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19 April 2022

Una visione strategica sulla guerra in Ucraina

La guerra è in pieno sviluppo e sembra destinata a durare ancora per un po’. L'esito non è sicuro, ma la Russia ha sicuramente fallito nel suo obiettivo principale: privare il paese che ha invaso della capacità di gestire la propria identità. Ciononostante, potrebbe ancora riuscire ad occupare fette di territorio ucraino in permanenza, abbastanza per poter dichiarare vittoria. Adesso però è arrivato il momento, superato lo shock iniziale e le misure di immediata risposta in termini di sanzioni economiche alla Russia e aiuti all'Ucraina, di pensare al lungo periodo. 

Tre questioni strategiche sono di primaria importanza alla luce della tragedia in corso: le conseguenze per l'Unione Europea, i riflessi sul ruolo delle armi nucleari ed il futuro dei rapporti con la Russia. Su questi temi urge una riflessione per il lungo periodo, che guardi al di là degli eventi di attualità, in modo da essere pronti ad agire con consapevolezza, e non sulla scia di emozioni, quando il conflitto finirà. Questa riflessione finora manca.

Unione Europea

Quali sono le implicazioni strategiche del conflitto per la UE? La prima è che la sicurezza in Europa non può più essere data per scontata, come in troppi hanno colpevolmente pensato dopo la fine della guerra fredda, e che dobbiamo tornare a focalizzarci la nostra attenzione. Non si può pensare solo al commercio e agli scambi culturali, perché, si pensava, tanto il tempo delle guerre è passato. 

In primo luogo, quindi, non potremo tornare a fare tutto come prima quanto taceranno i cannoni. Per decenni abbiamo creduto, io per primo, che creare interdipendenza con potenziali avversari favorisse il reciproco interesse alla pace: il mio primo lavoro di ricerca dopo l'’università, nel 1982, fu sul gasdotto Urengoy che si stava costruendo per portare gas dall'URSS all'Europa occidentale, "bucando" la cortina di ferro. L'Europa lo costruì contro il parere dell'amministrazione Reagan che invece sosteneva fosse pericoloso creare questa dipendenza dalle forniture sovietiche. (Gli americani però erano prontissimi a vendere a Mosca le loro materie prime, a cominciare da quelle alimentari.) Da allora i gasdotti dall'URSS/Russia verso l'Europa si sono moltiplicati. Io credo ancora che l'interdipendenza sia la strada giusta, e forse obbligata, per il futuro, ma mi pare ovvio che vada ripensata attraverso una maggiore diversificazione di fonti energetiche e fornitori. Su questo dirò più in dettaglio di seguito.

La seconda è che la sicurezza costa, cosa che abbiamo sempre saputo ma che negli ultimi decenni abbiamo ignorato. L'Europa a mio avviso non spende poi tanto poco (il dibattito va avanti da decenni, non vi entro qui) e comunque si può permettere di fare di più. Ma certamente spende male perché lo sforzo economico è distribuito in modo inefficiente tra 27 forze armate diverse, con ovvi sprechi per costi fissi, imperfetta standardizzazione ed interoperabilità, duplicazioni, che si potrebbero eliminare se si avesse un esercito europeo, una marina europea ed un'aviazione europea. Spendere di più senza migliorare il come si spende non sarebbe un uso efficiente delle risorse. E vengo al terzo punto.

La terza conseguenza strategica del conflitto ucraino per l'Europa è che dal punto di vista politico, economico e militare dell'attuale conflitto tocca l'Unione nel suo insieme. I gasdotti partono tutti dalla Russia ma, a parte il Nord Stream che va dritto in Germania, gli altri riforniscono vari stati membri. E comunque il gas è una risorsa fungibile. Se la Francia è più protetta dalle sue centrali nucleari, mentre Italia e Germania restano più dipendenti dai gasdotti con la Russia, tutti i paesi soffrono degli sconvolgimenti e degli effetti inflattivi  dall'attuale crisi sul mercato dell'energia. Non ci sono stati membri che siano al riparo. Più in generale, se la Polonia e la Romania sono al confine dello scontro armato, le ripercussioni toccano palesemente anche stati più lontani come il Portogallo e l'Irlanda. 

E dunque è l'Unione nel suo insieme che si deve far carico della difesa degli stati membri, sempre in coordinamento con gli alleati transatlantici nella NATO ma con capacità autonome. Due fatti dell'anno scorso, la creazione dell' AUKUS e il ritiro dall'Afghanistan, deciso unilateralmente dagli USA, rendono ancora più evidente l'ineluttabilità di questa conclusione. 

La Brexit ha rimosso uno dei principali ostacoli alla creazione di una difesa comune europea, in quanto i britannici si opponevano sempre e comunque ad ogni iniziativa che potesse creare anche solo l'impressione di una capacità europea di difesa indipendente dagli USA. Si può aggiungere che comunque per il Regno Unito e gli Stati Uniti il legame tra i Five Eyes (USA, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda) è sempre stato più importante di quello con gli alleati della NATO.

La guerra in Ucraina ci dovrebbe ricordare l'urgenza di procedere con l'istituzionalizzazione della sicurezza europea.  È ovvio, almeno lo è per me, che il legame con gli USA nella NATO debba restare, ma su un piano più equilibrato se non proprio paritetico. Un po’ come è oggi il rapporto dell'euro con il dollaro, della Banca Centrale Europea vis-à-vis la Federal Reserve.

La storia dell'euro ci da una utile traccia: partono alcuni paesi, altri seguono e quelli che non seguono restano fuori, marginali. Oggi i governi di Germania, Francia, Italia e Spagna, abbastanza in sintonia politica sull'argomento, potrebbero creare il nucleo della difesa comune. Forse, dopo la rielezione, Macron, libero da vincoli durante l'ultimo mandato, sarà più attivo. 

Questo deve valere anche nel campo della deterrenza nucleare: la Francia di Macron è europeista, ma si ferma quando si parla sul serio di difesa comune ed in particolare di nucleare. In realtà non esiste nessuno scenario immaginabile nel quale la Francia sia minacciata al punto che il deterrente nazionale diventerebbe rilevante senza che al tempo stesso non siano minacciati anche gli altri paesi dell'Unione. Si dirà che nessun paese, ed in particolare la Francia, una potenza nucleare UE e membro permanente del consiglio di sicurezza ONU, rinuncerebbe alla sovranità nazionale in materia, ma si diceva anche che la Germania non avrebbe mai rinunciato al Deutsche Mark.

E veniamo alla seconda questione strategica di questo articolo, le armi nucleari appunto.

Armi nucleari

Sin dall'inizio dell'invasione russa il Cremlino ha lanciato non tanto velate minacce di far uso di armi nucleari, anche se le dichiarazioni sono rimaste prevedibilmente vaghe sul come, contro chi e perché. Partendo dal presupposto che questo uso non avvenga, rimane l'obbligo di ripensare il significato delle armi nucleari per il futuro. Si potrebbe argomentare che la ratio per possedere un arsenale nucleare ne esce rafforzata: i paesi occidentali si sono sbracciati da prima dell'invasione a chiarire che non avrebbero fatto guerra alla Russia per l'Ucraina. Biden ha quasi urlato in conferenza stampa: "We will not fight Russia over Ukraine." E questo, non è difficile dedurlo, perché la Russia, anche se le sue forze armate stanno facendo una figuraccia, è una superpotenza nucleare. Ed è ipotizzabile che, se la Russia non avesse avuto un arsenale nucleare in riserva, non avrebbe neanche tentato l'avventura ucraina. 

Forse qualcuno in Ucraina si è pentito di aver rinunciato alle armi nucleari che l'URSS in dissoluzione aveva sul territorio ucraino: se Kyiv le avesse tenute forse oggi non ci sarebbe una guerra nel paese. Ma è una falsa domanda: quelle armi erano sì sul territorio ucraino, ma sempre sotto stretto controllo dei russi, e del KGB in particolare. Gli ucraini avrebbero però potuto farsele, e non lo fecero. Ebbero in cambio vuote promesse di sostegno alla loro indipendenza e integrità territoriale da parte di Russia, USA e Regno Unito. Parole al vento.

E se la Russia, umiliata sul campo dall'esercito ucraino riarmato dall'occidente, decidesse alla fine di lanciare qualche arma nucleare contro gli ucraini? Sarebbe una decisione bizzarra, dato che Putin continua a dire in TV che gli ucraini sono fratelli che devono essere liberati da una cricca nazista al potere, ma Putin ci ha abituati a decisioni bizzarre. A quel punto che fare? Una risposta nucleare occidentale, che potrebbe essere solo americana, sarebbe poco razionale.

Se gli USA rispondessero con le loro armi nucleari, infatti, si creerebbe una situazione del tutto nuova: un paese NATO che usa l'arma estrema non per proteggere la propria sopravvivenza, e neanche quella di un paese alleato, ma di un paese terzo, per quanto amico. E contro cosa potrebbe essere usata questa arma? Presumibilmente non contro il territorio ucraino, dato che lo scopo è difendere l'Ucraina, non distruggerla. Forse contro navi russe che bombardano dal Mar Nero? Forse, anche se vista la fine umiliante della Moskva non sembra sarebbe necessario. E dunque contro obiettivi in territorio russo? E se così fosse, cosa fermerebbe i russi dal rispondere contro gli americani, magari prima contro basi USA in Europa, come assaggio e prodromo ad un attacco sul territorio USA? Chi pensa di poter controllare questo tipo di escalation si illude, ci hanno provato a ragionare illustri esperti per decenni senza mai arrivare ad un risultato credibile.

Io non sono favorevole al disarmo nucleare della NATO, ma in questa crisi ucraina non vedo scenari ipotizzabili che rendano concepibile un impiego razionalmente utile di queste armi. Dunque tanto vale dirlo subito, forse può contribuire ad abbassare la tensione. A cambiare idea, se cambia la situazione, c'è sempre tempo.

Altro punto è l'impatto della guerra in corso sulla proliferazione nucleare: un paese potenzialmente proliferatore in questo momento vede che possedere le armi nucleari paga, quindi è più incentivato a procurarsele. Invece, sconfiggere la Russia senza usare queste armi, anche se la Russia stessa ne facesse uso in Ucraina, sarebbe il modo migliore per rafforzare il regime di non-proliferazione.

Rapporti con la Russia

A costo di apparire inopportuno, data la tragicità del momento, penso non sia prematuro cominciare a pensare, già da oggi, a come impostare i rapporti tra occidente e Russia alla fine della guerra. Tutte le guerre finiscono e poi bisogna pensare a come costruire la pace. Anzi meglio pensarci prima ed essere pronti quando viene il momento.

Alla fine della guerra la Russia sarà ancora lì, anche se, vista la figuraccia, non credo che Putin resterà al timone per molto. Parliamo di 145 milioni di persone, il paese più esteso del mondo, pieno di materie prime di ogni genere ed importante mercato per i nostri prodotti. Una nazione di grande cultura che forse soffre di non aver partecipato né al Rinascimento né alla Riforma protestante, due elementi di grande progresso ed emancipazione in Europa centrale ed occidentale. Pensare di isolare la Russia nel lungo periodo sarebbe certamente controproducente e probabilmente impossibile, soprattutto per l'Europa. 

Dal lato economico, rinunciare alle materie prime russe sarebbe molto difficile. Il Financial Times si chiede se l'Europa si può svezzare dal gas russo e conclude: "With the contents of the EU plans spanning from plausible to wildly unrealistic, many energy experts warn that painful last resorts — energy rationing and blackouts this winter — are a near inevitability if Europe is truly serious about kicking its Russian gas habit." 

E comunque un taglio, letterale, dei gasdotti russi, non farebbe che mettere l'Europa nelle mani di altri fornitori non necessariamente più affidabili. Mentre sviluppiamo le fonti rinnovabili e ripensiamo alle centrali nucleari, cautela vorrebbe che facessimo attenzione a tagliare del tutto con la Russia. Persino Janet Yellen, ministra del Tesoro di Biden, ha dichiarato, sempre al Financial Times, che “Medium term, Europe clearly needs to reduce its dependence on Russia with respect to energy, but we need to be careful when we think about a complete European ban on say, oil imports.”

Rinunciare al mercato russo avrebbe anche un effetto economico recessivo, visto che la Russia è uno sbocco significativo per i prodotti europei. E poi rischieremmo di alienare più di quanto sia già avvenuto non tanto il regime, quanto il popolo russo.  Già nei decenni passati l'ostilità verso la Russia (in parte reale, in parte amplificata dal regime di Mosca) ha fatto scemare l'entusiasmo che i russi avevano per l'occidente subito dopo la dissoluzione dell'URSS. Le conseguenze di ciò difficilmente gioverebbero all'occidente, ed in particolare all'Europa, anche nel dopo-Putin. Sarebbe un paradosso se una Russia più democratica diventasse allo stesso tempo più anti-europea.

