nell'estrema destra nazionalistica e nelle forze armate—i due gruppi sono  in parte sovrapposti. Nelle elezioni del Dicembre 1993, l'estrema destra dei Liberali Democratici di Zhirinovskiy ricevette dai quadri delle forze armate una percentuale di voti sensibilmente maggiore di quella ottenuta a livello nazionale.xi Anche i Comunisti trovano conveniente appoggiare le richieste dei Liberali Democratici in politica estera—questa può essere interpretata come una buona applicazione della classica regola tattica leninista de "un passo avanti, due passi indietro" per far cadere il presidente Jeltsin. Nonostante il rovescio dell'Ottobre 1993, questa improbabile alleanza è divenuta via via più spavalda nei mesi successivi alle elezioni di dicembre. 

In ogni caso, quale delle tre scuole (Occidentalista, pan-Slavista o Euroasiatica) prevalga (ed anche se non prevalesse nessuna, e la Russia continuasse a barcamenarsi, per così dire, in mezzo al guado) l'influenza della Russia nel cosiddetto "vicino estero" continuerà a crescere. Infatti, sia gli Occidentalisti, sia i pan-Slavisti sostengono che "Russia" voglia dire essenzialmente il vecchio impero russo, magari con qualche rinuncia riguardo a vecchie provincie zariste ad ovest (Polonia) e a nord (Finlandia, paesi baltici).

La differenza è che, contrariamente a quanto accadeva con gli stati confinanti con la Germania di Weimar, la maggior parte dei NSI interessati, magari non per libera scelta ma per mancanza di alternative, avvallano l'ascesa della Russia—quando, addirittura, non la incoraggiano. Pertanto, si può affermare che la crescita del potere della Russia nei confronti del "vicino estero" sia una variabile pressoché indipendente nel panorama geopolitico europeo. 

In parte come espressione di questo cambiamento di pressioni al vertice, la manifestazione più palese del crescente peso della Russia  si è venuto manifestando nelle operazioni cosiddette di "mantenimento della pace" (Peacekeeping) della Russia nella CSI. Il Ministro degli Esteri Kozyrev ha dichiarato che la Russia agisce perché le viene chiesto, e lo fa sotto l'ombrello della CSI, che egli vorrebbe essere considerata una legittima organizzazione internazionale. Legittimità che pure viene contestata, ma che non può in nessun caso pretendere di divenire legittimante: quest'ultima prerogativa spetta all'ONU e non alle organizzazione internazionali regionali, se pure tali riconosciute nell'ambito del capitolo VII della Carta.

La visione di Kozyrev è ragionevolmente credibile per quanto concerne l'intervento russo in Tadjikistan: qui, una forza veramente internazionale sta operando con una relativa base relativamente ampia di consenso delle parti. Ma questo non è il caso il altre aree dove la Russia sta conducendo operazioni di "peacekeeping" sotto l'egida della CSI, ed in particolare nel Caucaso. Queste operazioni sono un esempio concreto della mancanza di una vera partecipazione internazionale in operazioni etichettate "CSI". Questa è la principale ragione per cui è difficile per la CSI ottenere il riconoscimento di organizzazione internazionale in base al capitolo VII della Carta dell'ONU.

Una considerazione finale: a prescindere dal grado di legittimazione internazionale che riusciranno ad ottenere, le operazioni di "peacekeeping" russe nella CSI difficilmente potranno essere mantenute ad elevati livelli di impegno militare. Le forze armate russe sono piagate da forti carenze di manutenzione e di risorse di ogni tipo, ivi comprese quelle umane, dovute a diserzioni alla leva che in alcune regioni raggiungono la quasi totalità dei coscritti.xii Se finora gli interventi sono stati coronati da relativo successo, questo è anche dovuto al fatto che essi si sono sviluppati su scala relativamente ridotta; se tali interventi si dovessero moltiplicare, o se qualcuno tra essi dovesse particolarmente complicarsi, le forze ivi impegnate potrebbero incappare in imbarazzanti sconfitte.

Prospettive per il futuro

Alla fine del 1994, tutti i NSI, anche se spesso con riluttanza, e per ragioni diverse, cercano di rafforzare la propria sicurezza attraverso maggiori legami con la Russia. Anche dal punto di vista economico, Mmosca rimane un punto di riferimento obbligato. In alcuni casi, i NSI hanno esplicitamente espresso chiare aspettative a questo riguardo. In altri casi, essi sono stati obbligati a rivolgersi a Mosca dalle circostanze—la crescente pressione politica di Mosca e la mancanza di alternative.

È improbabile, tuttavia, che i NSI dimostreranno gratitudine per i benefici che eventualmente riceveranno. I leader dei NSI (in buona parte ex-dirigenti del partito comunista sovietico) comprendono bene che solo la Russia potrebbe offrire loro la sicurezza di cui hanno bisogno, ma temono che una re-integrazione formale farebbe loro perdere, potere, prestigio, lo status internazionale recentemente acquisito e, forse, anche l'identità—per i propri neonati stati e per sé stessi in persona.

Pertanto, è probabile che questi capi di stato cercheranno di mantenere, almeno sul piano nominale, l'indipendenza dei rispettivi stati. Rinunciarvi sminuirebbe il loro prestigio e ruolo personale. Allo stesso tempo, essi saranno costretti a cercare protezione e risorse a Mosca. In altre parole, essi cercheranno la quadratura del cerchio: questo non è un fatto raro in sé nella storia della politica internazionale, ma difficilmente l'obiettivo viene raggiunto. Data la debolezza negoziale con cui i NSI si misureranno nel tentativo, è improbabile che lo sarà questa volta. I NSI potranno rimanere nominalmente indipendenti (dopotutto, Ucraina e Bielorussia hanno sempre avuto un proprio seggio all'Onu) ma, se le tendenze attualmente in corso continueranno, i propri destini saranno sempre più legati a quello della Russia.

Se e fino a che punto ciò avverrà attraverso il meccanismo della CSI, è solo relativamente importante. Forse la CSI si consoliderà fino a divenire una credibile organizzazione internazionale regionale, ma questo sembra poco probabile. Più probabile è invece che diventi uno strumento attraverso il quale la Russia potrà esercitare la propria pressione politica in modo che questa risulti più presentabile al mondo esterno, ed in particolare all'Occidente.

Forse i NSI manterranno quindi la propria indipendenza, almeno sul piano nominale. Forse una CSI dominata dalla Russia si vedrà conferiti poteri sovranazionali in alcune aree ma non in altre, e la partecipazione dei NSI nelle varie materie di cooperazione nella CSI sarà difforme: ma mentre una CSI á la carte potrà sortire l'effetto sperato dalle parti contraenti nel breve termine (consentire alla Russia di riasserire la propria influenza e ai NSI di mantenere bandiera ed inno nazionale). Ma non potrà eludere a lungo la questione fondamentale se questi stati rimarranno effettivamente sovrani o se (come sembra via via più probabile) essi diverranno di nuovo parte della Grande Russia. 

Qui ci riproponiamo di analizzare in maggiore dettaglio la politica estera della Russia verso quest'area geografica. È evidente che dagli sviluppi di questa dipende in buona misura il futuro della stabilità in Europa, e, di più, se l'Europa si avvia verso una nuova bipolarizzazione (Occidente e CSI, con forse un'area grigia tra i due) oppure verso una multipolarizzazione frammentaria e discontinua. L'interesse occidentale è palese, ma i pareri discordano su come i nostri interessi sarebbero meglio protetti: da una nuova divisione in blocchi, anche se non necessariamente in conflitto tra di loro? o da un'Europa frammentata, che interponga il maggior spazio possibile tra Occidente (comunque definito) e Russia?

La politica estera della Russia verso il "vicino estero"

Nuove tendenze nella politica estera russa

I paragrafi che seguono tratteranno le trasformazioni in corso nella politica estera russa e le sue implicazioni per l'Occidente. È quello che è stato a volte definito il "periodo romantico" delle relazioni post-sovietiche tra Russia e Occidente  finito? È la rinnovata dinamicità russa una nuova minaccia per la sicurezza occidentale? È in corso una ricostituzione, de facto se non de jure, della vecchia URSS? Quali sono le opzioni politiche per l'Occidente?