Dal lato politico, se guardiamo all'insegnamento della storia, pensiamo alla Germania, sconfitta in due guerre mondiali: dopo la prima fu umiliata, bistrattata, vilipesa, soprattutto isolata, e si crearono le condizioni per l'insorgere del nazismo. Dopo la seconda fu sì punita e addirittura divisa in due ma subito riammessa nel consesso dei paesi europei ed occidentali, basti ricordare che la Germania Ovest fu membro fondatore della prima Comunità Europea (Carbone e Acciaio) nel 1950, solo 5 anni dopo la sconfitta di Hitler, e dopo altri 4 anni fu ammessa nella NATO. Anche la Germania Est, occupata da 22 divisioni dell'Armata Rossa, fu inserita dai sovietici nel contesto del Patto di Varsavia e del Comecon. Credo bisogni pensare sin da oggi non tanto se, ma come integrare la futura Russia in un contesto di cooperazione europea ed internazionale.

Se vogliamo andare ancora un po’ più indietro nel tempo, pensiamo alla Francia post-napoleonica: dopo Waterloo, una volta neutralizzato l'aggressivo dittatore a Sant'Elena, la Francia fu subito riammessa nel concerto delle nazioni e partecipò al Congresso di Vienna del 1815, invitata da Metternich gli altri vincitori, e contribuì a creare un nuovo ordine in Europa che assicurò, più o meno, un secolo di pace. Speriamo che in Russia emerga un nuovo Talleyrand: prima sacerdote, poi rivoluzionario, poi braccio destro di Napoleone ed infine ministro della restaurazione. Non un campione di coerenza ma servì a reintegrare la Francia in Europa.

Bisogna poi tener conto della situazione globale. Bismarck diceva che, quando hai due avversari, le tue relazioni con ciascuno non devono essere peggiori di quelle che essi hanno tra di loro. Semplice aritmetica politica. Oggi bisogna tener conto della Cina, e sempre di più dell'India. Nixon (abilmente guidato da Kissinger) lo aveva capito bene, ed era andato da Mao a riallacciare rapporti, nonostante i due fossero politicamente agli antipodi e Mao si fosse macchiato di crimini orrendi. E allo stesso tempo Nixon e Kissinger negoziavano la distensione con i sovietici, sul disarmo e sul commercio, e mandarono persino i primi astronauti insieme nello spazio in una storica missione congiunta

L'America di oggi non applica l'insegnamento di Bismarck e neanche segue l'esempio di Nixon. Da trent'anni, forse nel tentativo di rimanere l'unica superpotenza del mondo, come lo è effettivamente stata per un breve periodo dopo la guerra fredda,  fa pressione contemporaneamente sulla Russia e Cina, con il risultato di spingerle l'una nella braccia dell'altra. Londra seguirà Washington, come sempre fa, ma l'Unione Europea deve fare attenzione. Come dicevo sopra, il fatto di essere divisi ci indebolisce, verso russi e cinesi ma anche nel negoziare una posizione comune con gli americani. Washington non prende sul serio Bruxelles perché, come disse Kissinger decenni fa, "se voglio parlare con l'Europa, quale numero di telefono devo chiamare?" (Il modesto Borrel, che adornato dal pomposo titolo di Alto Rappresentante della UE per la Politica  Estera, non ha alcuna influenza, per non parlare di potere.)

Sarebbe un errore colossale continuare ad aiutare il consolidamento di un asse tra Mosca e Pechino. E per evitare che questo accada bisognerà fare qualche compromesso con entrambi, pur mantenendo il punto sulle questioni vitali (sovranità ucraina, Taiwan)  ed evitare di intraprendere una controproducente quanto futile campagna di isolamento contro di essi. Ed allo stesso tempo bisognerà coltivare con assiduità le relazioni con l'India, un paese in grande crescita economica e demografica, che in più è anche democratico ma che certamente non sarà mai disposto a seguire pedissequamente l'occidente.

02 March 2022

Sulle sanzioni contro la Russia / sanctions against Russia

ENGLISH TEXT BELOW

Avendo escluso un conflitto diretto con la Russia per difendere l'Ucraina, i paesi occidentali hanno concentrato la loro azione ritorsiva su sanzioni di vario tipo. Prima di tutto sanzioni economiche, mirate ai beni dei massimi dirigenti russi, degli oligarchi che li sostengono e dei politici che ne avallano le decisioni. Le sanzioni già messe in atto, e quelle proposte, sono pesanti, toccano il commercio, la finanza, la ricchezza personale di tanti sostenitori di Putin, la loro libertà di viaggiare ecc. Il loro impatto è già notevolissimo sui destinatari e lo sarà ancora di più nei mesi a venire. Ci sarà anche un impatto sui paesi che le impongono, ma che sono pronti a sopportare il prezzo, almeno fino ad un certo punto.

Infatti, ad oggi, è escluso dalle sanzioni il settore energetico, che costituisce una delle due fonti principali di entrata per il commercio internazionale della Russia. (L'altra sono le armi che, con qualche eccezione - vedi sistemi antiaerei russi comprati dalla Turchia - comunque andavano verso altre parti del mondo: Cina e India in primis, e non saranno sanzionate.)  

Immagino pochi tra i miei lettori abbiamo mai comprato cacciabombardieri o artiglieria pesante russi, anche se sono di ottima qualità. A parte il gas ed il petrolio che consumiamo tutti i giorni, alzi la mano chi ha mai comprato qualcosa con su scritto MADE IN RUSSIA. Personalmente l'unica cosa che mi è capitato di acquistare sono pinoli sbucciati della Siberia. Ottimi peraltro, li uso tutti i giorni nell'insalata. Non so se i pinoli saranno oggetto di sanzione. E comunque ci sono ottimi pinoli italiani, anche se molto più cari, o cinesi. Dunque vedremo quale sarà l'impatto reale sull'economia russa.

Certo, il blocco del North Stream 2 da parte della Germania pesa. E pesa oggi anche la demonizzazione ideologica delle centrali nucleari e dei rigassificatori, in nome di un ambientalismo non supportato dalla scienza. Gli americani sono autosufficienti, ma svariati paesi europei forse pagheranno, letteralmente, con costi maggiori, la miopia di non aver diversificato sufficientemente le fonti energetiche. Più al caldo di tutti starà la Francia con le sue 57 centrali nucleari. Ma questo è un altro discorso.

La domanda principale da porsi è: qual'è lo scopo delle sanzioni economiche?

Se lo scopo è punire Putin, resta da vedere se questo avverrà. Potrebbe accadere il contrario, il despota del Cremlino potrebbe apparire la vittima della plutocrazia occidentale agli occhi del suo popolo. 

Punire gli oligarchi, bloccandogli i conti correnti e gli investimenti, invece può funzionare, e siccome costoro non sono ben visti nella società russa magari l'occidente ci guadagna anche qualche punto di popolarità. Ma gli oligarchi non hanno molto potere su Putin per quanto sia dato di vedere.

Punire i politici, i membri della Duma e del Senato, i vertici militari e diplomatici può essere più utile a fomentare un dissenso ai vertici e facilitare, chissà, l'emergenza di un'alternativa. Difficile fare previsioni.

Delle sanzioni soffrirà sicuramente la popolazione russa in senso lato, e si può sperare che questo contribuisca alla sua emancipazione politica.

Però se con le sanzioni pensiamo di ottenere un cambiamento della politica estera e della grande strategia della Russia credo non dobbiamo farci illusioni. Mi auguro veramente di sbagliarmi, e nel clima politico degli ultimi giorni le sanzioni sono praticamente inevitabili. Ma se guardiamo alla storia è difficile trovare casi in cui le sanzioni abbiano fatto desistere un aggressore.

In tempi moderni le prime sanzioni furono applicate dalla Società delle Nazioni contro l'Italia a seguito dell'invasione dell'Etiopia. Risultato? Gli italiani sono restati in Etiopia fino alla guerra mondiale ed il regime fascista raggiunse l'apice della sua popolarità. Sanzioni contro il Giappone alla fine degli anni trenta? Risultato fu Pearl Harbor, non la ritirata dell'imperialismo nipponico. 

Dalla fine della seconda guerra mondiale le sanzioni economiche sono state applicate contro Cuba, Corea del Nord, Iran, Iraq, Sud Africa,  Zimbabwe, Venezuela, Unione Sovietica, Cina, Birmania, Siria, Serbia, Argentina (al tempo della dittatura militare) tanto per citare alcuni dei principali esempi più facili da ricordare. In nessuno di questi casi hanno prodotto un cambiamento di politica, interna o estera. Hanno prodotto povertà nei paesi destinatari questo sì, e hanno fatto perdere occasioni economiche ai paesi che le hanno imposte. Spero vivamente che questa volta sia diverso, soprattutto se si andrà a toccare il settore energetico, ma ho qualche dubbio.

In questi giorni si sono scatenate poi sanzioni di altro tipo, contro artisti e sportivi russi. Se lo scopo è dare un segnale, certamente il risultato c'è, anche se ne soffriranno le competizioni sportive e i festival musicali. Ma ancora una volta, se pensiamo che questo faccia cambiare comportamento a Putin, non ci facciamo illusioni. In passato, ricordiamo il boicottaggio di varie olimpiadi da parte di blocchi di paesi contrapposti, quale fu il risultato in termini di cambiamento politico? Nulla. 

Per gli artisti il discorso è ancora più difficile: in passato danzatori e musicisti sovietici riempivano le sale europee ed americane, anche ai tempi di Brezhnev e Stalin, ai tempi dei gulag dove morivano in milioni, ogni tanto qualcuno chiedeva asilo politico ma la maggior parte faceva arte e basta. Chiediamoci perché oggi debba essere diverso. 

A meno che, come nel caso del direttore d'orchestra Valery Gergiev, che appoggia apertamente l'invasione della Crimea dal 2014, l'artista non usi la sua piattaforma di popolarità per prendere posizione politica, allora è lui a violare la separazione tra arte e politica e questo non dovrebbe essere ammissibile mai.

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Having ruled out a direct conflict with Russia to defend Ukraine, Western countries have focused their retaliatory action on sanctions of various kinds. First of all, economic sanctions, aimed at the assets of the Russian top leaders, the oligarchs who support them and the politicians who endorse their decisions. Sanctions already implemented, and those proposed, are massive, they affect trade, finance, the personal wealth of many Putin supporters, their freedom to travel, etc. Their impact is already enormous on their targets and will be even more so in the months to come. There will also be an impact on countries that impose them, so they'd better be are ready to bear the price.

To date, the energy sector, which constitutes one of the two main sources of income for Russia's international trade, is excluded from the sanctions. (The other is weapons which, with some exceptions - see Russian anti-aircraft systems bought by Turkey - still go to other parts of the world: China and India in the first place, and will not be sanctioned.)

I imagine few of my readers have ever bought Russian fighter-bombers or heavy artillery, even if they are of excellent quality. Apart from the gas and oil we consume every day, raise your hand if you have ever bought something that says MADE IN RUSSIA on it. Personally the only thing I happened to buy are peeled pine nuts from Siberia. Excellent as they are, I use them every day in the salad, I doubt they contribute much to Russian foreign currency earnings. I don't know if pine nuts will be sanctioned. And in any case, there are excellent Italian pine nuts, even if much more expensive, or Chinese. So we will see what the real impact on the Russian economy will be.

Of course, Germany's blocking of North Stream 2 weighs heavily, on both sides of the pipeline. And so does the ideological demonization of nuclear power and regasification plants in the name of an environmentalism not supported by science. Americans are self-sufficient, but several European countries will perhaps pay, literally, with higher costs, for the myopia of not having sufficiently diversified their energy sources. France will do best with its 57 nuclear power plants. But that's another story.

The main question to ask is: what is the purpose of economic sanctions?

If the aim is to punish Putin, it remains to be seen whether this will happen. The opposite could come to pass: the Kremlin despot could appear the victim of the Western plutocracy and gain support in the eyes of his people.

Punishing the oligarchs, blocking their accounts and investments, on the other hand, can work, and since they are generally not well regarded in Russian society, perhaps the West also gains some points of popularity. But the oligarchs don't have much power over Putin as far as we can see; he has power over them.

Punishing politicians, members of the Duma and the Senate, military and diplomatic leaders and most importantly the leaders of the FSB (successor to the KGB) who are the inner sanctum of the Putin power structure, can be more useful in fomenting dissent at the top and facilitating, who knows, the emergence of an alternative. There are  Russian diplomats, soldiers and diplomats who are serious professionals and seek to forster the interests of their country in the XXI century instead of plunging into hazardous international gambles that smell of nostalgic XIX century imperialism. Difficult to make predictions.

Sanctions will certainly make the Russian population suffer in a broad sense, and we can hope that this will contribute to its political emancipation. Could there be perhaps another colored revolution in Russia?

Can achieve a change in Russia's foreign policy and grand strategy through sanctions? I don't think we should be under any illusions. I really hope I'm wrong, and in the political climate of the last few days, sanctions are practically inevitable. But if we look at history, it is difficult to find cases in which sanctions have made an attacker give up.

In modern times the first sanctions were applied by the League of Nations against Italy following the invasion of Ethiopia. Result? The Italians remained in Ethiopia until the World War and the fascist regime reached the peak of its popularity. Sanctions against Japan in the late 1930s? The result was Pearl Harbor, not the retreat of Japanese imperialism.

Since the end of the Second World War, economic sanctions have been applied against Cuba, North Korea, Iran, Iraq, South Africa, Zimbabwe, Venezuela, the Soviet Union, China, Myanmar, Syria, Serbia, Argentina (at the time of the military dictatorship), and Russia itself, to name a few of the main examples that come to mind. In none of these cases did they produce a change in policy, domestic or foreign. They have produced poverty in the recipient countries, yes, and have made those that imposed them lose economic opportunities. I sincerely hope this time will be different, given the unprecedented scale of sanctions. There might be a chance that they will work if they are expanded to touch the energy sector, but I have some doubts.

In recent days, sanctions of another type have been unleashed against Russian artists and sportsmen. If the aim is to give a visible political signal, certainly the result is there, even if sports competitions and music festivals will suffer. But again, if we think that this changes Putin's behavior, we are daydreaming. In the past, what was the result in terms of political change of the repeated boycott of the Olympics by opposing blocks of countries? Nothing.

As far as artists are concerned, the matter is even more difficult: in the past Soviet dancers and musicians filled the European and American halls, even in the times of Brezhnev and Stalin, in the times of the gulags where millions died, every now and then someone asked for political asylum but most he just made art. Let us ask ourselves why it should be different today.

Unless, as in the case of conductor Valery Gergiev, who has openly supported the invasion of Crimea since 2014, the artist uses his popularity platform to take a political stand, then he is the one who violates the separation of art and politics and this should never be allowed.

28 February 2022

Considerazioni sull'aggressione russa all'Ucraina / Some considerations on the Russian invasion of Ukraine

ENGLISH TEXT BELOW

Premetto, se ce ne fosse bisogno, che l'invasione russa non si giustifica, senza se e senza ma. Putin pagherà perché non ha capito la lezione di Napoleone o di Hitler: non si può vincere contro tutto il mondo. Ci sono tanti russi ragionevoli intorno a lui, ci sono sicuramente vari Stauffenberg o von Moltke, stiamo a vedere. Il dubbio traspariva nei video delle riunioni del vertice quando il capo chiedeva a tutti di annuire. Resta da capire il perché di una mossa così azzardata, ma come diceva Churchill la Russia è un enigma dentro un indovinello incartato in un mistero.

Quando lavoravo alla NATO, i rapporti con l'Ucraina sono stati per oltre 7 anni la mia principale occupazione. Ci sono stato decine di volte, anche nel Donbass, a Leopoli, in Crimea, a Kharkiv. Al di là dell'impegno professionale, mi ci ero affezionato. Per questo i fatti di questi giorni mi addolorano particolarmente e vorrei condividere qualche considerazione che mi passa per la testa. 

Fui incaricato, sulla base di proposte dei vari paesi membri, di stilare la "Carta" dei rapporti NATO-Ucraina, ancora in vigore. In essa, la NATO sostiene l'integrità territoriale dell'Ucraina, ma è un sostegno "politicamente" e non "legalmente" vincolante. Tradotto in italiano: se qualcuno viola i confini ucraini noi NATO valuteremo di caso in caso il da farsi. Anche quando l'Ucraina aveva accettato la rimozione delle testate nucleari dal suo territorio le era stata promessa garanzia di sicurezza e inviolabilità da USA, Russia e Regno Unito (Francia e Cina si erano defilate, forse saggiamente). Promesse, promesse...

Su una cosa sono d'accordo con John Mearsheimer e altri: in parte, Putin è un prodotto dell'occidente. L'occidente che ha umiliato la Russia di Eltsin, quando era in ginocchio. Gli USA illusi che il mondo unipolare risultato della caduta del muro di Berlino fosse un nuovo equilibrio e non una transizione. La NATO che, contrariamente a quanto promesso a Gorbachev al momento dell'unificazione della Germania, si allarga fino ai confini russi. Qualcuno aveva anche parlato di invitare la Russia stessa nella NATO, ma alla cosa non fu dato seguito. 

Invece nel 2008, al vertice di Bucarest, si dichiara, nero su bianco, che Ucraina e Georgia entreranno nella NATO. Poi però non se ne fa nulla, la cosa peggiore: provocare la Russia senza però offrire garanzie ai due paesi interessati. Fino ad allora, dai tempi di Gorbachev e Reagan, la Russia non aveva assunto alcun atteggiamento ostile, dopo di allora le cose sono precipitate, a cominciare dall'invasione di Abkhazia e Ossezia nel 2008, pochi mesi dopo Bucarest.

Non entro qui nella questione di se e fino a che punto l'allargamento della NATO sia stato una buona idea. Ma tante voci autorevoli si erano espresse contro. Ne cito una, quella di George Kennan, l'architetto del "contenimento" dell'Unione Sovietica dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1997, quando la NATO decise di mettere in atto il primo allargamento invitando Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria ad accedere al trattato, Kennan scrisse un articolo intitolato "Un Errore Fatidico" ("fateful" in inglese, si potrebbe tradurre come "fatale"), in cui scriveva "Ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militariste nell'opinione pubblica russa; abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; riporti l'atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est-ovest e spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento."

Nel 2014 il governo di Yanukovich rinuncia ad un accordo già finalizzato con la UE e accetta invece soldi russi. La reazione porta ad una rivoluzione, ad un colpo di stato, e Yanukovich scappa in Russia. Pochi mesi dopo Putin invade la Crimea, dove i russi sono accolti con i fiori, gli abitanti della penisola non si sentono ucraini. Un'ulteriore dimostrazione che l'Ucraina ha due anime: una filo-russa ed una filo-europea, e bisogna considerarle entrambe, non si può giocare ad asso pigliatutto. Adesso forse è più difficile. E comunque non si può premiare l'aggressione. Però paradossalmente potrebbe essere più facile: anche tanti cittadini ucraini di etnia russa non vorranno stare sotto Putin.

L'unica strada che resta aperta, che non si sarebbe mai dovuta chiudere, è quella del compromesso tra le due anime del paese. Decentralizzazione amministrativa, uso della lingua russa nel Donbass e in Crimea. Sul piano internazionale, la finlandizzazione resta una soluzione privilegiata: appartenenza alla UE ma non alla NATO. E comunque la Finlandia (come l'Austria e la Svezia, altri due neutrali) ha ottimi rapporti con la NATO e stretta collaborazione militare. Ogni altra soluzione porterà a perpetuare il conflitto.

ENGLISH TEXT

I would like to state upfront, that the Russian invasion is not justified, without ifs and buts. Putin will pay because he did not understand the lesson of Napoleon or Hitler: you cannot win against the whole world. There are many reasonable Russians around him, there are certainly several Stauffenbergs or von Moltke, let's see. The recent videos of the Security Council meetings when the boss asked everyone to nod seem to indicate his top brass is not too happy. The reason for such a risky move remains to be understood, but as Churchill said, Russia is a riddle, wrapped in a mystery, inside an enigma.

When I was working at NATO, relations with Ukraine were my main occupation for over 7 years. I've been there dozens of times, including in Donbass, Lviv, Crimea, Kharkiv. Beyond the professional commitment, I grew fond of the country and its people. This is why the events of these days are particularly painful for me.

On the basis of proposals from the various member countries, I was charged with drawing up the "Charter" of NATO-Ukraine relations, which is still in force. In it, NATO supports Ukraine's territorial integrity, but it is "politically" and not "legally" binding support. Translated into English: if someone violates Ukrainian borders, we NATO will evaluate on a case-by-case basis what to do. Even when Ukraine accepted the removal of nuclear warheads from its territory, it was given a "politically binding" guarantee of safety and inviolability from the US, Russia and the UK (France and China had withdrawn, perhaps wisely). Promises, promises ...

On one thing I agree with John Mearsheimer and others: in part, Putin is a product of the West. The West that humiliated Yeltsin's Russia when he was on his knees. The US deluded that the unipolar world resulting from the fall of the Berlin Wall was a new balance and not a transition. NATO which, contrary to what Gorbachev promised at the time of the unification of Germany, is expanding to the Russian borders. Someone had even talked about inviting Russia itself to NATO, but this was not followed up.

Instead, in 2008, at the Bucharest summit, it was declared, in black and white, that Ukraine and Georgia would join NATO. But then nothing was done about it, the worst outcome of all: provoking Russia without, however, offering guarantees to the two countries concerned. Until then, since the days of Gorbachev and Reagan, Russia had not assumed any hostile attitude, since then things have precipitated, starting with the invasion of Abkhazia and Ossetia in 2008, a few months after Bucharest.

I won't get into the merits of NATO enlargement here, whether and up to which point it was a good idea. I think it was not, and many voices far more authoritative than mine agree. George Kennan, the architect of the containment of the USSR after the second world war. In 1997, when NATO decided to enact the first wave of enlargement to Poland, the Czech Republic and Hungary, Kennan wrote an article titled "A Fateful Error" in which he wrote "Such a decision may be expected to inflame the nationalistic, anti-Western and militaristic tendencies in Russian opinion; to have an adverse effect on the development of Russian democracy; to restore the atmosphere of the cold war to East-West relations, and to impel Russian foreign policy in directions decidedly not to our liking."

In 2014, Yanukovych's government renounced an agreement already finalized with the EU and accepted Russian money instead. The reaction lead to a revolution, a coup, and Yanukovych escaped to Russia. A few months later Putin invaded Crimea, where the Russians were greeted with flowers, the inhabitants of the peninsula do not feel Ukrainians. A further demonstration that Ukraine has two souls: a pro-Russian and a pro-European one, and we must consider both of them, you can't have it all. Now perhaps it is more difficult. And in any case, aggression cannot be rewarded. But paradoxically it could be easier: even many Ukrainian citizens of Russian ethnicity will not want to be under Putin.

The only road that remains open, which should never have been closed, is that of compromise between the two souls of the country. Administrative decentralization, use of the Russian language in the Donbass and Crimea. On the international level, finlandisation remains a privileged solution: Ukraine in the EU but not in NATO. And in any case Finland (like Austria and Sweden, two other neutrals) has excellent relations with NATO and close military cooperation. Any other solution will lead to perpetuating the conflict.

19 August 2020

FIlm review: Coco Chanel & Igor Stravinsky (2009) by Jan Kounen, ****


Synopsys

In 1913 the first performance of the ballet “Le sacre du printemps” took place in Paris. The composer, Igor Stravinsky, is whistled for his radically new music. But in the audience there is a woman who is intoxicated by the dissonant rhythms and feels that this music is just as groundbreaking as her fashion creations: Coco Chanel. 

Seven years passed before the choreographer Sergej Diagilew introduced Coco to Igor Stravinsky, who had since fled Russia to Paris. Coco Chanel invites the penniless composer to live with his lung-sick wife and children in their luxurious villa in Garches and to revisit his spring sacrifice there while she creates the first synthetic perfume with Chanel No. 5. The novel is apparently based on a true story: Coco Chanel and Igor Stravinsky actually had an affair.


Review

A captivating story of two icons of the XX century, coming from two entirely different worlds (fashion and music) but sharing a revolutionary approach to
their work. Strawinsky owes his professional survival to a woman who almost destroys his family.

Book  
 Film

16 August 2017

Prigioni, sommergibili e pentole di ferro nei dintorni di Dalian

Oggi il nostro amico Dong ci porta in giro per i dintorni di Dalian, andremo a visitare due siti molto speciali, inusuali per un turista: una prigione ed una base della marina militare.

La prigione di Lushan è un sito intriso di storia, un luogo triste ma che deve essere visitato. Non tanto per l'edificio in sé, che è insignificante dal punto di vista architettonico. E neanche per quella che è stata in passato la sua funzione. Ma una visita fornisce strumenti essenziali per capire il punto di vista cinese nei confronti dei due paesi vicini, Russia e Giappone, che hanno gestito la prigione oltre un secolo fa. E, più generalmente, la determinazione cinese a non accettare mai più di essere sottomessi, per non parlare di colonizzati, da potenze straniere che si erano approfittate della debolezza dell'ultimo impero Qing.

Infatti nell'edificio, oggi museo, impariamo come la prigione sia stata creata dai russi, che vennero qui con la forza ai tempi dello zar Nicola II, e ci imprigionavano i cinesi. Poi vennero i giapponesi, che cacciarono via i russi ma continuarono ad imprigionare cinesi. Si visitalo le lugubri celle, si impara degli strumenti di tortura.

Finita la visita ci fermiamo in una farmacia, ho un po’ di mal di testa e vorrei un'aspirina. La farmacia è pulita, ben organizzata e con alcuni cartelli in inglese che spiegano le medicine esposte sugli scaffali. Le medicine cinesi tradizionale e quelle che loro chiamano "moderne" oppure "occidentali" (che vuol dire sviluppate con il metodo scientifico) sono in reparti diversi del negozio. La Cina non solo ha accettato la medicina scientifica, ma contribuisce anche alla ricerca con i suoi modernissimi laboratori. Però resta diffusa la fede nelle medicine tradizionali, erbe ed agopuntura, e tanti cinesi, penso la maggioranza, si affidano all'una e all'altra.

Da quello che mi raccontano amici e parenti i cinesi negli ultimi anni usano troppe medicine. Un motivo potrebbe essere che i medici guadagnano una commissione ogni volta che scrivono una ricetta, quindi hanno un incentivo a prescrivere medicine (cinesi o "moderne") in eccesso rispetto alle reali necessità. 

Dati i miei trascorsi di analista militare e funzionario della NATO, la visita successiva è di grande interesse per me. Una base/museo della marina militare cinese. Il pezzo forte è un sommergibile, ormeggiato ad una banchina, che si può visitare pagando un biglietto. 