Le trasformazioni del post-1991, è stato detto, hanno messo la Russia in una situazione di equilibrio instabile "tra Impero e democrazia".xiii Secondo questa tesi, non è ancora chiaro se la Russia post-comunista diventerà uno stato veramente democratico (con conseguenti buone relazioni con l'Occidente) o continuerà a percorrere la strada imperiale della Russia zarista e dell'URSS (producendo così nuovi attriti e conflitti internazionali).

L'alternativa non è però così chiara e definita come la si vorrebbe porre. Esiste veramente un quid-pro-quo tra democrazia e impero? Probabilmente no. Molte democrazie sono state potenze imperiali. Non ci sono ovvi motivi per ritenere che la Russia, anche se completamente democraticizzata, non dovrebbe nutrire mire espansionistiche. Anzi, con il consolidamento della democrazia (e con il concomitante sviluppo dell'economia di mercato) l'influenza internazionale della Russia presumibilmente aumenterà. Ed infatti, mentre le riforme economiche sono ancora lungi dal produrre risorse economiche fresche da mettere a disposizione di un'ambiziosa politica estera, Mosca si sta già predisponendo a giocare un ruolo da grande potenza nello scacchiere internazionale. Questo si verifica particolarmente nei confronti dei NSI della CSI, ossia le ex-repubbliche sovietiche meno i tre stati baltici—a cui, almeno per il momento, la Russia sembra aver più o meno "rinunciato" (ma per quanto tempo?) dal punto di vista geopolitico. A marcare il significato particolare che Mosca attribuisce a questa regione, è divenuto di uso comune in Russia, anche a livello ufficiale, il termine "vicino estero", che già in sé lascia trasparire una prerogativa speciale, una sorta di implicito diritto di prelazione da parte di Mosca.

In realtà, si potrebbe argomentare che la vera alternativa per la Russia non è tra democrazia e impero, ma piuttosto tra l'integrazione internazionale (ivi compresa la cooperazione con l'Occidente) ed il nazionalismo, russo o pan-slavo che sia. Le due ultime variabili possono conciliarsi con ciascuna delle prime due. Semplificando, si potrebbe dire che, durante i suoi primi due anni di esperimenti con la democrazia, la politica estera russa ha zigzagato tra integrazione internazionale e nazionalismo. Nel 1992 la Russia esplicitamente elevò al massimo livello di priorità le relazioni con l'Occidente. Il Presidente Jeltsin ed il Ministro degli Esteri Kozyrev diressero questa fase con mano ferma, superando le resistenze interne. Nel 1993, tuttavia, si sono verificati alcuni cambiamenti importanti: la Russia, economicamente prostrata e politicamente frustrata, cominciava a cercare opportunità internazionali per ereditare, almeno in parte, la statura geopolitica dell'URSS.

Il problema per la dirigenza di Mosca era come fare ciò senza antagonizzare l'Occidente, ed in particolare gli Stati Uniti, nel momento che Mosca cercava di ridare vita, almeno sul piano retorico, alla cooperazione internazionale con i vecchi alleati della Seconda Guerra mondiale—più, ovviamente, la Germania. Ma la Russia si presentava su un piano di debolezza nei confronti delle forti democrazie occidentali. Il Parlamento e l'allora vice-presidente Rutskoj sfidavano apertamente questa impostazione di Yeltsin e Kozyrev, che interpretavano troppo accondiscendente verso l'Occidente, e chiedevano, riscontrando ampi consensi, di far sì che la Russia tornasse ad essere protagonista. Nel Gennaio 1993 Jeltsin faceva in buona parte propria questa impostazione; la Russia procedeva quindi a ridimensionare l'attenzione verso Occidente e a concentrarla verso i NSI, e particolarmente quelli con forte presenza etnica russa, adducendo per questo due motivi fondamentali: il primo era la forte presenza etnica russa in molte di quelle aree (oltre 25 milioni di Russi vivono oggi all'"estero" nella CSI). Il secondo motivo era che la Russia doveva aiutare i NSI a difendere i propri confini, che essi stessi non erano evidentemente in grado di proteggere da soli: e questo sia nell'interesse dei paesi interessati, sia della Russia stessa, che vedeve così allontaanata la propria frontiera di sicurezza fino ai confini ex-sovietici.

Come si inserisce questa concezione del "vicino estero" di Mosca nella visione generale russa della sicurezza europea? In una certa misura, è possibile che si stia verificando una risurrezione della vecchia idea sovietica della "sicurezza pan-europea", tramite la quale l'URSS voleva diluire l'efficacia della NATO e contemporaneamente marginalizzare il ruolo degli USA in Europa. Recenti affermazioni del ministro della Difesa russo Graciov fanno pensare che la nuova Russia, non potendo realisticamente pensare di far parte della NATO nel prevedibile futuro e neanche potendo impedire un possibile allargamento di questa verso altri PECO, voglia cercare di indebolirla invischiandola in una rete di corresponsabilità (se non addirittura, come era apparso verso la metà del 1994, di subordinazione) con la CSCE. Se questo tentativo avesse successo, il potere relativo della Russia in Europa ne risulterebbe naturalmente rafforzato. 

È probabile però che questo tentativo sia destinato a fallire come quelli precedenti. Tuttavia, dal fatto stesso che sia avvenuto, si deduce che sarebbe ingenuo per l'Occidente pensare che la politica estera di una grande potenza come la Russia (ancorché indebolita e non più ostile come prima) possa essere sempre in sintonia con le percezioni di sicurezza dei paesi occidentali. L'Occidente per questo non può aspettarsi, e quindi non dovrebbe cercare di ottenere, l'accordo della Russia su ogni questione, o crisi, con implicazioni di sicurezza che si possa aprire in Europa. Cooperare con la Russia (il che è auspicabile ed in alcuni casi indispensabile) non vuol dire necessariamente essere d'accordo su tutto (il che non è realisticamente pensabile).

In questo senso, il problema per le democrazie occidentali all'indomani della Guerra Fredda è simile a quello cui si trovarono di fronte le potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale: come reintegrare una grande potenza sconfitta nel sistema internazionale. Il problema è semmai più grave nel 1994 che nel 1919, perché la Russia non è stata sconfitta militarmente. A Versailles i vincitori scelsero una goffa via di mezzo: essi umiliarono con arroganza la Germania sconfitta, l'accusarono ingiustamente di aver scatenato il conflitto, ma non la occuparono e non ne prevennero la rinascita economica e militare—che, date quelle premesse, sarebbe stata inevitabilmente ostile. Oggi l'Occidente vede con favore (anche se fa poco per favorire) il tentativo di rinascita economica russo, ma se questo avrà successo l'Occidente dovrà affrontarne le conseguenze politiche e militari.

Sarebbe illusorio pensare che una Russia economicamente solida sarebbe politicamente acquiescente. La Russia avrà le sue legittime ambizioni, e queste dovranno essere appropriatamente collocate nel panorama internazionale. Il pericolo è che, mutatis mutandis, la Russia post-comunista possa ripetere il precedente della Germania di Weimar: economicamente e politicamente riformata, ma isolata e ostracizzata all'estero.

Interessi fondamentali e strumentalizzazione politica

Il governo di Mosca giustifica formalmente il proprio crescente coinvolgimento nell'ex-URSS in base a quattro argomentazioni fondamentali, tutte definibili in termini negativi piuttosto che positivi. Mosca sostiene di dover intervenire allo scopo di prevenire:

i) abusi nel campo dei diritti umani;

ii) la proliferazione delle armi nucleari; 

iii) il diffondersi del fondamentalismo islamico;

iv) una possibile conflagrazione dei conflitti regionali.xiv 

Nel perseguire questi obiettivi, sostiene Mosca, la Russia sta rendendo un prezioso servizio alla comunità internazionale, e pertanto non solo non dovrebbe essere ostacolata, ma dovrebbe invece essere ricompensata sia in termini finanziari, sia con un'adeguata legittimazione internazionale del suo operato.