L'imbarcazione è stata costruita nel 1982 e solo recentemente radiata dai registri della marina per continuare la sua carriera come museo galleggiante. C'è una lunga fila per entrare, gira tutto intorno al mezzo che sta ormeggiato in una piccola darsena. Pare sia difficile avere i biglietti per oggi, ma il nostro tassista in qualche modo ci dice che può farci entrare, ed anche ad un prezzo scontato: 150 Rmb invece dei 180 del biglietto. Come farà? Però, ci avverte, non avremo un vero e proprio biglietto, di carta, da portare via come souvenir. Paghiamo i 150 Rmb ed abbiamo accesso alla fila. Ho pensato che probabilmente il tassista è amico del controllore dei biglietti, e si sono smezzati i nostri soldi. Non lo posso dire con certezza, so però che dopo due minuti eravamo in fila con tutti gli altri che avevano comprato il biglietto regolare. Va bene così, mai fare troppe domande.

Dopo una mezz'ora di fila, sotto un tendone che girava intorno al molo come un serpentone, salimmo a bordo tramite una piccola passerella posta a prua. Quindi seguì una camminata per tutta la lunghezza del mezzo, per uscire da una porta a poppa.

Potemmo ammirare i tubi di lancio dei siluri, le cuccette dei marinai, e la sala macchine. Interessante notare come, affianco alla cabina del comandante, indicata da una targhetta di ottone, ce ne fosse un'altra, la cui targhetta leggeva, in inglese e cinese: "Commissario Politico". 

Conferma di quello che già sapevo e che cioè in tutte le organizzazioni cinesi, comprese le strutture militari, la gerarchia di comando è sempre affiancata da quella del partito, cui spetta sempre l'ultima parola.

Usciti dal sigaro di ferro siamo indirizzati ad una parte del museo dotata di sistemi audiovisivi. Il più interessante è un simulatore. Ci siamo in circa 30 persone, in maggioranza giovanissimi, nello spazio volutamente angusto, dato che deve simulare come ci si sentirebbe dentro il ponte di comando di sommergibile. Si spengono le luci e negli "oblò" del sommergibile, che son tutto intorno a noi, si accendono le immagini degli schermi ad alta definizione. Parte il filmino...

Il sommergibile molla gli ormeggi e si avvia, in emersione, tra il tripudio della folla che saluta lungo la banchina, verso l'uscita del porto. A questo punto si immerge e nei monitor appaiono sfondi blu, pescecani, relitti di navi. Siamo in immersione.


Passa un minuto, forse due, ed il sommergibile risale a quota periscopio. Nei monitori si vede l’immagine della superficie del mare e poi, in lontananza, i profili di due piccole navi bianchissime con la bandiera giapponese e una scritta nera a caratteri cubitali sulla fiancata "JAPAN COAST GUARD". Chiaramente si sta facento riferimento alla contesa sino-nipponica sulle isole che i cinesi chiamano ... e i giapponesi .... Le isole, in realtà poco più che scogli, e completamente disabitate, 

Parte il video: il comandante del sommergibile cinese impartisce l'ordine di lancio dei siluri e la nave nipponica è prontamente affondata. Il sommergibile fa dietro front e torna in porto dove viene nuovamente accolto dal tripudio della folla fino a che... si riaccendono le luci e noi 30 spettatori usciamo per far posto al gruppo successivo.

Ho trovato questa esperienza istruttiva, non tanto per la dinamica degli eventi, prevedibile e banale, ma per capire cosa viene insegnato ai ragazzi cinesi sul Giappone. Giusto o sbagliato, il vicino del sol levante viene presentato come un nemico. O almeno come un potenziale nemico che viene facilmente sconfitto. Ho qualche dubbio sull'opportunità di questo tipo di approccio pedagogico. Mi chiedo cosa fanno i giapponesi con i loro simulatori.

Ci sarebbe anche un'altra sezione del museo, con molti cannoni ci dicono, ma possono entrare solo i cinesi, gli stranieri non sono ammessi. Peccato, mi sarebbe piaciuto. Il lato positivo di questa rinuncia è che andiamo finalmente a mangiare, Lifang ed io abbiamo una fame da lupi!

Il tardo pranzo è al ristorante Iron Pot Stew, Stufato nella pentola di ferro. Il nome deriva dal fatto che le pietanze sono servite, per l'appunto, in pentole di ferro, anche se c'è molto di più nel menù che stufato.

Al centro del tavolo rotondo c'è un grande buco, sul quale  si sistemano le pentole di ferro. Sotto carbonella accesa per cucinare e tenere in caldo il cibo. Cominciamo con pelle di pesce croccante, seguita da spezzatino di oca. Patate un po’ dovunque e spaghetti di farina di fagiolo. Quindi fagiolini verdi secchi e una specie di polenta. Altre carni e verdure che mi sono dimenticato di annotare completano il pantagruelico pasto. Sapori decisi ma non piccanti come al sud della Cina. 

Side car militare

L'ultima tappa dell'intensa giornata è al villaggio storico di Chuan Guan Folk. In Cina ce ne sono tanti, villaggi tenuti com'erano prima della modernizzazione, restaurati e ripuliti per far vedere ai turisti, e anche ai più giovani, com'era la Cina. Molto ben fatto, ci sono case, uffici, mezzi di trasporto, tra cui il mio preferito è un side-car militare dipinto di verde. C'è anche un rick-shaw a trazione umana, con cui mi diverto a scorrazzare un po’ Lifang per le stradine deserte. Siamo i soli visitatori, strano dato che alla prigione ed al sommergibile era pieno di gente.

casa a Chuan Guan village



10 May 2012

Book Review: Russia in Original Photographs (1860-1920), edited by Marvin Lyons, ***

An interesting collections of photographs from pre-Communist Russia. Common people, ethnic minorities, military officers and the imperial family are all depicted here in the decades preceding the October Revolution. One can almost sense the blatant inequalities and an atmosphere of pending tragedy. All pictures are in black and white.

Some great color photos from Tsarist Russia online are visible here.

08 May 2012

Book review: The Romanov Family Album (1982), edited by Robert Massie, ****


Review

A great book which will make you feel you are living in the imperial family of pre-revolutionary Russia. The photos are B&W, and come from the collection of a family friend of the Romanovs who took them to the United States.

Not all are good quality, the book was printed in 1982 and perhaps a better job could be done with new technology  thirty years on in digitalizing the old originals. However the grain of the pics contributes to recreate the atmosphere of the time.






















The text accompanying the pictures presents a benevolent image of the imperial family. Too benevolent perhaps. But this is not the purpose of this book, which is about the photographs, and not about political interpretation of the Tsar's rule.


Buy your book here

24 December 2011

Book Review: Inferno, by James Nachtwey, *****

Synopsis

A document of war and strife during the 1990s, this volume of photographs by the photojournalist James Nachtwey includes dramatic and shocking images of human suffering in Rwanda, Somalia, Romania, Bosnia, Chechnya and India, a well as photographs of the conflict in Kosovo. An essay by the author Luc Sante is included. The book is published to coincide with an exhibition of Nachtwey's work at the International Centre of Photography, New York.


Review

This book is a masterpiece of what I would call "political" photography. Nachtwey is a traveler, big time. He goes to war, or follows war's footsteps, and closes in on his subjects where most others would turn away. He prevails over his own emotions in order to show us the horrors of the world. He feels he has to do it, as he explains in interviews (see DVD below) because if he does not, who will? He is humble, understated and brilliant. The book contains only B&W pictures, is big and heavy and expensive, and it is probably the best photo reportage book you will ever buy. It certainly is for me.






You might want to buy this Oscar nominated DVD, made by Swiss director Christian Frei, who followed Jim Nachtwey and placed a micro cam on his film camera. He is also extensively interviewed and so are many who work with him. I have reviewed this DVD here on this blog.




Vous pouvez aussi acheter l'édition française de ce livre:

30 November 2009

Film Review: Leçon Siberienne (Siberian Lesson) by Wojciech Staron, ****

Synopsis
Malgorzata et Wojciech décident de quitter Varsovie pour aller vivre à 7000 kilomètres, en Sibérie, à côté du lac Baïkal. Magorzata va enseigner le polonais aux descendants de ses compatriotes exilés. Une fois arrivés sur place, ils découvrent une Sibérie irréelle peuplée de personnages extraordinaires. Pendant l'hiver, par -40°, le lac Baïkal gelé est ouvert à la circulation automobile. Les voitures sautent par dessus de grandes brèches dans la glace. Un jour, une fête est organisée par les populations qui vivent sur le lac gelé... C'est une Russie parfois terrible, souvent drôle et toujours surprenante que nous font découvrir ces deux jeunes Polonais dans ce film émouvant qui se transforme peu à peu en journal intime de leur histoire d'amour sibérienne.

FILM IS IN POLISH WITH FRENCH SUBTITLES

Review
A moving story of a Polish couple who spend a year in Siberia amongst Russians of Polish origins who want to rebuild their ties to their ancient homeland. She teaches Polish and he shoots this movie! The couple receives a very warm welcome in the icy tundra and are moved to tears when the time comes to leave Siberia and return to Poland. A great story of the ties that bind these two nations. This is half autobiographic love story and half documentary on the problems of post-Soviet Russia.

That they travel by train adds to the drama of the enormous distance that separates the Poles of Siberia from their ancestral land.

24 April 2007

NECROLOGIO: Boris Eltsin, un gigante del XX secolo

Eltsin intima a Gorbaciov di leggere un documento al Soviet russo
Boris Eltsin è stato, più di chiunque altro, il simbolo della trasformazione della Russia negli ultimi venti anni. Di più: della trasformazione del dibattito ideologico internazionale, con la fine della contrapposizione globale tra mercato e democrazia da una parte e pianificazione e comunismo dall’altra.

Quando arrivò a Mosca nel 1985 per guidare il potentissimo apparato del partito comunista locale, corrotto e fatiscente, ci mise poco a capire che il compito affidatogli da Gorbaciov, attuare la perestrojka (ristrutturazione) nella capitale, era una missione impossibile. Da membro del Politburo, il massimo organo decisionale dell’URSS, cercò invano di convincere i gerontocrati ed i neo-stalinisti che bisognava girare pagina.

01 November 1994

La Nuova Dimensione della Sicurezza in Europa Orientale

Versione originale preparata per il CeMiSS, Novembre 1994

Introduzione

Dopo la fine della Guerra Fredda, la sicurezza dei paesi dell'Europa centrale ed orientale (PECO) e di quelli nati dalla dissoluzione dell'URSS (Nuovi Stati Indipendenti, NSI), è divenuta una conditio sine qua non per la sicurezza dell'Europa intera. Questa interdipendenza in materia di sicurezza non è interamente nuova. Già durante la Guerra Fredda l'Occidente aveva dovuto riconoscere che la propria sicurezza era dipendente da quella dall'altra metà del continente—così come veniva percepita da Mosca. Tutto ciò risultava in non poca ipocrisia: per esempio, l'URSS otteneva la prima "distensione" e l'inaugurazione della CSCE subito dopo aver invaso la Cecoslovacchia nel 1968. Ma durante la Guerra Fredda l'interdipendenza in materia di sicurezza si traduceva in una rigida separazione delle responsabilità geopolitiche, per cui l'Occidente era obbligato ad astenersi dall'interferire nella zona di influenza sovietica, e vice vesa. Oggi, invece, interdipendenza vuol dire farsi parte attiva nella risoluzione delle controversie rimaste pendenti dopo la fine del bipolarismo: a questo l'Occidente è chiamato dalle parti in causa.

Oggi non c'è più l'ostilità di ieri tra Est ed Ovest, ma l'Europa non è affatto "unita e libera" così come George Bush, tra gli altri, l'aveva precipitosamente proclamata già nel 1990. La regione dei PECO continua ad essere frammentata e, lungi dall'essere libera, vede molte sue parti in guerra (o quasi). Paradossalmente, dopo che l'occupazione sovietica e con essa ogni minaccia militare significativa sono scomparse dall'Europa, in Europa orientale la sicurezza non si è rafforzata.

In Europa occidentale, la scomparsa dei massicci spiegamenti sovietici nell'area del Patto di Varsavia (e degli ancora più preoccupanti dispositivi di mobilitazione e di rinforzo), non hanno prodotto tutti i risultati sperati. La minaccia di invasione da Est è sparita, ma la percezione generale di sicurezza non è migliorata. L'Europa, dopo 45 anni, ha rivisto la guerra, e se pure questa è al momento circoscritta (ex-Jugoslavia, Caucaso), il pericolo di una sua conflagrazione è reale, anche se imprevedibile e non facilmente definibile. La conseguenza di questa imprevedibilità e non quantificabilità è che diviene impossibile, nelle democrazie occidentali, mobilizzare l' opinione pubblica affinché sia disposta ad accettare i sacrifici necessari a far fronte alle nuove esigenze di sicurezza. In questo contesto, una continuata analisi delle variabili della sicurezza occidentale legate agli sviluppi dell'ex-mondo comunista è particolarmente auspicabile, sia per sensibilizzare un'opinione pubblica ingiustificatamente apatica e distratta, sia per essere attrezzati a reagire se e quando non sarà più possibile procrastinare.