In realtà, la Russia ha manipolato, strumentalizzandoli, i conflitti locali tra i NSI (gettando alternativamente acqua o benzina sul fuoco, decidendo di volta in volta a secondo dei propri interessi) allo scopo fondamentale di espandere l'influenza russa. Come minimo, data la limitata capacità russa di agire mentre il paese attraversa gravi travagli interni, questo ha però voluto negare a potenziali competitori regionali—come la Turchia, l'Iran, il Pakistan e la Cina—di acquisire influenza a loro volta. I cosiddetti interventi russi di "peacekeeping" nella CSI sono stati uno strumento verso il conseguimento di questo fine.

Ma il "peacekeeping" russo è anche, in grande misura, importante per fini interni. Sia che riesca in qualche misura a raggiungere i quattro obiettivi ufficiali elencati sopra, sia che porti ad un'almeno parziale espansione dell'influenza politica russa, sia che non riesca alla fine ad ottenere nessuno dei due obiettivi, il solo fatto che la forze armate russe siano impegnate nel "peacekeeping" comporta il rafforzamento di un'identità professionale, di un senso di appartenenza, di una raison d'etre che i militari russi avevano perso dopo la crisi del 1991. Avendo la Russia pressoché completato il ritiro dall'Europa orientale e dai paesi baltici, e trovando i soldati al loro ritorno un'economia disastrata e poche possibilità di lavoro nel settore civile, e persino difficoltà a reperire un alloggio, il problema di cosa fare con le divisioni che si smobilitano probabilmente richiederà tempo prima di poter cominciare ad essere risolto in modo definitivo.

In questo senso, la politica russa verso il "vicino estero", piuttosto che di mantenimento della pace, potrebbe essere meglio definita di mantenimento dell'orgoglio dei militari russi (e, più in generale, del complesso militare industriale). In quest'ottica, se il tentativo avrà successo, il "peacekeeping" potrà divenire una preziosa fonte di stabilità interna in Russia, perché un "establishment" militare più stabile sarebbe un interlocutore più prevedibile e probabilmente costruttivo per l'Occidente. 

Viceversa, se le forze armate russe dovessero, per così dire, andare alla deriva, aumenterebbe il pericolo che tra di esse possano sorgere raggruppamenti corporativi, magari con forti caratterizzazioni politiche di tipo nazionalistico, che potrebbero indebolire il potere centrale fino a rovesciarlo. Alcuni capi carismatici potrebbero cercare di ricostruire l'orgoglio perduto nell'unico modo in cui sarebbero capaci di farlo, e cioè tramite pressioni per una politica estera più aggressiva o comunque meno accondiscendente verso l'Occidente. Una ritrovata fiducia nella propria dignità, invece, darebbe ai militari una maggiore propensione nella conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'assetto geopolitico del dopo Guerra Fredda (e cioè un sostanziale controllo democratico da parte dei civili della politica interna, relazioni cooperative con l'Occidente ed il rispetto di un'area dei PECO effettivamente indipendente).

In questa luce, i militari sono di importanza fondamentale per la politica estera russa. Il morale è mediamente basso, le diserzioni crescono e i mezzi scarseggiano, ma nel frammentato panorama politico russo, essi rimangono comunque, nonostante i problemi che li affliggono, il gruppo politico più coerente. Ciò resta vero anche se sono stati indeboliti dai tagli al bilancio, dall'abolizione dei privilegi di cui godevano durante l'era sovietica, e pure se non necessariamente uniti su ogni singolo aspetto della politica estera. Ma le forze armate sono oggi più libere di ieri politicamente. 

Durante l'era sovietica, essere erano subordinate al Partito Comunista, che ne nominava i vertici e le controllava tramite la capillare rete di commissari politici. Ora, invece, le forze armate hanno acquisito una connotazione politica indipendente. Questa caratterizzazione è apparsa chiaramente, per esempio, durante la rivolta dell'Ottobre 1993, quando gli alti comandi esitarono non poco prima di concedere il proprio appoggio al presidente Jeltsin. E quando tale appoggio infine accordarono, non fu per semplice obbedienza al potere costituito (e la cosa era resa ancora più confusa dal fatto che non fosse del tutto chiaro a nessuno chi tale potere impersonasse) ma per scelta politica.

Conseguentemente, i militari sono oggi tra i pochi che possono vantare un credito politico nei confronti del presidente Jeltsin. L'appoggio a quest'ultimo rimane quindi condizionato. Egli è visto, per ora (fine 1994), come la migliore garanzia di stabilità politica interna, e quindi di sicurezza, ma questa percezione potrebbe facilmente cambiare.xv Mentrerano e il presidente ed il ministro degli esteri che gestivano la politica estera russa nei primi due anni immediatamente successivi alla caduta dell'URSS, oggi i militari sono co-decisori a tutti gli effetti.

La situazione in Ucraina

Ai fini della nostra analisi, il parametro più rilevante da analizzare nella CSI, dopo la politica estera della Russia nell'area del "vicino estero" di cui si è detto sopra, è senza dubbio il futuro dell'Ucraina. Potrà, e come, questo paese rimarrà indipendente? Diverrà l'Ucraina internamente stabile o invece sarà travolta dalle divisioni etnico-politiche e dal tracollo economico? Come si svilupperanno i rapporti bilaterali con Mosca? La risposta a questo quesito è di fondamentale importanza per gli interessi della vicina Russia e quindi per il futuro della sicurezza dell'intero continente.

Affari Interni

Dopo tre anni di indipendenza, solo i primi timidi passi sono stati compiuti nella direzione di una vera riforma economica. Kiev ha appena firmato un accordo con il fondo monetario internazionale che dovrebbe aprire la strada al finanziamento internazionale per ulteriori sforzi in questa direzione. Sono in corso di redazione leggi e decreti per la liberalizzazione dei prezzi e la riduzione dei sussidi alle industrie in perdita. Il presidente Kuchma sembra essere più sensibile alla necessità di cambiamento ora di quando non era primo ministro, almeno sul piano retorico. Tuttavia, egli ha nominato ben pochi riformatori nel governo, ed il Parlamento resta fortemente influenzato dal rinato Partito Comunista, il più grande e meglio organizzato dei gruppi parlamentari.xvi

Lo stato dell'economia continua a peggiorare:xvii il Pil è diminuito del 26% nella prima metà del 1994; la produzione industriale del 36%; quella di beni di consumo del 40%. Meno si sa di quella agricola, ma i danni in quel settore sembrano essere minori (molta produzione viene consumata sul posto e non contabilizzata, e l'Ucraina non ha sofferto di carestia alimentare) anche se solo il 2% della terra è stata privatizzata e la produttività è minima. I salari reali sono calati del 31% rispetto ad un anno fa.

La politica monetaria ha avuto una salutare correzione in senso restrittivo negli ultimi mesi dell'amministrazione Kravchuk, ed è responsabile almeno in parte della contrazione economica. D'altro canto, la stretta creditizia ha reso possibile il calo dell'inflazione (che era giunta quasi a livelli iperinflazionistici) al 6% mensile. Il neo-presidente Kuchma avrà però difficoltà a continuare tale politica, tuttavia, sia perché ulteriori sacrifici che questa imporrebbe sulla già provata popolazione, sia perché ad essere colpita più duramente è la base di supporto più importante per Kuchma: l'industria pesante, ivi compreso il complesso militare-industriale, che secondo stime correnti da solo ammonta a circa il 30% di tutto il settore industriale del paese.

Sul piano meramente politico, restano importanti divisioni tra l'est del paese (più russo, o russificato), l'ovest (più nazionalista e pro-occidentale), e la Crimea (che è un caso a sé). Ma una certa recente attenuazione degli attriti tra le parti sembra aver fatto recedere, almeno per il momento, il pericolo di una definitiva spaccatura nel paese.

Sul piano militare, la nomina, per la prima volta, di un ministro della difesa civile, viene generalmente interpretata come una tappa miliare nella costruzione di rapporti veramente democratici tra civili e militari. Lo stesso dicasi per la ristrutturazione in corso in tutta la piramide gerarchica della difesa, che pone l'Ucraina più in linea con i criteri occidentali di controllo delle forze armate da parte del potere politico democraticamente eletto. 

Relazioni con la Russia

Buone relazioni tra Ucraina e Russia sono una condizione indispensabile per la stabilità nella regione dell'Europa centro-orientale e dell'Europa tutta. Pertanto, ed anche per il fatto che attraverso l'Ucraina l'Europa occidentale riceve petrolio e gas dalla Russia, il miglioramento di queste relazioni è nell'interesse dell'Occidente. 

Un trattato bilaterale di amicizia e cooperazione con la Russia è attualmente in fase di negoziazione, e viene descritto da entrambe le parti come quasi completato. I nazionalisti ostaggiano questo trattato, che vedono come uno strumento di influenza russa sul paese che ricorda troppo da vicino i vecchi trattati di amicizia e cooperazione che suggellavano i rapporti "fraterni" tra gli "alleati" del Patto di Varsavia. Il presidente Kuchma, invece, sostiene che il trattato implicherebbe un esplicito e definitivo riconoscimento dell'Ucraina come un interlocutore internazionale a pieno titolo da parte della Russia, e quindi rafforzerebbe l'indipendenza e la sovranità del paese. 

L'attuale miglioramento delle relazioni, particolarmente per quanto concerne le questioni della Crimea e della flotta del Mar Nero, va salutato quindi con soddisfazione.  La richiesta della Crimea (formalmente "regalata" per decisione di Khrushciov dalla Russia all'Ucraina nel 1954) di riunificazione con la Russia non è stata spinta con vigore nei mesi recenti, anche perché le varie fazioni crimee si sino più che altro combattute fra di loro.

Per quanto concerne la flotta, un accordo sembra alle porte. Probabilmente, ad una una divisione delle unità, seguirà un'affitto dell'Ucraina alla Russia delle proprie navi, in cambio del cancellamento (anche se forse non totale) del debito ucraino verso Mosca e di un qualche accordo per la continuata fornitura di idrocarburi. Queste navi, però, secondo l'accordo in fieri, proteggerebbero anche le acque ucraine. La Russia dovrebbe inoltre ottenere l'accesso al porto di Sevastopol, in Crimea. Si avrebbe quindi, in effetti, una flotta nuovamente unificata.

In conclusione, anche se restano tensioni latenti e questioni irrisolte, sembra che la crisi bilaterale del 1992-1993 sia in via di attenuazione. È probabile che i rapporti continueranno a migliorare, sia per motivi economici, sia per comuni interessi militari (mantenimento della flotta nel Mar Nero) sia per la profonda comunanza culturale tra i due popoli. Inoltre, l'Ucraina, anche se con riserve, sembra essere meno critica verso le operazioni di "peacekeeping" russe nella CSI.

Ciononostante, Kuchma cercherà di mantenere l'indipendenza del paese. Da parte sua, la Russia sembra essere meno interessata di quanto avrebbe potuto sembrare qualche mese fa nella reintegrazione formale dell'Ucraina nella "Grande Russia", che sarebbe fonte di costi più che di benefici. In altre parole, Mosca sembra essere più interessata a mantenere una forte leva negoziale nei confronti di Kiev, e non a costringerla in ginocchio per poi doverla aiutare a risollevarsi! Per la Russia sarà più vantaggioso accrescere la propria influenza sull'Ucraina debole ed indipendente che essere costretta a dedicare preziose risorse al salvataggio della sua economia.

Implicazioni per l'Occidente

Anche se per motivi di Realpolitik, e non per l'altruismo ufficiale che si vorrebbe far credere, la Russia ha effettivamente contribuito a prevenire, in varia misura, il degenerare dei quattro pericoli (proliferazione, conflagrazione, fondamentalismo islamico, e abusi dei diritti umani, probabilmente in quest'ordine d'importanza) cui si accennava sopra. La questione ancora aperta è se i paesi dell'Occidente debbano o no prendere posizione nei confronti della politica russa verso il "vicino estero", e, se sì, quale debba essere questa posizione. 

Ma deve la posizione Occidentale (ammesso che, come sarebbe auspicabile, ce ne fosse una che raccogliesse un consenso tra i maggiori paesi dell'Alleanza atlantica) essere basata sulle intenzioni dichiarate del governo di Mosca, oppure sul suo operato nell'area in questione?

I nostri interessi strategici e capacità di risposta portano a concludere che ogni presa di posizione in questo campo si debba basare pragmaticamente, sulle modalità e le ripercussioni della politica russa. In altre parole, il ristabilimento di un alto grado di influenza russa nella regione non è positivo o negativo in sé; dipende dalle conseguenze che esso avrebbe per la stabilità in Russia e la sicurezza europea più in generale. 

In ogni caso, sarebbe velleitario pretendere di impedire alla Russia di portare avanti una sua politica regionale che non può prescindere dai propri forti interessi di tipo politico, strategico, economico. L'Occidente non ha i mezzi, e ammesso che li avesse non avrebbe la volontà politica, per contrastare la Russia nelle regioni a lei contigue, soprattutto in Asia e nel Caucaso. Ma accettare questo limite non vuol dire lasciare a Mosca carta bianca e campo libero.

A differenza di quanto accadeva con il Patto di Varsavia, quando l'Occidente non aveva contatto alcuno con i paesi satelliti, e quindi non poteva influenzarne il comportamento internazionale, oggi il Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (NACC) la Partnership for Peace della NATO offrono strumenti per intervenire direttamente presso i NSI. Questo pone l'Occidente in grado di influenzare, anche se solo in parte, il ruolo della Russia verso di essi.

A proposito del quale è necessaria un' altra considerazione, di tipo più generale. Se la Russia vedesse accettato (se non proprio autorizzato o legittimato) il proprio "intervento di pace" nel "vicino estero", essa potrebbe cambiare il proprio atteggiamento verso il peacekeeping in generale. Da chiedersi qui è se un accordo politico sull'area CSI porterebbe Mosca ad essere più cooperativa in altre aree di maggiore interesse strategico per l'Occidente. Per esempio, Mosca ha, con riluttanza, accettato il peacekeeping (ed ha rifiutato il peacemaking) in Bosnia-Erzegovina. Questa riluttanza è dovuta anche al fatto che questi interventi potrebbero stabilire un precedente sulla base del quale i Caschi Blu potrebbero in linea di principio essere un giorno spediti a portare a termine missioni analoghe nel "vicino estero", interferendo così con l'influenza russa in quei paesi. Ma se la Russia vedesse in qualche modo assicurato un suo ruolo legittimo in quest'area geografica, essa potrebbe più facilmente riconciliarsi con "precedenti" che potrebbero crearsi come conseguenza dell'intervento internazionale (con coinvolgimento ONU, CSCE o NATO che sia) altrove.

Inoltre, in futuro, la Russia potrebbe anche accettare di cooperare in queste missioni con forze provenienti da paesi al di fuori della CSI. Questa evenienza, al momento apparentemente remota, potrebbe verificarsi se: a) le forze armate russe, anche con l'apporto (difficilmente più che nominale) di altre forze CSI, non riuscissero ad acquisire e mantenere il controllo delle zone interessate alle operazioni;xviii e b) come conseguenza di a), ci dovesse essere un pericolo di conflagrazione di conflitti periferici alla stessa Russia.