Nell'ambito geografico dell'Europa post-comunista, le aree di maggiore rischio sono quelle dell'ex-URSS e dei Balcani, mentre la regione mediterranea aggiunge un'ulteriore fonte di incertezza, specialmente per i paesi, come l'Italia, che vi sono contigui. Mentre delle ultime due regioni si occupano altri capitoli in questo studio, alle questioni inerenti alla prima sono dedicate le pagine che seguono. Non ci occuperemo invece dei paesi della cosiddetta area di "Visegrad" (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) sia perché non si registrano in quest'area fonti di pericoli, per quanto remoti, all'Occidente; sia perché è probabile che le relazioni politiche tra questi paesi e le istituzioni dell'Europa occidentale si svilupperanno rapidamente nel prossimo futuro, ed è prevedibile una sempre maggiore integrazione dei primi nelle seconde. 

Discorso diverso per i paesi ex-sovietici, più instabili internamente, più minacciati esternamente e, soprattutto, a cui non si aprono altrettante prospettive di integrazione (al di là di una reintegrazione con la Russia): né economica (con l'Uniione Europea); né politico-militare (con la NATO). Su questi paesi, ed sulla politica della Russia verso di loro, si incentra l'analisi che segue. In primo luogo, si analizzerà il ruolo della CSI in quanto tale. Quindi il delicato rapporto, multilaterale e bilaterale, della Russia verso i paesi che vi fanno parte. Infine, si esaminerà la situazione in Ucraina, che dopo la Russia è sicuramente il paese più rilevante per i destini di tutta la regione ex-sovietica.


Il Ruolo della CSI

Proposta per la prima volta a Minsk il giorno 8 Dicembre 1991, e formalmente creata ad Alma Ata il 20 Dicembre, la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) nasceva ancora prima che l'URSS avesse formalmente cessato di esistere (25 Dicembre, con le dimissioni di Gorbaciov). La sua creazione rifletteva l'esigenza che, nonostante l'euforia dell'indipendenza che si era diffusa tra le repubbliche ex-sovietiche durante l'anno precedente, esse avevano troppo in comune per separarsi così rapidamente e completamente come avrebbero voluto i più facinorosi tra i gruppi nazionalisti (o sedicenti tali) che un po' ovunque risorgevano da sette decenni di repressione.

Lo scopo immediato della CSI era di coordinare le tre maggiori repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia) nella loro transizione all'era post-sovietica. A tre anni di distanza da quella decisione, la CSI si è espansa fino ad includere quasi tutte le repubbliche dell'URSS (tranne le tre baltiche)i, e rimane un importante strumento verso il raggiungimento del suo scopo originario, anche se a condizioni che non sempre sono quelle sperate dai suoi stati membri—per motivi che appariranno chiari nel corso della presente trattazione.

Da quel momento, sono stati conclusi svariati accordi specifici (nel settore della sicurezza, dell'economia, sul piano politico) ed una Carta della CSI è stata firmata nel 1993. Nell'Aprile del 1994 i membri della CSI hanno concordato formalmente un' unione  economica, ma i tempi ed i modi della sua realizzazione rimangono poco chiari, ed è improbabile che essa possa concretizzarsi rapidamente e senza problemi. Per esempio, un programma di unione monetaria tra Russia e Bielorussia ha dovuto essere sospeso a causa di una serie di problemi che erano stati inizialmente sottovalutati: il differenziale inflazionistico troppo elevato tra i due paesi; la difficoltà di individuare un tasso di cambio accetabile alle due parti; la riluttanza delle autorità di Minsk sono a cedere porzioni di sovranità, come la facoltà di battere moneta, alla Russia).

Vari organi consultivi sono stati creati nella CSI (il Consiglio dei Capi di Stato, quello dei capi di governo, dei ministri degli esteri e della difesa, dei capi di stato maggiore). Anche se spesso elusi da accordi bilaterali tra la Russia ed i singoli paesi, questi organi rimangono formalmente in carica e svolgono una notevole mole di lavoro

Relazioni politiche ed economiche

La CSI è ben lungi dal divenire una vera alleanza tra stati, come almeno alcuni dei suoi membri devono aver sperato nel divenire indipendenti nel 1991. La Russia continua ad usare la CSI come cornice formale per le relazioni multilaterali, ma sempre più fa uso di accordi bilaterali, che ovviamente non possono essere equilibrati. Questo sistema ricorda piuttosto da vicino i trattati che l'URSS stipulava con i paesi satelliti allo scopo di meglio controllare le attività multilaterali del Patto di Varsavia e del COMECON. Ciononostante, la CSI continua ad essere utilizzata (anche se a volte come poco più di una foglia di fico) per rendere la disparità che sottende questa rete di accordi bilaterali più accettabile da parte del mondo esterno, e principalmente dall'Occidente.

A quest'ultimo scopo, la Russia ha cercato con una certa insistenza, ma finora senza successo, di ottenere il riconoscimento della CSI come organizzazione regionale in base al capitolo VIII della Carta dell'ONU. Questo tentativo continua in ambito alla CSCE, e la CSI presenterà un proprio contributo scritto al prossimo vertice di Budapest del Dicembre 1994. L'Occidente ha finora opposto resistenza a questo riconoscimento, ma è possibile che, se continuerà la tendenza in atto, la comunità internazionale dovrà prendere atto dell'esistenza della CSI, salvo poi, al più, porre pressione (soprattutto sulla Russia) affinché siano rispettati i dettati del diritto internazionale nei rapporti tra gli stati membri.

Lo squilibrio nei rapporti tra Russia e NSI viene dunque mascherato, non senza una dose di pretestuosa e disincantata ingenuità, dietro la facciata della CSI, ma prima degli scontri dell'Ottobre 1993 alcuni parlamentari russi si erano spinti fino a dichiarare candidamente che Mosca avrebbe dovuto dichiarare il proprio equivalente della "dottrina Monroe" americana.ii Al tempo questa linea non fu fatta propria né dal governo né dal presidente Jeltsin; tuttavia, dopo le elezioni del dicembre 1993, ed il rafforzamento delle forze nazionaliste e di destra, Jeltsin è stato costretto a tenere maggior conto di queste posizioni, e le ha anche parzialmente incorporate nei propri discorsi e nella propria politica.

Ovviamente questo predominio russo non è universalmente ben accolto tra i NSI, ma le alternative, per loro, sono difficili da individuare. Alcuni tentativi in questa direzione non hanno sortito l'effetto sperato: per esempio, gli stati dell'Asia centrale hanno cercato di sviluppare un foro alternativo di cooperazione ed integrazione regionale tra di loro (l'Unione dell'Asia Centrale) ma non sono riusciti a concretizzare molti dei loro propositi. Parimenti, alcune repubbliche europee (Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia, Azerbaijan) hanno cercato uno sbocco nel Consiglio di Cooperazione del Mar Nero (sponsorizzato dalla Turchia) e varie ipotesi sono state ventilate di incrementare i contatti con i PECO, soprattutto i paesi baltici e quelli dell'"area di Visegrad". Ma i NSI rimangono strutturalmente dipendenti dalla Russia, e la costruzione di contatti orizzontali richiederebbe molto tempo ed enormi quantità di risorse economiche e tecnologiche, di entrambe le quali non vi è certo abbondanza nella CSI.

Le condizioni economiche nella CSI sono precarie e, in generale, in fase di ulteriore peggioramento. Il consenso degli economisti è che, come si suol dire, le cose debbano "ancora peggiorare prima di poter migliorare". Pil e produzione industriale sono stati colpiti maggiormente dalla crisi post-comunista, mentre la produzione agricola ha sofferto meno (anche se la contabilità in questo caso è meno attendibile) e ben poche stime sui servizi sono disponibili. Lo stato disastrato delle valute della maggior parte dei paesi (al punto che il Rublo russo, le cui difficoltà nella seconda metà del 1994 nei confronti delle valute convertibili sono note, viene considerata valuta pregiata nella CSI) non può che peggiorare le cose. Questa debolezza economica e strutturale ha portato i NSI ad essere piuttosto acquiescenti nei confronti delle prevaricazioni della Russia, anche quando questo ha voluto dire una plateale strumentalizzazione dell'organizzazione dei rapporti in ambito CSI per palesi scopi di interesse nazionale russo.iii

Questa acquiescenza, tuttavia, non è servita ai NSI ad ottenere sostanziali aiuti economici dalla Russia. Per esempio, Mosca continua a mantenere una linea economica piuttosto inflessibile nei confronti dei NSI per quanto concerne il debito valutario e commerciale di questi ultimi. Mosca richiede valuta pregiata, se non addirittura quote azionarie in industrie produttive, come pagamento per gli idrocarburi che fornisce, il cui prezzo è peraltro quasi sempre calcolato in base alle quotazioni del mercato internazionale. Soltanto la politicamente pavida Bielorussia ha ricevuto prestiti significativi (oltre 150 miliardi di rubli, in ulteriore crescita) senza dover per questo ipotecare beni produttivi.

In conclusione, i legami economici nella CSI sono il male minore per i NSI. La loro dipendenza strutturale dalla vecchia infrastruttura sovietica e dai vecchi legami commerciali, e la mancanza di alternative internazionali realistiche, fanno sì che il rinnovo dei legami con la Russia sia il solo modo di sperare nella propria sopravvivenza. Questo pone i NSI in posizione di demandeur, e perciò subordinata. La Russia, da parte sua, è determinata a far pagare questi legami in termini sia politici, sia economici.

Le Forze militari della CSI

Già nel dicembre del 1991 la CSI aveva creato le cosiddette "Forze Armate Comunitarie", poi ratificate nel Trattato di Tashkent del Maggio 1992, che, tra l'altro, divideva tra i paesi della CSI la quota sovietica delle armi convenzionali prevista dal trattato CFE. Il Maresciallo dell'Aviazione Evgeny Shaposhnikov era nominato Comandante in Capo delle Forze Comunitarie. Ma queste ultime erano destinate a rimanere lettera morta. Shaposhnikov fu successivamente trasferito (Giugno 1993) al posto di Segretario del Consiglio di Sicurezza della Russia, e questo pose fine alle pretese della CSI di creare in vero e proprio comando comune: col trasferimento di Shaposhnikov, la Russia aveva da una parte sottolineato che la prima priorità era il rafforzamento delle strutture di difesa nazionali, e dall'altro ribadito che l'autorità di comando della CSI sarebbe stata subordinata a quella di Mosca.

Abbandonati a sé stessi, tutti gli stati della CSI devono affrontare una serio dilemma economico e un'ardua sfida tecnologica per cercare di finanziare e mantenere in efficienza le proprie forze armate. Il percorso sarà in salita e per tutti i NSI (con la possibile eccezione dell'Ucraina, che, date le sue dimensioni economiche e l'avanzato livello industriale raggiunto in era sovietica, ha maggiori margini di manovra) raggiungere il traguardo di forze armate indipendenti effettivamente operative (e non solo, come oggi, in gran parte solo nominali) sarà un'impresa pressoché disperata. Anche in quest'area, è prevedibile che essi dovranno far ricorso, in misura variabile, all'aiuto russo.

Sul piano tecnologico (manutenzione, parti di ricambio, ammodernamento), Mosca troverà probabilmente conveniente estendere ai NSI l'aiuto militare che essi, in alcuni casi loro malgrado, chiederanno. E questo sia perché esso costituirà un impiego redditizio del proprio complesso militare industriale; sia perché è prevedibile che attraverso gli aiuti militari la Russia acquisisca una notevole leva politica nei confronti dei governi dei NSI ricettori. Nel medio periodo, tutto ciò contribuirebbe, di fatto, a ricreare un grande sistema politico-militare, controllato da Mosca, nell'area comprendente più o meno quella dell'ex-URSS—i paesi baltici ne potrebbero restare con tutta probabilità i soli esclusi.

Nell'Aprile del 1994, due anni dopo Tashkent ed un anno dopo lo spostamento di Shaposhnikov al Consiglio di Sicurezza russo, il ministro della difesa russo Pavel Graciov ha perfino esplicitamente riproposto la creazione delle  forze armate della CSI, che, nelle attuali condizioni di squilibrio politico militare a favore della Russia, sarebbero ovviamente dominate da quest'ultima. Questa proposta non è stata fatta propria né dal ministero degli esteri né dal presidente, evidentemente attenti a non offrire pretesti a chi in Occidente rimane sospettoso delle intenzioni imperiali di Mosca.

Tuttavia, Kozyrev ha colto l'occasione di un discorso agli ambasciatori della Russia nei NSI e nei paesi baltici che, "la Russia non si dovrebbe ritirare da quelle regioni che sono state nella sua sfera di interesse per secoli" e (riferendosi alle accuse rivolte alla Russia di non voler ritirare le proprie forze dagli spiegamenti ex-sovietici nell'ex-URSS) "non deve aver paura di usare le parole «presenza militare»".iv Le ultime parole sono ovviamente riferite a chi, in Occidente, ripete che l'indipendenza dei NSI, ivi compresa la loro sovranità territoriale, rimane un cardine della politica dei paesi occidentali verso la Russia.

Alla fine del 1994, le forze armate russe rimangono presenti sul territorio di svariati NSI: due reggimenti aerei in Bielorussia, la 14a armata in Moldova (20.000 effettivi), 12.000 uomini in Tadjikistan, e 28.000 in Turkmenistan, come componente delle "forze armate congiunte" russo-turkmene.v Inoltre, le forze di tutti i paesi della CSI, soprattutto, ma non solo, in Asia Centrale, sono in buona parte "russificate": durante l'era sovietica i gradi più alti erano in gran parte appannaggio di ufficiali russi che poi sono per lo più rimasti al loro posto dopo la scomparsa dell'URSS.