Anche se con riluttanza, Mosca potrebbe preferire perdere l'esclusività del controllo sulle regioni coinvolte ma proteggere l'integrità del paese. Forze ONU, in questo caso, (e se i paesi membri di quell'Organizzazione ne rendessero di disponibili in quantità e qualità sufficienti, il che non sarebbe facile!) potrebbero essere spiegate nel "vicino estero" accanto a forze CSI. Questo spiegamento congiunto CSI-ONU potrebbe non essere importante in sé e per sé, ma per il fatto che contribuirebbe a rendere la Russia più cooperativa in missioni analoghe altrove, come in Bosnia-Erzegovina, dove gli interessi dei paesi occidentali sono, e saranno, più direttamente coinvolti.

Questa linea di pensiero, naturalmente, dà per scontato un comportamento razionale da parte di Mosca: meglio coinvolgere l'ONU (e quindi l'Occidente) che perdere il controllo del "vicino estero" e con esso, magari, della periferia russa. Tale scelta, tuttavia, non deve naturalmente essere data per scontata. Essa potrebbe essere ostacolata, per esempio, dai militari russi, che potrebbero invece sfruttare le difficoltà militari per insistere ed ottenere una maggiore quota di risorse economiche nazionali per poter compiere ogni missione richiesta nel "vicino estero" senza quelle che essi definirebbero "interferenze internazionali" nella regione.



Note: vedi testo originale



29 May 1994

The New East-West Relations in Europe

Prepared for JIIA/IFRI conference on

Building A Global and Regional Framework for Peace and Prosperity: Political and Economic Security in the New World Order

Tokyo, 2-3 June 1994
revised version

Premise

Since the end of the Cold War, the security of Central and Eastern Europe (C&EE) is a necessary (though not sufficient) conditio sine qua non for the security of Europe as a whole. This is not entirely new: already during Cold War, the West had recognized that its security was contingent upon that of the other half of Europe (of course, as perceived by Moscow). This resulted in some degree of hypocrisy on the part of the West. For example, the USSR got its first bout of détente and the start of CSCE negotiations right after the invasion of Czechoslovakia in 1968. Today, there is complementarity in place of hostility in new East-West relations, but Europe is far from "whole and free"—as George Bush, among others, proclaimed it as early as 1990. C&EE is increasingly fragmented and, far from being free, many parts of it are at or near war to preserve their freedom. Paradoxically, after the virtual disappearance of any significant military threat, security is an ever rarer commodity in most of Eastern Europe.

In Western Europe, the disappearance of both the massive Soviet deployments in C&EE and (more importantly) of their even more massive reinforcement capabilities, have not produced the results that were hoped for. The perception of security has not improved. War is being waged in parts of the continents, and tensions are high in others, but the danger of conflagration is not clearly definable or predictable. Therefore, such dangers as they exist are not sufficient to mobilize public opinions, though they are clear and present enough to worry most observers. Increasing or nascent threats from the South of Europe's periphery only make things worse.

Under these circumstances, this paper argues first, that the C&EE states are dangerously reverting to nationalist approach in foreign policy; second, that this approach does not augur well for the continent, as today's Europe vital interests are no longer national interests, and vice versa; and third, that, therefore, international institutions should play a pivotal role if C&EE are to be integrated into a future peaceful order in Europe. While their performance has been less than ideal in recent years, the richer and more influential Western countries have no alternative to their strengthening and revival.


East-West (?) Relations in the New Europe

To the extent that it indicated the confrontation between the blocs, the term "East-West" is now obsolete. The very word "Eastern" Europe is generally considered demeaning; to refer to "Balkan" states or peoples is sometimes even taken as insulting by those who geographically belong to those areas. This is considered terminology from Cold War, reflecting obsolete bipolar concepts. The new commonly accepted term, which will obligingly be used here, is C&EE, but changing their definitions rarely solve problems, and declarations of intent do not change geography.

In fact, the term "East-West", though perhaps impolitic in the current parlance, is still valid in some respects. While there is no longer an adversarial relationship between the two "sides" of the word, European countries are not yet parts of a group of states definable as such except in the purest (and least significant) geographical terms. They do not form a working system, let alone a coherent whole.

Within these new East-West relations, the hope for the future is that cooperation and integration can replace confrontation, most importantly between Russia and the rest of Europe. The lack of a solid cooperative relationship between Russia and the rest of Europe is the most serious threat to the stability of the continent in the years to come. That is why the West, regardless of who is in charge in Moscow, will have to continue to devote special care to the security perceptions and economic condition of this country. The NATO-Russia agreement of 22 June 1994 fails to acknowledge a "special role" for Russia within the Partnership for Peace (within which all partners remain on an equal basis) but the accompanying "Summary of Conclusions" provides for Russia-NATO cooperation "beyond" Partnership for Peace. The relationship with Russia is the single most delicate for the West, but not the only preoccupation of post-Cold War Europe.

A second source of potential instability lies in Central and Eastern Europe itself. In the immediate aftermath of the 1989 revolutions, political euphoria overshadowed economic concerns, but it soon faded away as harsh economic realities became clear. Initial illusions about cure-all capitalism settled in. Five years into democracy, a crucial question in C&EE is whether political enthusiasm will be enough to overcome prolonged economic disappointment and hardship. Alternatively, will economic disappointment undermine political achievements? A race between economics and politics in now going on: it is not yet clear whether the post-1989 political capital still available will suffice to overcome current and future economic hardship.

To make matters worse, new regional cleavages have come to the fore after the fall of the wall. Some new cleavages are actually revived old ones, i.e. from the pre-World War II era. Most seriously, most of C&EE has long been anti-Russian before it became anti-Soviet, and it can now express its anti-Russian feelings again. Other regional and local cleavages include that between Hungary and Romania, Czechs and Slovaks, Serbs and Hungarians, beyond, of course, those within former Yugoslavia. One may add an anti-South of the world prejudice, particularly as competition for Western aid becomes more acute. If economic realities beat political sentiments in the race described above, these cleavages might be ignited beyond the plane of peaceful confrontation into violent conflict, and it would be imprudent to assume that the Western half of the continent would not be engulfed in it.

The best hope to avert such an outcome lies in integrating C&EE in the economic, political and security structure of Western Europe. For four decades C&EE peoples have been forced to look at international integration (and, more in general, at any form of internationalism) as one representation of the division of Europe into two divergently integrating blocs (theirs being under the USSR). The so-called "fraternal" relations within the Warsaw Pact and Comecon, a euphemism for Soviet controlled economic and security planning, has left deep scars. Consequently, there is a strong tendency among C&EE to equate nationalism with freedom and independence.

In light of the above, it is not surprising that C&EE electorates and leaderships have little sympathy (or understanding) for true international interdependence. Nationalism (whether it is real or, as is often the case, it is built-up spuriously around "imagined communi­ties" instead of real nations) has blossomed, and nationalism, historically, is likely to be associat­ed with war. It may be a cause or a consequence of war. Most often, and most dangerously, it is used by political élites as a catalyst for the channeling of military and other resources toward the achievement of war aims. Dangerously, C&EE often look to past rather than to future, longing for a restoration of pre-communism, the Soviet occupation being seen as a historical aberration in their national paths to development.

The only magnet for them was initially the EU, which was seen as a locomotive to pull them up from the doldrums of economic stagnation, mainly through infusions of German funds. Subsequently, this enthusiasm dwindled as it became clear that membership was not in the cards for the short term—see chart 5. A EU widening to C&EE is still in the agenda of Western diplomacies, but the time horizon has been pushed back. Subsequently, a strong interest developed for membership in NATO. These two issues will be further discussed below.


National and Vital Interests in Europe

Like most political paradigms (both domestic and interna­tional) the concept of "national interest" has changed since the Cold War. This is especially true in security affairs. An emerging issue in this context has been how to re-define national and international interests in an increasing interdependent world in which international institutions play a greater role—albeit not always satisfactorily so.

Of course, there are genuine national interests which are perfectly compati­ble with a cooperative multination­al approach to security. These may be economic interests (e.g. milk or steel production capacity; or agricultur­al import quotas in the EU). They may be related to the environ­ment (e.g. the regulation of international transit rights for cargo, or control of pollutants that are not usually very respectful of national borders). National interests may also be political, as country A may jostle for political advantage vis-à-vis country B by establish­ing special bilateral ties with country C, (e.g. to push its export products, to obtain special access to C's economic resources or technologies or to foster the rights of its affiliated ethnic community in country C). Finally, there may even be military-related national security interests, as might be the case in future contingen­cies similar to the Falklands war, the US-Libyan clashes of 1981 and 1986, and the US intervention in Grenada or Panama. But the national interests involved in this type of operations can hardly be described as vital.