Il Controllo delle Forze Nucleari Sovietiche

La CSI non ha avuto alcun ruolo nel controllo delle forze nucleari ex-sovietiche. I paesi membri si accordarono subito (fine 1991) sul ritiro delle forze nucleari tattiche dai NSI che le ospitavano e sul loro trasferimento in Russia. Il trasferimento fu completato nella primavera del 1992. Per quanto concerne le forze strategiche, al presidente russo, già dalla fine del 1991, veniva riconosciuta l'autorità di controllo "positivo" (cioè di ordinare un lancio), ma a condizione che egli ricevesse l'assenso dei capi di stato di Ucraina, Bielorussia e Kazahstan—i tre paesi che ospitano tali armi strategiche sul proprio territorio—e che "consultasse" tutti gli altri capi di stato o di governo della CSI. Questo, sulla carta, si deve applicare a tutte le armi nucleari ex-sovietiche, e quindi anche a quelle in territorio russo, e non solo a quelle nelle tre repubbliche citate.

Il valore dell'impegno russo a ottenere l'assenso dei tre stati sopra citati è tuttavia poco più che nominale. In realtà, l'accordo CSI dà ai tre stati che ospitano armi strategiche l'autorità teorica di un controllo "negativo" (cioè di influenzare, e persino di porre un veto) sulle decisioni di uso nucleare del presidente russo, ma la loro capacità pratica di farlo è fortemente limitata nel migliore dei casi (Ucraina) e praticamente nulla per Bielorussia e Kazahstan. Nonostante questi paesi abbiano palesato ripetutamente (e alquanto confusamente, specialmente da parte di Kiev) varie pretese di controllo nucleare, nessuno di essi ha mai acquisito una capacità di uso nucleare unilaterale.

Per quanto concerne l'impegno russo a consultare gli altri NSI, questo si deve considerare poco più che un cortese tributo alla loro formale sovranità all'interno della CSI. Non sono mai state concordate specifiche procedure di consultazione nucleare nella CSI, e non sono mai state costruite strutture di comando, controllo e comunicazione tra le varie autorità nazionali a questo scopo. 

Il ruolo della Russia nella CSI

Dall'analisi di cui sopra emerge la facile conclusione che, alla fine del 1994, e con l'acquiescenza della maggior parte dei NSI, la CSI esista soprattutto come strumento per lo spiegamento della potenza—politica, economica e militare—russa. Mosca sta palesemente cercando di ricreare una sfera di influenza che dovrebbe, mutatis mutandis, rimpiazzare il defunto impero sovietico—in una continuità di proiezione di potenza che risale, ovviamente, all'era zarista. La necessità di agire in questo senso costituisce uno dei pochi punti di consenso nazionale in Russia oggi: un recente sondaggio (Maggio 1994) ha indicato che per il 78% dei Russi è "disdicevole" che l'URSS non esista più simile sondaggio nel Giugno 1992 era risultato in una percentuale del 54%. Questo ampio consenso comprende non soltanto la coalizione tra comunisti e nazionalisti, ma molte fasce moderate.vi Culturalmente, ancor più che politicamente, è difficile per i Russi accettare il fatto che la Russia oggi non è più un impero ma uno stato-nazione (anche se vastissimo e fortemente diversificato).

L'Occidente, grazie ai mezzi di informazione che oggi, a differenza di quanto accadeva durante le epoche sovietica e zarista, sono disponibili, può in parte influenzare questo dibattito. Ma se la Russia sarà internazionalmente integrata o isolata dipenderà prima di tutto dalla stessa Russia. Il che vuol dire che sarà di decisiva importanza la lotta che sta nuovamente avendo luogo, ancora una volta, come durante lo zarismo, tra Occidentalisti e nazionalisti pan-Slavisti. Se dovessero prevalere i primi, la Russia si avvierebbe verso scelte orientate all'Europa che sarebbero di beneficio a tutto il continente. Altrimenti, una riaffermazione delle tradizioni autocratiche russe potrebbe facilmente dar corpo ad un sentimento di una Russia assediata, a ciò creerebbe problemi insormontabili per la sua reintegrazione in Europa, con conseguenze destabilizzanti anche per la sicurezza del continente.

Ma c'è una terza possibilità, rappresentata da quella che può essere chiamata la corrente "Eurasiatica" nella politica estera russa. Secondo questo pensiero, la Russia non può far parte dell'Occidente; siccome essa ha anche un importante ruolo in Asia, è destinata ad essere "altro" che l'Occidente, anche se non necessariamente ostile ad esso.vii Questa impostazione denota un netto cambiamento dall'orientamento decisamente pro-Occidentale dell'immediato periodo post-sovietico, quello che era stato da più parti definito il "periodo romantico" delle relazioni tra Occidente e Russia.viii

La corrente che abbiamo definito eurasiatica è una novità nella tradizione della politica estera russa, che si è in passato divisa, grosso modo, tra pan-Slavisti e Occidentalisti. Quest'ultimo gruppo aveva prevalso nell'impostazione della politica estera nell'immediato periodo post-sovietico, ma oggi è in ritirata. I pan-slavisti, che vedono la Russia come intrinsecamente superiore all'Occidente, si stanno rafforzando, ma non hanno ancora riaffermato una chiara supremazia; anzi, se l'uscita di Solzhenitsyn a Mosca nell'Ottobre-Novembre 1994 (dove è stato accolto assai tiepidamente dal pur conservatore Parlamento russo) è indicativa della loro forza relativa, è improbabile che ci riusciranno mai.  

Gli "Eurasiatici" si collocano fra i due gruppi tradizionali, e prendono alcuni elementi da ciascuno. Essi non cercano un rinnovato confronto con l'Occidente, ma sono decisi a riaffermare gli interessi russi almeno nelle regioni più vicine geograficamente e storicamente. Gli Eurasiatici credono che questa politica di difesa degli interessi nazionali sia compatibile con il mantenimento di buone relazioni con l'Occidente. Per dirla con Sergey Karaganov, vice-direttore dell'Istituto per l'Europa dell'Accademia delle Scienze, membro del Consiglio Presidenziale sulla Politica Estera e la Sicurezza, la Russia ha un "ruolo insostituibile e una missione ingrata" da portare a termine nell'ex-URSS.ix

Una presa di posizione molto simile è quella di Evgeny Primakov, un ex-direttore dell'IMEMO (anche questo un Istituto dell'Accademia delle Scienze) oggi divenuto Direttore del Servizio di Informazioni per l'Estero, che sostiene che l'indipendenza per i NSI non ha portato né riforme, né democrazia. Al contrario, ha favorito gli isolazionisti che si oppongono a che la Russia e la CSI assuma un ruolo attivo e costruttivo nella comunità internazionale. Il lettore del rapporto è portato a indurre che, dal punto di vista di Primakov, anche qualcosa meno che la piena indipendenza andrebbe altrettanto bene per i NSI, magari con la Russia "democratica" che mostra loro la via verso le riforme e la democrazia.x

Un alleato naturale per questo modo di vedere il futuro della politica estera russa nella CSI può essere trovato nell'estrema destra nazionalistica e nelle forze armate—i due gruppi sono  in parte sovrapposti. Nelle elezioni del Dicembre 1993, l'estrema destra dei Liberali Democratici di Zhirinovskiy ricevette dai quadri delle forze armate una percentuale di voti sensibilmente maggiore di quella ottenuta a livello nazionale.xi Anche i Comunisti trovano conveniente appoggiare le richieste dei Liberali Democratici in politica estera—questa può essere interpretata come una buona applicazione della classica regola tattica leninista de "un passo avanti, due passi indietro" per far cadere il presidente Jeltsin. Nonostante il rovescio dell'Ottobre 1993, questa improbabile alleanza è divenuta via via più spavalda nei mesi successivi alle elezioni di dicembre. 

In ogni caso, quale delle tre scuole (Occidentalista, pan-Slavista o Euroasiatica) prevalga (ed anche se non prevalesse nessuna, e la Russia continuasse a barcamenarsi, per così dire, in mezzo al guado) l'influenza della Russia nel cosiddetto "vicino estero" continuerà a crescere. Infatti, sia gli Occidentalisti, sia i pan-Slavisti sostengono che "Russia" voglia dire essenzialmente il vecchio impero russo, magari con qualche rinuncia riguardo a vecchie provincie zariste ad ovest (Polonia) e a nord (Finlandia, paesi baltici).

La differenza è che, contrariamente a quanto accadeva con gli stati confinanti con la Germania di Weimar, la maggior parte dei NSI interessati, magari non per libera scelta ma per mancanza di alternative, avvallano l'ascesa della Russia—quando, addirittura, non la incoraggiano. Pertanto, si può affermare che la crescita del potere della Russia nei confronti del "vicino estero" sia una variabile pressoché indipendente nel panorama geopolitico europeo. 

In parte come espressione di questo cambiamento di pressioni al vertice, la manifestazione più palese del crescente peso della Russia  si è venuto manifestando nelle operazioni cosiddette di "mantenimento della pace" (Peacekeeping) della Russia nella CSI. Il Ministro degli Esteri Kozyrev ha dichiarato che la Russia agisce perché le viene chiesto, e lo fa sotto l'ombrello della CSI, che egli vorrebbe essere considerata una legittima organizzazione internazionale. Legittimità che pure viene contestata, ma che non può in nessun caso pretendere di divenire legittimante: quest'ultima prerogativa spetta all'ONU e non alle organizzazione internazionali regionali, se pure tali riconosciute nell'ambito del capitolo VII della Carta.

La visione di Kozyrev è ragionevolmente credibile per quanto concerne l'intervento russo in Tadjikistan: qui, una forza veramente internazionale sta operando con una relativa base relativamente ampia di consenso delle parti. Ma questo non è il caso il altre aree dove la Russia sta conducendo operazioni di "peacekeeping" sotto l'egida della CSI, ed in particolare nel Caucaso. Queste operazioni sono un esempio concreto della mancanza di una vera partecipazione internazionale in operazioni etichettate "CSI". Questa è la principale ragione per cui è difficile per la CSI ottenere il riconoscimento di organizzazione internazionale in base al capitolo VII della Carta dell'ONU.

Una considerazione finale: a prescindere dal grado di legittimazione internazionale che riusciranno ad ottenere, le operazioni di "peacekeeping" russe nella CSI difficilmente potranno essere mantenute ad elevati livelli di impegno militare. Le forze armate russe sono piagate da forti carenze di manutenzione e di risorse di ogni tipo, ivi comprese quelle umane, dovute a diserzioni alla leva che in alcune regioni raggiungono la quasi totalità dei coscritti.xii Se finora gli interventi sono stati coronati da relativo successo, questo è anche dovuto al fatto che essi si sono sviluppati su scala relativamente ridotta; se tali interventi si dovessero moltiplicare, o se qualcuno tra essi dovesse particolarmente complicarsi, le forze ivi impegnate potrebbero incappare in imbarazzanti sconfitte.

Prospettive per il futuro

Alla fine del 1994, tutti i NSI, anche se spesso con riluttanza, e per ragioni diverse, cercano di rafforzare la propria sicurezza attraverso maggiori legami con la Russia. Anche dal punto di vista economico, Mmosca rimane un punto di riferimento obbligato. In alcuni casi, i NSI hanno esplicitamente espresso chiare aspettative a questo riguardo. In altri casi, essi sono stati obbligati a rivolgersi a Mosca dalle circostanze—la crescente pressione politica di Mosca e la mancanza di alternative.

È improbabile, tuttavia, che i NSI dimostreranno gratitudine per i benefici che eventualmente riceveranno. I leader dei NSI (in buona parte ex-dirigenti del partito comunista sovietico) comprendono bene che solo la Russia potrebbe offrire loro la sicurezza di cui hanno bisogno, ma temono che una re-integrazione formale farebbe loro perdere, potere, prestigio, lo status internazionale recentemente acquisito e, forse, anche l'identità—per i propri neonati stati e per sé stessi in persona.

Pertanto, è probabile che questi capi di stato cercheranno di mantenere, almeno sul piano nominale, l'indipendenza dei rispettivi stati. Rinunciarvi sminuirebbe il loro prestigio e ruolo personale. Allo stesso tempo, essi saranno costretti a cercare protezione e risorse a Mosca. In altre parole, essi cercheranno la quadratura del cerchio: questo non è un fatto raro in sé nella storia della politica internazionale, ma difficilmente l'obiettivo viene raggiunto. Data la debolezza negoziale con cui i NSI si misureranno nel tentativo, è improbabile che lo sarà questa volta. I NSI potranno rimanere nominalmente indipendenti (dopotutto, Ucraina e Bielorussia hanno sempre avuto un proprio seggio all'Onu) ma, se le tendenze attualmente in corso continueranno, i propri destini saranno sempre più legati a quello della Russia.

Se e fino a che punto ciò avverrà attraverso il meccanismo della CSI, è solo relativamente importante. Forse la CSI si consoliderà fino a divenire una credibile organizzazione internazionale regionale, ma questo sembra poco probabile. Più probabile è invece che diventi uno strumento attraverso il quale la Russia potrà esercitare la propria pressione politica in modo che questa risulti più presentabile al mondo esterno, ed in particolare all'Occidente.