These interests are definable and defensible at the national level, but they are not vital. In light of the contradic­tion between the need to look at security problems from an international perspective, and the trend toward reinforced nationalist pressures build, it seems appropriate to refer no longer to "national" interests, but, rather, to "vital" inter­ests in the contempo­rary European land­scape. Which are the vital interests of post-Cold War Europe?

The most fundamental vital interest for post-Cold War European states remains the protection of the physical safety and territorial integrity of nation states against the danger of attack from resurgent, residual or wholly new military threats—including internal threats from within existing states. While the Soviet threat is gone, a variety of actual or potential military threats still exists. Newly independent Russia seeks to become a security partner today, and in some circumstances it has proved that it is able to be one, but it is far from certain that this will be true in the future. While the danger of post-Soviet prolifera­tion is usually exaggerated in the press, other nuclear powers might, in time, emerge from the ashes of the USSR. The proliferation of weapons of mass destruction is a distinct possibility around Europe's southern periphery. Any of these develop­ments could threaten the vital security interests of European states. As for threats from within existing states, the example of Yugoslavia speaks for itself: while not likely to be replicated in the same scale, it might not be the last European state to break-up violently, and the repercussions might yet be felt outside of Yugoslavia itself.

The second vital interest is to at a minimum, maintain our standard of living and economic development. This implies, among other things, the preservation of a free market economy, unimpeded access both to sources of raw materials and to foreign markets, and freedom of navigation over the high seas. Recent events in the Gulf have demonstrated (had there been any doubt) that the defense of this vital interest can not quite be taken for granted even after the end of the Soviet threat to NATO sea-lines of communication.

The final, and most important, vital interest lies in the protection of the Western way of life. Despite all its shortcom­ings, is increasingly accepted as a pan-European model. This translates into the preservation of a pluralist democracy, which in turn means freedom of movement for people and informa­tion (and hence open borders) but also support for the social order of civil society (and hence regulation of migration flows).

Other formulations could be devised, but the above are by and large what the general consensus within the Western civiliza­tion has come to define as "vital interests". But these are not synonymous with "national" interests; none is nationally definable or defensible, by any state, and certainly not by European medium powers. The following paragraphs will discuss why this is true now even more than during the Cold War.

When Europe was divided in two blocs, Western nations had to join up forces to counter the Soviet Union. The possibility always existed, however, that one or more could try to strike a deal with Moscow, in extreme circumstanc­es, for example in order to avoid the escalation of nuclear war on its territory. This possibility applied to the Allies on both sides of the Atlantic: the US at times feared that the Europeans might rather be "red than dead"; the Europeans feared that the US would fight a limited war in Europe but not challenge the Soviets to the point of a reciprocal nuclear exchange. Such fears were based on rational calculations of national interests which took into account the probable behavior of concerned parties, bona fide allies as they might have been. Today, sources of resurgent, residual or new threats (nuclear, conventional, or anything in between, as they might come) are unlikely to be as amenable to the same rational thinking as was the centralized and monolithic Soviet state; hence, it is unlikely that the freedom of "opting out" would still be available to any party in a future continen­tal crisis.

A detailed discussion of increasing international economic interde­pendence is beyond the scope of this paper; suffice it to say that the end of the Cold War has opened far greater opportunities for international economic exchanges—and therefore for growth. As recent vicissi­tudes in the Gulf have demonstrated, however, free access to raw materials must sometimes be guaranteed by collective efforts, including by means of armed force. On a different plane, the GATT negotiations demonstrate how, mutatis mutandis, an equal degree of collective political commitment is necessary to ensure free access to international markets, the other essential ingredient of world economic growth and prosperity.
As for the third of the vital interests considered here, during the Cold War, it was possible, indeed obligatory, to protect democracy in the West while avoiding any determined effort to promote it in the East. Today, without the Iron Curtain, consolidating democracy in the East is increasingly becoming a pre-condition for maintaining it in the West. Indeed, as European borders are wide open to flows of people and information, it would be utopian to think that a privileged island of prosperity and freedom can be maintained only in selected parts of the continent. Again, multilateral effort are indispens­able, for it is unthinkable that any single state, however influential, could pursue such an ambitious goal single-handedly.
The foregoing does not suggest that national interests no longer exist in Europe today; nor does it lead to a prescription of exclusively multilateral solutions. There are interests that can and should be defined at the national level, just as there are other interests that can be defined at the regional, provincial or municipal level. In fact, it is not a coincidence that this time of increasing nationalism is also a time of increasing demand for regional and local autonomy throughout Europe, both East and West.

What is sometimes referred to as the rebirth of "national­ism" in reality is often tribalism, parochialism or fanaticism decorated with a patina of religious fervor. In post-Cold War Europe, the nation-state is in some cases as much in crisis as are international alliances and organizations, if not more so. More Europeans are rediscover­ing the value of local autonomy than are revamping that of national independence. The recent support garnered by Flemish separatists and Northern Italian secessionists are the latest additions to what seemed to be the isolated exceptions of Northern Ireland and the Basque Country. The nineties are more likely to go down in history as a decade of threats to nation-states than as a decade of nation-building.


The Agenda for the West

Eastern requests for integration in Western institutions translate into some degree of Western embarrassment. C&EE states are in a position of demandeur for access to markets, security and political identity. More than anything, they want to join Western institutions, generally seen as the only solution to all three issues. They by and large realize that no single state is equipped to address these new types of problems and help them. They understand that, as the West has often been preaching, the solution to these risks and challenges requires a multinational approach, with contributions from both East and West. This is true in security as well as in economics.

 The answers to the questions posed in the preceding paragraphs carry important implications for Western Europe for its possible repercussions in international relations. If the cleavages discussed above are not resolved, conflict might well spread beyond the region of C&EE. Under these circumstances, the risks to common European security that are coming from this new Europe today can be categorized into four groups. First, there is a danger that local conflicts may lead to region-wide conflagration. As of late 994, this is the case, most seriously, in the Balkans, but to a lesser extent also in the Caucasus.

Second, these conflicts, and the destruction and disorder that they carry along, may provide ammunition to reactionary and/or nostalgic power groups, and thus provoke a backfiring of authoritarianism. This may not be of a communist character, but it may be ultra-nationalistic and perhaps involve the armed forces.
Third, Western Europe may become the target of terrorism, as frustrated extremist groups may seek to attract international attention to this or that ethnic, territorial or "national" cause. Connections with Western European terrorist organizations, such as the IRA or ETA, are to be expected.

Finally, and most seriously, Eastern European conflicts come at a time of delicate transition in the foreign policy relations among Western nations. Cleavages in the East have already provoked diverging attitudes in the West, and may result in a weakening of Western cohesion. The handling of the Yugoslav crisis has already resulted in some damage to the developing process of harmonization of Western European foreign policies.

What can and should the West do to address C&EE's demands, since on the answer that will be given to them depend also our own interests? The West has three instruments for the creation of security conditions around its periphery: wealth, advanced know-how and institutions. Wealth is the least useful one. It can only provide emergency relief, but can not provide economic stability and hence security in the medium-long term. Reforms and time are necessary for this, and too much aid can even be counterproductive if it allows for artificial life-support to be administered to inefficient economic mechanisms. Of course, Western wealth can not buy military security, since all Eastern countries must, on the contrary, reduce their military commitments. As for Western military intervention, in conflicts in Eastern Europe or in the Mediterranean region, the problems there are hardly of a financial nature.

Advanced know-how is potentially more useful than wealth because it helps create an indispensable basis for long-term efficiency and thus social stability. In this respect, managerial know-how will be more relevant than advanced technology. But it, too, does nothing to alleviate immediate political security problems. Much time will be required before organizational restructuring and technology injections will produce appreciable results in the societies of the East.
Institutions remain the only instrument potentially capable of preventing and perhaps repressing European conflicts before they spread too widely. This paper will sketch what three regional institutions (the EU and the WEU, which for the purposes of this paper are considered together; the North Atlantic Treaty Organization; and the Conference on Security and Cooperation in Europe) could contribute toward continental security.

The nature of the questions involved immediately points to the fact that the required approach will be multidimensional: for analytical purposes, the following analysis will be divided in security, economic and political aspects, though the three are clearly interconnected.


Economic Cooperation

Economic interdependence, long established in Western Europe, is difficult to replicate in the continent as a whole. No doubt, such replication will be profitable (and in any case probably inevitable) in the long run if Western Europe is to be competitive with the US and Japan. But, as John M. Keynes put it, in the long run we will all be dead. The economic integration of Eastern Europe in the pan-European (and therefore world) market can not wait so long.

Therefore, when discussing the extension of economic interdependence to C&EE, the question is not whether, but when and how to do it. The widespread argument that Eastern Europe is not yet ready is only partially true, or, rather, it only explains one half of the problem. The other half is that it is Western Europe which fears losing important markets to cheaper Eastern labor. This is true, first and foremost, in those very sectors in which C&EE economies are stronger: textiles, agriculture and steel. On the one hand, to allow C&EE producers into EU markets might spell the end (or at least a drastic down-sizing) of those industries in the EU. On the other hand, it would both make those products available at cheaper prices (and thus boost productivity) and stimulate competition.

Of course, this approach runs directly against the grain of EU subsidization policies. But the dilemma between narrow-minded national protection and opening to the East will once again have to be faced in the near future: the consequences of the choice that will be made are going to have a strong and lasting impact on the economic relationship between Western Europe and C&EE states. In the latter, it will also have profound political and social consequences which the governments of EU member states will do well to consider before giving in to domestic lobbying and pressures for continued protection.

EU membership remains a coveted ambition for C&EE states, not only for economic but also for political and (in perspective) security reasons. It may provide some degree of political reassurance, but certainly the EU does not have the tools for any military-related task. This may change in the future with the realization of a common security policy and a then of a common defense, but the time frame is far too long. For the next several crucial years, most instruments of security policy will remain in the hands of national governments, while the process toward the creation of a common security and foreign policy continues, hopefully, to overcome national and bureaucratic hurdles.

In any case, even when such a common policy exists, caution will be imperative, because for the Union to provide security to third parties would probably mean to grant accession: "extended deterrence" by the Union or the WEU is definitely not in the cards for the foreseeable future. Accession to the Union presents formidable economic and institutional problems, that fall beyond the scope of this paper, but which are probably going to retain a higher degree of priority with respect to security concerns. A common concern, for example, is that enlargement of the Union will jeopardize its "deepening": therefore, extension of security guarantees, to the extent that it might hasten precipitous enlargement, might weaken the very institution that these guarantees should emanate from.
In conclusion, the EU is most useful for cooperation with the C&EE in the economic, and specifically trade, arena. This cooperation would involve short-term costs, but these will be outweighed by long-term benefits for current EU members as well.


Human Rights and Political Stability

Relations with C&EE and post-Soviet states have another, purely political, dimension: human rights. Of the various "categories" of human rights, those of concern here are the so-called "first generation" human rights, i.e. those indisputable rights of the individual such as the personal inviolability and freedom of information and expression and movement of each citizen. These rights are most easily definable, are the same for all states, and juxtapose the individual citizen (as opposed to, for instance, the member of a given nationality) to his/her government. They are inalienable, or, as they are sometimes referred to, "static". Therefore, they can be considered independently of local political factors of diversity which may be specific of a given state.vii During the Cold War, the West had to ignore them.

For a long time, the West sacrificed human rights ideals for the sake of peace and stability: until, that is, in 1989 communist (read Soviet) oppression exhausted its ability to produce stability. While the lack of democracy was a source of stability in Soviet bloc, today, with no overwhelming power to enforce human rights violations, it is a source of instability in post-communist Europe. On the contrary, the political energies which dictatorship had long repressed are now about to explode, create instability and threaten peace. It is for this reason, quite aside from moral considerations, that the protection of human rights is an important factor of security and stability in Europe.

Since the end of the Cold War, most of Europe has accomplished much toward the realization of first category rights, but not enough. The West, and particularly the US, has not always been consistent. It traditionally followed one of three policies in this field. Sometimes, the West has been content with letting its point of view be known, without doing anything about it (this was, for instance, the Nixon approach of pure Realpolitik).

Alternatively, it tried to persuade violators to change their course, but without offending them with public accusation or much fanfare. This approach produced important results, (for example under Carter) when the carrot was used more than the stick. The problem here was that this policy was intermittent and unpredictable.

The third approach has been to accuse violators (or, rather, those who happened to be political adversaries) publicly, to apply diplomatic pressure upon them, to link progress on human rights to other negotiations such as those on arms control or trade (the so-called "linkage" policy). This approach produced little results.
Today, human rights are once again an important factor of foreign policy based on Realpolitik, and as such must be given their just priority. As a former US Secretary of State put it, "human rights must always be on the foreign policy agenda, but never by themselves".viii In this respect, interference in internal affairs becomes justified and necessary, as the UN charter and article 56 stipulate that violations "oblige members to take joint and separate action" to achieve this purpose. While consistent and persistent persuasion will be indispensable to this end, the use of force might at time be required as well. Albeit insufficiently, this has already happened in Yugoslavia. This produces an immediate link between the protection of human rights and military stability and security.


Military Stability and Security

In this field, again, interdependence has been an long established concept, but it is now moving from a confrontational to a cooperative type of interdependence. Europe has shifted its attention from the avoidance of war to the building of peace.

Virtually all of Eastern Europe, including most former Soviet republics, is asking to join NATO. On the one hand, this testifies to the success of NATO. On the other hand, it is a symptom of a widespread illusion that this success would be easily replicated by simply bringing in new members. That is far from being the case. First of all, it would be economically expensive (restructuring of allied commands, re-deployment of forces, additional official languages, harmonization of procedures, etc.) and therefore NATO members would not be likely to accept it. Public opinions would not support such an expansion of responsibility at a time of reduced threat perceptions and declining defense budgets.

More importantly, it might be difficult to establish whom to accept into the Alliance: In other words, who would be defended against whose threat? If this were a way for Central and East Europeans to gain a military security guarantee against Russia, this would signify a perpetuation of the old logic of the two blocs. Some advocated this also in the West, particularly during and immediately after the failed August 1991 coup in Moscow (when authoritative voices were heard urging Western security guarantees to Eastern Europe) but such a stand does not seem to fit into the current status of political relations with the successor states of the USSR.

One could argue that the logic of the blocs is perpetuated by maintaining one the two blocs as a self-contained exclusive entity separated from the now no longer antagonistic remnants of the other bloc. If the Eastern bloc is gone, this logic goes, the Western must offer its umbrella to former enemies who have now embraced its values and goals. A more cogent argument, however, is that the logic of the blocs would be perpetuated by trying to artificially extend one against another that no longer exists. Besides, NATO could not and would not wage war against Russia to save Eastern Europe more than it would have during the Cold War. Russia remains a nuclear state, and for NATO's nuclear powers to provide "extended deterrence" to the Eastern Europeans against Moscow would hardly be credible; it would be more likely a bluff. Let us not forget that even Western Europeans have had this problem of credibility of extended deterrence for forty years; for the new democracies of the East the problem would be much worse.
A second possibility is that NATO should accept all those who might want to accede, Russians included, and offer a security guarantee to all. The question then would be whom to guarantee against whom. If one wanted to guarantee everybody against everybody else, this would probably be a recipe for disaster. It is easy to imagine rather difficult dilemmas emerging from any number of crisis situations. It is also easy to see how false expectations could be created and these could blow on the fire of the nationalist ambitions that were repressed by forty-five years of communism and are now rekindling wildly.