Forse i NSI manterranno quindi la propria indipendenza, almeno sul piano nominale. Forse una CSI dominata dalla Russia si vedrà conferiti poteri sovranazionali in alcune aree ma non in altre, e la partecipazione dei NSI nelle varie materie di cooperazione nella CSI sarà difforme: ma mentre una CSI á la carte potrà sortire l'effetto sperato dalle parti contraenti nel breve termine (consentire alla Russia di riasserire la propria influenza e ai NSI di mantenere bandiera ed inno nazionale). Ma non potrà eludere a lungo la questione fondamentale se questi stati rimarranno effettivamente sovrani o se (come sembra via via più probabile) essi diverranno di nuovo parte della Grande Russia. 

Qui ci riproponiamo di analizzare in maggiore dettaglio la politica estera della Russia verso quest'area geografica. È evidente che dagli sviluppi di questa dipende in buona misura il futuro della stabilità in Europa, e, di più, se l'Europa si avvia verso una nuova bipolarizzazione (Occidente e CSI, con forse un'area grigia tra i due) oppure verso una multipolarizzazione frammentaria e discontinua. L'interesse occidentale è palese, ma i pareri discordano su come i nostri interessi sarebbero meglio protetti: da una nuova divisione in blocchi, anche se non necessariamente in conflitto tra di loro? o da un'Europa frammentata, che interponga il maggior spazio possibile tra Occidente (comunque definito) e Russia?

La politica estera della Russia verso il "vicino estero"

Nuove tendenze nella politica estera russa

I paragrafi che seguono tratteranno le trasformazioni in corso nella politica estera russa e le sue implicazioni per l'Occidente. È quello che è stato a volte definito il "periodo romantico" delle relazioni post-sovietiche tra Russia e Occidente  finito? È la rinnovata dinamicità russa una nuova minaccia per la sicurezza occidentale? È in corso una ricostituzione, de facto se non de jure, della vecchia URSS? Quali sono le opzioni politiche per l'Occidente?

Le trasformazioni del post-1991, è stato detto, hanno messo la Russia in una situazione di equilibrio instabile "tra Impero e democrazia".xiii Secondo questa tesi, non è ancora chiaro se la Russia post-comunista diventerà uno stato veramente democratico (con conseguenti buone relazioni con l'Occidente) o continuerà a percorrere la strada imperiale della Russia zarista e dell'URSS (producendo così nuovi attriti e conflitti internazionali).

L'alternativa non è però così chiara e definita come la si vorrebbe porre. Esiste veramente un quid-pro-quo tra democrazia e impero? Probabilmente no. Molte democrazie sono state potenze imperiali. Non ci sono ovvi motivi per ritenere che la Russia, anche se completamente democraticizzata, non dovrebbe nutrire mire espansionistiche. Anzi, con il consolidamento della democrazia (e con il concomitante sviluppo dell'economia di mercato) l'influenza internazionale della Russia presumibilmente aumenterà. Ed infatti, mentre le riforme economiche sono ancora lungi dal produrre risorse economiche fresche da mettere a disposizione di un'ambiziosa politica estera, Mosca si sta già predisponendo a giocare un ruolo da grande potenza nello scacchiere internazionale. Questo si verifica particolarmente nei confronti dei NSI della CSI, ossia le ex-repubbliche sovietiche meno i tre stati baltici—a cui, almeno per il momento, la Russia sembra aver più o meno "rinunciato" (ma per quanto tempo?) dal punto di vista geopolitico. A marcare il significato particolare che Mosca attribuisce a questa regione, è divenuto di uso comune in Russia, anche a livello ufficiale, il termine "vicino estero", che già in sé lascia trasparire una prerogativa speciale, una sorta di implicito diritto di prelazione da parte di Mosca.

In realtà, si potrebbe argomentare che la vera alternativa per la Russia non è tra democrazia e impero, ma piuttosto tra l'integrazione internazionale (ivi compresa la cooperazione con l'Occidente) ed il nazionalismo, russo o pan-slavo che sia. Le due ultime variabili possono conciliarsi con ciascuna delle prime due. Semplificando, si potrebbe dire che, durante i suoi primi due anni di esperimenti con la democrazia, la politica estera russa ha zigzagato tra integrazione internazionale e nazionalismo. Nel 1992 la Russia esplicitamente elevò al massimo livello di priorità le relazioni con l'Occidente. Il Presidente Jeltsin ed il Ministro degli Esteri Kozyrev diressero questa fase con mano ferma, superando le resistenze interne. Nel 1993, tuttavia, si sono verificati alcuni cambiamenti importanti: la Russia, economicamente prostrata e politicamente frustrata, cominciava a cercare opportunità internazionali per ereditare, almeno in parte, la statura geopolitica dell'URSS.

Il problema per la dirigenza di Mosca era come fare ciò senza antagonizzare l'Occidente, ed in particolare gli Stati Uniti, nel momento che Mosca cercava di ridare vita, almeno sul piano retorico, alla cooperazione internazionale con i vecchi alleati della Seconda Guerra mondiale—più, ovviamente, la Germania. Ma la Russia si presentava su un piano di debolezza nei confronti delle forti democrazie occidentali. Il Parlamento e l'allora vice-presidente Rutskoj sfidavano apertamente questa impostazione di Yeltsin e Kozyrev, che interpretavano troppo accondiscendente verso l'Occidente, e chiedevano, riscontrando ampi consensi, di far sì che la Russia tornasse ad essere protagonista. Nel Gennaio 1993 Jeltsin faceva in buona parte propria questa impostazione; la Russia procedeva quindi a ridimensionare l'attenzione verso Occidente e a concentrarla verso i NSI, e particolarmente quelli con forte presenza etnica russa, adducendo per questo due motivi fondamentali: il primo era la forte presenza etnica russa in molte di quelle aree (oltre 25 milioni di Russi vivono oggi all'"estero" nella CSI). Il secondo motivo era che la Russia doveva aiutare i NSI a difendere i propri confini, che essi stessi non erano evidentemente in grado di proteggere da soli: e questo sia nell'interesse dei paesi interessati, sia della Russia stessa, che vedeve così allontaanata la propria frontiera di sicurezza fino ai confini ex-sovietici.

Come si inserisce questa concezione del "vicino estero" di Mosca nella visione generale russa della sicurezza europea? In una certa misura, è possibile che si stia verificando una risurrezione della vecchia idea sovietica della "sicurezza pan-europea", tramite la quale l'URSS voleva diluire l'efficacia della NATO e contemporaneamente marginalizzare il ruolo degli USA in Europa. Recenti affermazioni del ministro della Difesa russo Graciov fanno pensare che la nuova Russia, non potendo realisticamente pensare di far parte della NATO nel prevedibile futuro e neanche potendo impedire un possibile allargamento di questa verso altri PECO, voglia cercare di indebolirla invischiandola in una rete di corresponsabilità (se non addirittura, come era apparso verso la metà del 1994, di subordinazione) con la CSCE. Se questo tentativo avesse successo, il potere relativo della Russia in Europa ne risulterebbe naturalmente rafforzato. 

È probabile però che questo tentativo sia destinato a fallire come quelli precedenti. Tuttavia, dal fatto stesso che sia avvenuto, si deduce che sarebbe ingenuo per l'Occidente pensare che la politica estera di una grande potenza come la Russia (ancorché indebolita e non più ostile come prima) possa essere sempre in sintonia con le percezioni di sicurezza dei paesi occidentali. L'Occidente per questo non può aspettarsi, e quindi non dovrebbe cercare di ottenere, l'accordo della Russia su ogni questione, o crisi, con implicazioni di sicurezza che si possa aprire in Europa. Cooperare con la Russia (il che è auspicabile ed in alcuni casi indispensabile) non vuol dire necessariamente essere d'accordo su tutto (il che non è realisticamente pensabile).

In questo senso, il problema per le democrazie occidentali all'indomani della Guerra Fredda è simile a quello cui si trovarono di fronte le potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale: come reintegrare una grande potenza sconfitta nel sistema internazionale. Il problema è semmai più grave nel 1994 che nel 1919, perché la Russia non è stata sconfitta militarmente. A Versailles i vincitori scelsero una goffa via di mezzo: essi umiliarono con arroganza la Germania sconfitta, l'accusarono ingiustamente di aver scatenato il conflitto, ma non la occuparono e non ne prevennero la rinascita economica e militare—che, date quelle premesse, sarebbe stata inevitabilmente ostile. Oggi l'Occidente vede con favore (anche se fa poco per favorire) il tentativo di rinascita economica russo, ma se questo avrà successo l'Occidente dovrà affrontarne le conseguenze politiche e militari.

Sarebbe illusorio pensare che una Russia economicamente solida sarebbe politicamente acquiescente. La Russia avrà le sue legittime ambizioni, e queste dovranno essere appropriatamente collocate nel panorama internazionale. Il pericolo è che, mutatis mutandis, la Russia post-comunista possa ripetere il precedente della Germania di Weimar: economicamente e politicamente riformata, ma isolata e ostracizzata all'estero.

Interessi fondamentali e strumentalizzazione politica

Il governo di Mosca giustifica formalmente il proprio crescente coinvolgimento nell'ex-URSS in base a quattro argomentazioni fondamentali, tutte definibili in termini negativi piuttosto che positivi. Mosca sostiene di dover intervenire allo scopo di prevenire:

i) abusi nel campo dei diritti umani;

ii) la proliferazione delle armi nucleari; 

iii) il diffondersi del fondamentalismo islamico;

iv) una possibile conflagrazione dei conflitti regionali.xiv 

Nel perseguire questi obiettivi, sostiene Mosca, la Russia sta rendendo un prezioso servizio alla comunità internazionale, e pertanto non solo non dovrebbe essere ostacolata, ma dovrebbe invece essere ricompensata sia in termini finanziari, sia con un'adeguata legittimazione internazionale del suo operato.

In realtà, la Russia ha manipolato, strumentalizzandoli, i conflitti locali tra i NSI (gettando alternativamente acqua o benzina sul fuoco, decidendo di volta in volta a secondo dei propri interessi) allo scopo fondamentale di espandere l'influenza russa. Come minimo, data la limitata capacità russa di agire mentre il paese attraversa gravi travagli interni, questo ha però voluto negare a potenziali competitori regionali—come la Turchia, l'Iran, il Pakistan e la Cina—di acquisire influenza a loro volta. I cosiddetti interventi russi di "peacekeeping" nella CSI sono stati uno strumento verso il conseguimento di questo fine.

Ma il "peacekeeping" russo è anche, in grande misura, importante per fini interni. Sia che riesca in qualche misura a raggiungere i quattro obiettivi ufficiali elencati sopra, sia che porti ad un'almeno parziale espansione dell'influenza politica russa, sia che non riesca alla fine ad ottenere nessuno dei due obiettivi, il solo fatto che la forze armate russe siano impegnate nel "peacekeeping" comporta il rafforzamento di un'identità professionale, di un senso di appartenenza, di una raison d'etre che i militari russi avevano perso dopo la crisi del 1991. Avendo la Russia pressoché completato il ritiro dall'Europa orientale e dai paesi baltici, e trovando i soldati al loro ritorno un'economia disastrata e poche possibilità di lavoro nel settore civile, e persino difficoltà a reperire un alloggio, il problema di cosa fare con le divisioni che si smobilitano probabilmente richiederà tempo prima di poter cominciare ad essere risolto in modo definitivo.

In questo senso, la politica russa verso il "vicino estero", piuttosto che di mantenimento della pace, potrebbe essere meglio definita di mantenimento dell'orgoglio dei militari russi (e, più in generale, del complesso militare industriale). In quest'ottica, se il tentativo avrà successo, il "peacekeeping" potrà divenire una preziosa fonte di stabilità interna in Russia, perché un "establishment" militare più stabile sarebbe un interlocutore più prevedibile e probabilmente costruttivo per l'Occidente. 

Viceversa, se le forze armate russe dovessero, per così dire, andare alla deriva, aumenterebbe il pericolo che tra di esse possano sorgere raggruppamenti corporativi, magari con forti caratterizzazioni politiche di tipo nazionalistico, che potrebbero indebolire il potere centrale fino a rovesciarlo. Alcuni capi carismatici potrebbero cercare di ricostruire l'orgoglio perduto nell'unico modo in cui sarebbero capaci di farlo, e cioè tramite pressioni per una politica estera più aggressiva o comunque meno accondiscendente verso l'Occidente. Una ritrovata fiducia nella propria dignità, invece, darebbe ai militari una maggiore propensione nella conservazione delle caratteristiche fondamentali dell'assetto geopolitico del dopo Guerra Fredda (e cioè un sostanziale controllo democratico da parte dei civili della politica interna, relazioni cooperative con l'Occidente ed il rispetto di un'area dei PECO effettivamente indipendente).

In questa luce, i militari sono di importanza fondamentale per la politica estera russa. Il morale è mediamente basso, le diserzioni crescono e i mezzi scarseggiano, ma nel frammentato panorama politico russo, essi rimangono comunque, nonostante i problemi che li affliggono, il gruppo politico più coerente. Ciò resta vero anche se sono stati indeboliti dai tagli al bilancio, dall'abolizione dei privilegi di cui godevano durante l'era sovietica, e pure se non necessariamente uniti su ogni singolo aspetto della politica estera. Ma le forze armate sono oggi più libere di ieri politicamente. 

Durante l'era sovietica, essere erano subordinate al Partito Comunista, che ne nominava i vertici e le controllava tramite la capillare rete di commissari politici. Ora, invece, le forze armate hanno acquisito una connotazione politica indipendente. Questa caratterizzazione è apparsa chiaramente, per esempio, durante la rivolta dell'Ottobre 1993, quando gli alti comandi esitarono non poco prima di concedere il proprio appoggio al presidente Jeltsin. E quando tale appoggio infine accordarono, non fu per semplice obbedienza al potere costituito (e la cosa era resa ancora più confusa dal fatto che non fosse del tutto chiaro a nessuno chi tale potere impersonasse) ma per scelta politica.

Conseguentemente, i militari sono oggi tra i pochi che possono vantare un credito politico nei confronti del presidente Jeltsin. L'appoggio a quest'ultimo rimane quindi condizionato. Egli è visto, per ora (fine 1994), come la migliore garanzia di stabilità politica interna, e quindi di sicurezza, ma questa percezione potrebbe facilmente cambiare.xv Mentrerano e il presidente ed il ministro degli esteri che gestivano la politica estera russa nei primi due anni immediatamente successivi alla caduta dell'URSS, oggi i militari sono co-decisori a tutti gli effetti.

La situazione in Ucraina

Ai fini della nostra analisi, il parametro più rilevante da analizzare nella CSI, dopo la politica estera della Russia nell'area del "vicino estero" di cui si è detto sopra, è senza dubbio il futuro dell'Ucraina. Potrà, e come, questo paese rimarrà indipendente? Diverrà l'Ucraina internamente stabile o invece sarà travolta dalle divisioni etnico-politiche e dal tracollo economico? Come si svilupperanno i rapporti bilaterali con Mosca? La risposta a questo quesito è di fondamentale importanza per gli interessi della vicina Russia e quindi per il futuro della sicurezza dell'intero continente.

Affari Interni

Dopo tre anni di indipendenza, solo i primi timidi passi sono stati compiuti nella direzione di una vera riforma economica. Kiev ha appena firmato un accordo con il fondo monetario internazionale che dovrebbe aprire la strada al finanziamento internazionale per ulteriori sforzi in questa direzione. Sono in corso di redazione leggi e decreti per la liberalizzazione dei prezzi e la riduzione dei sussidi alle industrie in perdita. Il presidente Kuchma sembra essere più sensibile alla necessità di cambiamento ora di quando non era primo ministro, almeno sul piano retorico. Tuttavia, egli ha nominato ben pochi riformatori nel governo, ed il Parlamento resta fortemente influenzato dal rinato Partito Comunista, il più grande e meglio organizzato dei gruppi parlamentari.xvi

Lo stato dell'economia continua a peggiorare:xvii il Pil è diminuito del 26% nella prima metà del 1994; la produzione industriale del 36%; quella di beni di consumo del 40%. Meno si sa di quella agricola, ma i danni in quel settore sembrano essere minori (molta produzione viene consumata sul posto e non contabilizzata, e l'Ucraina non ha sofferto di carestia alimentare) anche se solo il 2% della terra è stata privatizzata e la produttività è minima. I salari reali sono calati del 31% rispetto ad un anno fa.

La politica monetaria ha avuto una salutare correzione in senso restrittivo negli ultimi mesi dell'amministrazione Kravchuk, ed è responsabile almeno in parte della contrazione economica. D'altro canto, la stretta creditizia ha reso possibile il calo dell'inflazione (che era giunta quasi a livelli iperinflazionistici) al 6% mensile. Il neo-presidente Kuchma avrà però difficoltà a continuare tale politica, tuttavia, sia perché ulteriori sacrifici che questa imporrebbe sulla già provata popolazione, sia perché ad essere colpita più duramente è la base di supporto più importante per Kuchma: l'industria pesante, ivi compreso il complesso militare-industriale, che secondo stime correnti da solo ammonta a circa il 30% di tutto il settore industriale del paese.

Sul piano meramente politico, restano importanti divisioni tra l'est del paese (più russo, o russificato), l'ovest (più nazionalista e pro-occidentale), e la Crimea (che è un caso a sé). Ma una certa recente attenuazione degli attriti tra le parti sembra aver fatto recedere, almeno per il momento, il pericolo di una definitiva spaccatura nel paese.

Sul piano militare, la nomina, per la prima volta, di un ministro della difesa civile, viene generalmente interpretata come una tappa miliare nella costruzione di rapporti veramente democratici tra civili e militari. Lo stesso dicasi per la ristrutturazione in corso in tutta la piramide gerarchica della difesa, che pone l'Ucraina più in linea con i criteri occidentali di controllo delle forze armate da parte del potere politico democraticamente eletto. 

Relazioni con la Russia

Buone relazioni tra Ucraina e Russia sono una condizione indispensabile per la stabilità nella regione dell'Europa centro-orientale e dell'Europa tutta. Pertanto, ed anche per il fatto che attraverso l'Ucraina l'Europa occidentale riceve petrolio e gas dalla Russia, il miglioramento di queste relazioni è nell'interesse dell'Occidente. 

Un trattato bilaterale di amicizia e cooperazione con la Russia è attualmente in fase di negoziazione, e viene descritto da entrambe le parti come quasi completato. I nazionalisti ostaggiano questo trattato, che vedono come uno strumento di influenza russa sul paese che ricorda troppo da vicino i vecchi trattati di amicizia e cooperazione che suggellavano i rapporti "fraterni" tra gli "alleati" del Patto di Varsavia. Il presidente Kuchma, invece, sostiene che il trattato implicherebbe un esplicito e definitivo riconoscimento dell'Ucraina come un interlocutore internazionale a pieno titolo da parte della Russia, e quindi rafforzerebbe l'indipendenza e la sovranità del paese. 

L'attuale miglioramento delle relazioni, particolarmente per quanto concerne le questioni della Crimea e della flotta del Mar Nero, va salutato quindi con soddisfazione.  La richiesta della Crimea (formalmente "regalata" per decisione di Khrushciov dalla Russia all'Ucraina nel 1954) di riunificazione con la Russia non è stata spinta con vigore nei mesi recenti, anche perché le varie fazioni crimee si sino più che altro combattute fra di loro.

Per quanto concerne la flotta, un accordo sembra alle porte. Probabilmente, ad una una divisione delle unità, seguirà un'affitto dell'Ucraina alla Russia delle proprie navi, in cambio del cancellamento (anche se forse non totale) del debito ucraino verso Mosca e di un qualche accordo per la continuata fornitura di idrocarburi. Queste navi, però, secondo l'accordo in fieri, proteggerebbero anche le acque ucraine. La Russia dovrebbe inoltre ottenere l'accesso al porto di Sevastopol, in Crimea. Si avrebbe quindi, in effetti, una flotta nuovamente unificata.

In conclusione, anche se restano tensioni latenti e questioni irrisolte, sembra che la crisi bilaterale del 1992-1993 sia in via di attenuazione. È probabile che i rapporti continueranno a migliorare, sia per motivi economici, sia per comuni interessi militari (mantenimento della flotta nel Mar Nero) sia per la profonda comunanza culturale tra i due popoli. Inoltre, l'Ucraina, anche se con riserve, sembra essere meno critica verso le operazioni di "peacekeeping" russe nella CSI.

Ciononostante, Kuchma cercherà di mantenere l'indipendenza del paese. Da parte sua, la Russia sembra essere meno interessata di quanto avrebbe potuto sembrare qualche mese fa nella reintegrazione formale dell'Ucraina nella "Grande Russia", che sarebbe fonte di costi più che di benefici. In altre parole, Mosca sembra essere più interessata a mantenere una forte leva negoziale nei confronti di Kiev, e non a costringerla in ginocchio per poi doverla aiutare a risollevarsi! Per la Russia sarà più vantaggioso accrescere la propria influenza sull'Ucraina debole ed indipendente che essere costretta a dedicare preziose risorse al salvataggio della sua economia.

Implicazioni per l'Occidente

Anche se per motivi di Realpolitik, e non per l'altruismo ufficiale che si vorrebbe far credere, la Russia ha effettivamente contribuito a prevenire, in varia misura, il degenerare dei quattro pericoli (proliferazione, conflagrazione, fondamentalismo islamico, e abusi dei diritti umani, probabilmente in quest'ordine d'importanza) cui si accennava sopra. La questione ancora aperta è se i paesi dell'Occidente debbano o no prendere posizione nei confronti della politica russa verso il "vicino estero", e, se sì, quale debba essere questa posizione. 

Ma deve la posizione Occidentale (ammesso che, come sarebbe auspicabile, ce ne fosse una che raccogliesse un consenso tra i maggiori paesi dell'Alleanza atlantica) essere basata sulle intenzioni dichiarate del governo di Mosca, oppure sul suo operato nell'area in questione?

I nostri interessi strategici e capacità di risposta portano a concludere che ogni presa di posizione in questo campo si debba basare pragmaticamente, sulle modalità e le ripercussioni della politica russa. In altre parole, il ristabilimento di un alto grado di influenza russa nella regione non è positivo o negativo in sé; dipende dalle conseguenze che esso avrebbe per la stabilità in Russia e la sicurezza europea più in generale. 

In ogni caso, sarebbe velleitario pretendere di impedire alla Russia di portare avanti una sua politica regionale che non può prescindere dai propri forti interessi di tipo politico, strategico, economico. L'Occidente non ha i mezzi, e ammesso che li avesse non avrebbe la volontà politica, per contrastare la Russia nelle regioni a lei contigue, soprattutto in Asia e nel Caucaso. Ma accettare questo limite non vuol dire lasciare a Mosca carta bianca e campo libero.

A differenza di quanto accadeva con il Patto di Varsavia, quando l'Occidente non aveva contatto alcuno con i paesi satelliti, e quindi non poteva influenzarne il comportamento internazionale, oggi il Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico (NACC) la Partnership for Peace della NATO offrono strumenti per intervenire direttamente presso i NSI. Questo pone l'Occidente in grado di influenzare, anche se solo in parte, il ruolo della Russia verso di essi.

A proposito del quale è necessaria un' altra considerazione, di tipo più generale. Se la Russia vedesse accettato (se non proprio autorizzato o legittimato) il proprio "intervento di pace" nel "vicino estero", essa potrebbe cambiare il proprio atteggiamento verso il peacekeeping in generale. Da chiedersi qui è se un accordo politico sull'area CSI porterebbe Mosca ad essere più cooperativa in altre aree di maggiore interesse strategico per l'Occidente. Per esempio, Mosca ha, con riluttanza, accettato il peacekeeping (ed ha rifiutato il peacemaking) in Bosnia-Erzegovina. Questa riluttanza è dovuta anche al fatto che questi interventi potrebbero stabilire un precedente sulla base del quale i Caschi Blu potrebbero in linea di principio essere un giorno spediti a portare a termine missioni analoghe nel "vicino estero", interferendo così con l'influenza russa in quei paesi. Ma se la Russia vedesse in qualche modo assicurato un suo ruolo legittimo in quest'area geografica, essa potrebbe più facilmente riconciliarsi con "precedenti" che potrebbero crearsi come conseguenza dell'intervento internazionale (con coinvolgimento ONU, CSCE o NATO che sia) altrove.

Inoltre, in futuro, la Russia potrebbe anche accettare di cooperare in queste missioni con forze provenienti da paesi al di fuori della CSI. Questa evenienza, al momento apparentemente remota, potrebbe verificarsi se: a) le forze armate russe, anche con l'apporto (difficilmente più che nominale) di altre forze CSI, non riuscissero ad acquisire e mantenere il controllo delle zone interessate alle operazioni;xviii e b) come conseguenza di a), ci dovesse essere un pericolo di conflagrazione di conflitti periferici alla stessa Russia.

Anche se con riluttanza, Mosca potrebbe preferire perdere l'esclusività del controllo sulle regioni coinvolte ma proteggere l'integrità del paese. Forze ONU, in questo caso, (e se i paesi membri di quell'Organizzazione ne rendessero di disponibili in quantità e qualità sufficienti, il che non sarebbe facile!) potrebbero essere spiegate nel "vicino estero" accanto a forze CSI. Questo spiegamento congiunto CSI-ONU potrebbe non essere importante in sé e per sé, ma per il fatto che contribuirebbe a rendere la Russia più cooperativa in missioni analoghe altrove, come in Bosnia-Erzegovina, dove gli interessi dei paesi occidentali sono, e saranno, più direttamente coinvolti.

Questa linea di pensiero, naturalmente, dà per scontato un comportamento razionale da parte di Mosca: meglio coinvolgere l'ONU (e quindi l'Occidente) che perdere il controllo del "vicino estero" e con esso, magari, della periferia russa. Tale scelta, tuttavia, non deve naturalmente essere data per scontata. Essa potrebbe essere ostacolata, per esempio, dai militari russi, che potrebbero invece sfruttare le difficoltà militari per insistere ed ottenere una maggiore quota di risorse economiche nazionali per poter compiere ogni missione richiesta nel "vicino estero" senza quelle che essi definirebbero "interferenze internazionali" nella regione.



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