In that context, some argue that NATO might play a moderating role similar to that played between Greece and Turkey, but that bilateral confrontation was easier to deal with than the multilateral situations of Eastern Europe would be. This was because of the common threat that Greeks and Turks both had to face; moreover, the preponderant role of the US in the Greek-Turkish relationship would not be there in Eastern Europe.

As the opinion became more common that NATO should, in one way or another, take on the task of providing security to its former enemies, the organization created the North Atlantic Cooperation Council (NACC). The creation of NACC was the subject of some debate. First, NACC ran the risk of duplicating the confidence-building role of the CSCE. In fact, the exclusion of neutral and non-aligned states makes it less credible than the CSCE for that purpose. The United States argues that CSCE was not sufficient because it lacked the resources; logically, the answer then should have been to give it those resources. But Washington clearly feels it can control NACC better than the CSCE, and has, so far successfully, played a prominent role in the de facto down-playing of the latter organization. Second, NACC is fuelling expectations for full membership. As this is not likely to happen soon, it will create even more frustration than would have resulted from an outright rejection of any membership at this time.
Still, NACC is playing a very useful role. One area where NACC might indeed be useful is in providing military expertise to those nations wishing to restructure their armed forces toward a more defensive model, both to reduce the defense burden and to avoid friction with neighbor states. Eastern European officer corps must be "de-indoctrinated" from Marxism-Leninism. NATO could address all of these concerns through its existing (and expandable) information, scientific and cultural programs, without even addressing the issue of membership.

For this purpose, the launching of the Partnership for Peace (PfP) in January 1994 was essential: it provided an instrument for concrete bilateral cooperation between NATO and individual cooperation partners, each of which can tailor its own "Individual Partnership Program" according to its own wishes, capabilities and needs.

In addition, as offered by NATO itself in 1992, NACC could be used to harmonize NATO forces and infrastructure with those of C&EE states which could then be offered for joint peacekeeping actions under the CSCE auspices. The first joint maneuvers to this end were held in the Summer of 1994. Initiatives along these lines would tap on NATO's comparative advantages, provide support to the current soul-searching effort within the Alliance, and avoid the danger that acrimonies among Eastern Europeans might clog NATO's own operation. NATO could provide the necessary infrastructure and logistical base, as has been offered recently. Non-NATO troops could be employed and be supported by the NATO infrastructure, early warning systems, etc. Even armed forces from non-European states might then be called upon, as been the case already in former Yugoslavia. The old prejudice for which Europeans could serve to keep the peace among non-Europeans, but non-Europeans would not be needed to come and help in "civilized" Europe seems, alas, to be fading away.

From a political point of view, the CSCE might also contribute security for Eastern Europe. So far, however, it has not been given the necessary instruments, either military or political. The Vienna-based Center for the Prevention of Conflicts (CPC) is woefully unprepared to deal with the fermenting European problems, as it is understaffed, underbudgeted and underpowered. It should be strengthened, both financially and in terms of political endorsement by the member states. Its competence should be expanded to include a capability for political action toward crisis prevention, as its very name suggests it should, and not only crisis management.

The growing membership in CSCE dilutes the effectiveness of the decision-making process. The consensus rule is less and less adequate. There is a need to move to majority rule, at least for some kinds of decision, among which perhaps there could be the dispatch of peace-keeping forces to troubled areas. For this purpose, some have proposed the creation of a CSCE Security Council, and to allow it to take operational decisions without waiting all other member states to agree, and if necessary against the wished of some of them.
This body might include the UK, the US, Germany, France, Russia, as permanent members with a veto right. Perhaps Italy, Ukraine, Kazakhstan and Spain could enjoy some kind of semi-permanent status. This Council would eliminate the unpredictability associated with China's behavior in the UN, while at the same time including the absolutely essential role of Germany. Its powers would be rather circumscribed at the start, but it could sanction conflict-prevention initiatives and peace-keeping operations, including those that may involve military force. Its chances of being effective could be encouraging in a time where the end of the East-West division of Europe has created a high degree of convergence in the political goals of the major powers in the continent. However, under no circumstances should the CSCE be allowed to become the overarching umbrella structure with overall coordinating powers that Russia would like it to be.


Conclusions

The solution to the problems of the new geopolitical situation in Europe will require an approach that must be both multilateral and multidimensional. International security institutions are indispensable for an adequate approach to the post-Cold War security problems of Europe. One does not need to be an "idealist of the post-Cold War mend-the-world school"ix to realize that no single state can address, let alone begin to resolve, the complex intricacies of resurgent nationalistic cleavages, civil struggles and potential conflagrations across borders. Nevertheless, because of the new strength gained by old pre-Cold War (rather than new post-Cold War) thinking, multilateralism is still all too often seen as an unaffordable luxury.x But it is Realpoli­tik, not idealism, which calls for a wider and more structured pattern of interna­tional cooperation in order to best serve the vital interests of European democracies (both old and new).xi It would be naïve idealism to presume that those interests can be served through the romantic restoration of the nation-state to its pre-Cold War preroga­tives, cultural, political or moral as they may be.

To pursue this multilateral approach, all countries of Europe (but the principal responsibility inevitably falls upon Western Europe) need to both deepen and widen international cooperation. In this, Europe does not have to start from scratch; much was done during the Cold War which can still be utilized if it is properly built upon. NATO is the obvious place to start to maintain a collective security and collective defense apparatus, the first of the three vital interests considered in this study. The WEU has been revived after the end of Cold War, and there is no question that, in time, it might work as the future European pillar of the transatlantic alliance if the political will is there to make that happen. The member states of these two organizations (together, but not individually) clearly possess the necessary military, technolog­ical and economic resources to face the new risks of the post-Cold War world in which C&EE in no longer an enemy but an increasingly effective security partner.

As of late 1994, however, partnership with the former Eastern adversaries is still fragile. Collective security bridges to Eastern Europe are being built, among others through the NACC and the WEU's Forum for Consultation, but success is not guaranteed. The Partnership for Peace provides for conrete cooperation programs that are specifically tailored to the needs of specific partners. But it is not enough to pile economic, military, and technologi­cal resources, to organize conferences and sign agreements. There is a much deeper need to build up political coherence among states and peoples which have long been suspi­cious of and estranged from one another. This will take time, but there is no reason to think that the successful construction of a collective security system in Western Europe in the 1950s and 1960s could not be replicat­ed, in the late 1990s and beyond, across the whole continent.

The second vital interest has been defined here as the maintenance of unimpeded access to raw materials and the fostering of market economy. Here, too, there are useful precedents that make good examples: the energy sharing schemes of both the International Energy Agency (IEA) and the EU have proven largely successful. The European system of pipelines guarantees that energy security is a preeminently international end, which will require international means to achieve and maintain. They could be further improved to guarantee access to primary sources and provide a safety net in case of emergency.

Here, too, there is a need to expand the multilateral approach to Eastern Europe. Again, there is some degree of similarity to what was done in Western Europe in the 1960s, 1970s and 1980s, when the democracies, threatened by rising prices and the two oil crises, effectively overcame their narrowly defined national interests in order to foster the common good.

The strengthening of democracy, the on-going gradual opening of frontiers to movement of goods, people, and ideas strengthen democracy, the third vital interest considered in this paper is concerned. The CSCE and the Council of Europe have contributed to achieve this, and their further strengthening will be useful to accomplish more. But their action, particularly in the case of the CSCE, will need the backing of adequate military force by other institutions if necessary. The EU, on its part, should accept short-term economic costs (in the form of granting greater market access) for long-term political (stability) and economic (efficiency) gains.

Unlike during the Cold War, when the West had to close its eyes to human rights violations because of overrid­ing security concerns, ignoring violations of those human rights today can be a determinant to political instability. During Cold War, stability was a synonym for preservation of the status quo; today, on the contrary, stability can only be maintained through a careful management of change, and there is a change toward increased democracy; change must be actively assisted.